Mario Ascheri è nato a Ventimiglia nel 1944. Si è laureato in Giurisprudenza a Siena, come borsista del Collegio Mario Bracci nella Certosa di Pontignano e nella città ha messo radici. Già docente di storia del diritto e delle istituzioni a Sassari, Siena, Roma 3 e membro del Beirat del Max-Planck-Institut di Frankfurt/Main, è nel Consiglio dell’Istituto storico italiano per il Medioevo. E' un antico amico delle autonomie e in particolare degli autonomisti che nei primi vent'anni del XXI secolo si sono tenuti in contatto con la newsletter Toscana Insieme. Pubblichiamo alcune sue riflessioni sulle autonomie, risalenti al 2022 e già in gran parte diffuse attraverso la rivesta "Libro Aperto" e in altri interventi. Nonostante lo scarto evidente fra le speranze e la realtà delle autonomie delle regioni italiane, la sussidiarietà non perde attualità, come principio cardine della nostra storia e nella nostra Costituzione. Le autonomie personali, sociali e territoriali fioriscono solo nella sussidiarietà, come processo dal basso verso l’alto. Nessuno più dei lettori del Forum 2043 e di coloro che sono ancorati ai principi della Carta di Chivasso, ne comprende l’importanza.
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Tra le speranze costituzionali e le eredità di questi lunghi decenni repubblicani, qualche riflessione recente può essere utile all’importante dibattito in corso.
Un libro del 1976, che si può a ragione ritenere un ‘classico’ per gli specialisti, tracciava «un bilancio obiettivo e disincantato» della prima legislatura regionale, del 1970-1975, cogliendo le nuove istituzioni in un momento di transizione, destinato a riproporsi ancora una volta oggi. Già allora da parte di Franco Bassanini1 si poteva ammettere che quella legislatura «non ha, a ben vedere, né realizzato né definitivamente distrutto le speranze di chi ha visto nell’istituzione delle Regioni l’innesco di un grande movimento di rinnovamento e riforma del nostro assetto istituzionale, capace di investire contemporaneamente l’amministrazione centrale ed il governo locale». Quali i problemi e le speranze? l’Autore ne proponeva questa acuta sintesi2:
“Avviata cinque anni fa tra grandi speranze e grandi timori, la riforma regionale è giunta oggi ad una svolta decisiva. Il modello di Regione ‘politica’ delineato nella Costituzione e negli statuti regionali – come essenziale punto di snodo tra Stato e comunità locali – implica importanti riforme istituzionali: dal trasferimento alle Regioni e agli enti locali di rilevanti poteri e di ingenti risorse finanziarie ancora gestiti dalle burocrazie ministeriali, alla soppressione di gran parte degli enti pubblici funzionali che costituiscono la trama del pluralismo perverso e del clientelismo a sfondo corporativo su cui sono costruite, in buona misura, le fortune del sottogoverno nazionale: da una generale riforma del governo locale, ancora regolato da leggi fasciste o prefasciste, ad una radicale riorganizzazione delle amministrazioni centrali dello Stato, che si trasformi da organi di gestione burocratica e routinière di poteri di amministrazione attiva in strumenti efficienti di programmazione, indirizzo e coordinamento. Se queste riforme non saranno attuate o almeno avviate nel corso della seconda legislatura, finirà per consolidarsi il modello della ‘Regione amministrativa’ rendendo inevitabile la burocratizzazione degli apparati regionali e irresistibile la tendenza a ridurre il ruolo delle Regioni alla distribuzione di sovvenzioni contributi ed incentivi ed alla gestione di servizi locali in concorrenza con comuni e province (…)”.
La citazione è lunga, ma a distanza di quasi 50 anni quella riflessione, anche tenuto doverosamente conto di quanto sta emergendo dal dibattito in corso, il trend risultato prevalente, naturalmente con luci ed ombre, è per lo più quello che Bassanini paventava. I motivi sono molto complessi e ben noti ai giuspubblicisti e ai politici più attenti, tanto che i media hanno difficoltà a comunicarli al pubblico più largo senza semplificarli seguendo gli slogan degli schieramenti politici. E già questo è un problema se ci si vuole dare, come doveroso, una nuova prospettiva: positiva.
La riforma del 2001, come si sa, all’art. 118 ultimo comma proclamava che
“Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”.
Si sa bene, anche, che tra i promotori culturali - per così dire - della riforma ci fu la onlus Cittadinanza Attiva fondata nel 19783 e radicata com’è naturale in modo diversificato nel Paese, ma con buona capacità di aggregare anche altri gruppi di partecipazione politica non inquadrati nei partiti.
Il suo animatore Antonio Gaudioso ha lasciato la segretaria generale a marzo del 2021, dopo aver assunto incarichi presso l’Istituto superiore di sanità e in commissioni governative (come la LEA, per i Livelli Essenziali di Assistenza) grazie alla fiducia del ministro Roberto Speranza4. Gli è succeduto Anna Lisa Mandorino, che nel suo discorso di insediamento (caricato nel web5) ha parlato molto dei problemi sanitari, ovviamente, ma anche dei temi tradizionali della partecipazione civica, del terzo settore, dei beni comuni, delle disuguaglianze cui porre argine ecc. ecc. Non però della sussidiarietà del 2001, pur essendo essa ben presente nell’utile sito dell’associazione. Il quale interpretava in modo articolato la riforma. Da un lato infatti ricordava
“che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni necessarie per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività (corsivi miei, n.d.a.). L'intervento dell'entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l'autonomia d'azione all'entità di livello inferiore”.
Insomma, qui il potere pubblico è auspicato sussidiario rispetto al privato, che come potere operativo può essere momentaneamente in difficoltà. Dall’altro lato si vedeva sussidiarietà, come
“un elevato potenziale di modernizzazione delle amministrazioni pubbliche, in quanto la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva può concorrere a migliorare la capacità delle istituzioni di dare risposte più efficaci ai bisogni delle persone e alla soddisfazione dei diritti sociali”
per cui sussidiario diviene il
“cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi intermedi, (che) deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine”.
Si esemplificava con la
“cura dei beni comuni. Entrambi, volontari e cittadini attivi, sono ‘disinteressati’, in quanto entrambi esercitano una nuova forma di libertà, solidale e responsabile, che ha come obiettivo la realizzazione non di interessi privati, per quanto assolutamente rispettabili e legittimi, bensì dell'interesse generale incrociandosi nella propria opera, s’intende, per irrobustire l’intervento pubblico”.
Sussidiarietà biunivoca per così dire, perché l’uno sussidia l’altro in situazioni diverse: i cittadini per essere più liberi; le istituzioni pubbliche per realizzare meglio gli interventi socialmente più rilevanti. Sono posizioni coerenti da un lato con la crisi dei partiti e con il variegato e disperso associazionismo civico che i partiti sussidiano (ecco altra situazione ancora di sussidiarietà) fino al punto di surrogarli addirittura. Quanto sembra avvenuto con il Movimento 5 stelle, che inevitabilmente ha assunto i connotati del partito più o meno ‘tradizionale’ - se pur ancora esso esiste, altrimenti il Movimento fu, come sempre ho pensato, partito sin dall’esordio, mutato nomine pour cause. Dall’altro lato la coerenza è con la crescente difficoltà delle istituzioni pubbliche di soddisfare le aspettative dei cittadini, anche per contrastare una spesa crescente ma inefficiente.
Tuttavia se andiamo a un testo accreditato come la Treccani leggiamo:
“principio di s., il concetto per cui un’autorità centrale avrebbe una funzione essenzialmente sussidiaria, essendo ad essa attribuiti quei soli compiti che le autorità locali non siano in grado di svolgere da sé. Con interpretazione più recente, con riferimento alla Comunità europea e, in particolare, alla successiva Unione degli Stati europei, il principio secondo il quale dovrebbe essere riservata alla Comunità, come organismo centrale, l’esecuzione di quei compiti che, per le loro dimensioni, per l’importanza degli effetti, o per l’efficacia a livello di attuazione, possono essere realizzati in modo più soddisfacente dalle istituzioni comunitarie che non dai singoli Stati membri“ (corsivi miei).
Qui i cittadini sono solo destinatari indiretti della sussidiarietà, che riguarda il rapporto migliore possibile tra il potere centrale e le articolazioni periferiche, per così dire. Ed è alla sussidiarietà che secondo un principio di astratta razionalità istituzionale dovrebbe attenersi lo Stato nazionale nel rapportarsi alle Regioni e agli enti locali. Tutto quel che è possibile, in altre parole, si dovrebbe poter fare a livello locale in coerenza con l’art. 5 Cost. per cui
“La Repubblica (…) riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei suoi servizi il più ampio decentramento amministrativo e adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Sennonché, com’è ovvio, quelle comunità sono riconosciute come originarie, ma è tutt’altro che esplicitato cosa debba intendersi per esigenze delle autonomie e del decentramento, trovandoci di fronte a uno di quegli articoli che per la loro genericità sollecitarono la critica inesorabile di Arturo Carlo Jemolo6.
Peraltro, la vicenda sanitaria in corso ha mostrato la inevitabile elasticità interpretativa e applicativa della Costituzione (anche quando è chiara) in base a criteri lato sensu politici, i quali erano ovviamente ispiratori della riforma del 2001 e della proposta cui Matteo Renzi ha affidato il suo nome.
Già, ma la polisemia di sussidiarietà, dal significato inter-istituzionale a quello partecipativo civico di Cittadinanza attiva, mette in guardia sulla sua inevitabile storicità. Non esiste una sussidiarietà atemporale, ma solo quella nell’ hic et nunc della contingenza politica più o meno lunga e stressante, com’è la nostra.
Pertanto l’esperienza storica, non solo nostra, sembra indicare che la sussidiarietà risponda a un giudizio descrittivo di una realtà complessa cui si vuole dare ordine. Di fronte al pullulare più o meno pre-ordinato e/o sovraordinato di poteri, si cerca di dare loro una coesistenza ordinata ricorrendo a quella specie di mantra che è la sussidiarietà.
Con l’indebolirsi dei servizi pubblici, l’organizzazione privata dei cittadini legata a problemi specifici, e non politici generali, ha reso utile la recezione della sussidiarietà e ha motivato dall’alto livello costituzionale le normative ad essa ispirata a favore del terzo settore e del volontariato.
Che poi la soluzione più razionale sia quella così rafforzata dal superiore livello normativo, non sembra quesito astrattamente risolvibile. Un tempo si diceva per altre questioni entia non sunt multiplicanda al di là del necessario e il rasoio di Occam era uno strumento idoneo nel suo mondo. Oggi non solo si può parlare ancora di ‘enti inutili’ (per lo più intangibili, però), ma non sembra che si faccia nulla per evitarne la creazione di nuovi.
Un qualsiasi bisogno legittima un ente se supportato dalla giusta pressione politica e mediatica.
L’oratoria politica e la sua pervasività grazie a media compiacenti è fortissima a tutti i livelli.
Basta usare il mantra giusto. Le novità e la pluralità istituzionale concorrenziale in senso positivo che le Regioni dovevano attivare, nei propositi dei più ad esse favorevoli, non sembrano aver avuto luogo nel loro complesso. I vari livelli di potere, come avvenuto di regola nella storia delle istituzioni, si ritagliano spazi di potere che curano di salvaguardare con grande attenzione e nel nostro caso le molte cause motivate dai conflitti Stato-Regioni discusse dalla Consulta l’attestano chiaramente.
Quella riforma politica e amministrativa che si era largamente condivisa si deve purtroppo riconoscere che è rimasta per lo più non realizzata nei termini largamente auspicati, mentre anche l’Unione europea ha dato prove assai deludenti contro ogni aspettativa. Nel caso italiano, la nostra cultura giuridica ha costruito come sempre belle dottrine, ma la loro applicazione ha lasciato desiderare, affidata inevitabilmente a un ceto dirigente in larga misura inaffidabile o inconcludente.
Il problema è grave perché è profondamente radicato nella nostra storia: codici e Costituzione non bastano a evitare intrecci perversi come quelli che si sono manifestati palesemente ad esempio nella magistratura.
Il più grande giurista italiano nel Seicento, il card. Giovanbattista De Luca, inutilmente fautore di riforme nello Stato pontificio, sintetizzò il nostro DNA in poche parole:
“Theoricae generales idealiter ac in abstracto sunt verae, sed difficultas est in earum reductione ad praxim7”.
Sono tornato a lui – un grande “pratico”, che non fu mai professore - non a caso. Perché il vituperato tardo medioevo e l’età d’antico regime non ebbero in generale solo meno enti e livelli decisionali. Ci fu qualcosa di più: erano spesso anche meglio collegati tra loro, con la “rete” cui taluni oggi pensano. E proprio grazie al principio di sussidiarietà di cui nessuno parlava perché non concettualizzato.
Eppure, senza per ovvi motivi proporsi i grandi mantra partecipativi con la pervasività attuale, allora i poteri eminenti, principe o città dominante o signore feudale, si riservavano i poteri politico-militari dell’ente, la giustizia maggiore, le strutture portuali e viarie fondamentali e lasciavano per lo più ai poteri comunali locali la gestione dei beni pubblici, della sanità, dell’istruzione, delle strutture essenziali dai mulini ai pozzi e alle fonti, alla polizia campestre, alla tutela di ospedali, ospizi e chiese locali. Chi poteva permettersele, chiamava addirittura delle super-star da fuori (come s. Bernardino, ad esempio) per la predicazione della Quaresima e creava un “evento” di grande risonanza.
Quello che viene bollato come particolarismo e frammentazione giuridico-politica pre-codicistica si resse in gran parte sulla abnegazione delle comunità grandi e piccole prive di libertà politica e sottoposte a balzelli più o meno gravi, ma per il resto dotati di una libertà (vigilata, s’intende) di autorganizzazione talora impressionante.
Quel livello di governo locale, senza libertà politica sia chiaro, consentì però il radicamento di pratiche di partecipazione anche larga al governo della cosa pubblica con ampia rotazione nelle cariche e la loro sostanziale gratuità: nelle comunità minori demograficamente furono non infrequenti consigli comunali con un membro partecipante per nucleo famigliare. Quando non formalmente contrattuale, come pure avveniva per le realtà più importanti e da ‘coccolare’ con attenzione perché poste sui confini (e quindi esposte alle lusinghe dello Stato confinante), il rapporto del potere centrale con le comunità locali era per lo più prudente.
Non era solo questione di sempre possibili ribellioni dei residenti locali con devastazione delle proprietà cittadine in loco, ma di riserve reclutabili per i servizi militari e di forza lavoro da utilizzare nel capoluogo.
La separatezza centro-periferia fu sicuramente dura, per lo più, ma la sussidiarietà era imposta dalla mancanza pressoché totale di burocrazia e dalla comodità di fare affidamento sulle forze locali fortemente interessate al buon funzionamento di una serie di servizi che avrebbero altrimenti richiesto un impegno pesantissimo per il potere centrale.
L’inefficienza se non l’egoismo e il semplice disinteresse del centro facilitò la sussidiarietà, sempre diversa nel tempo qua e là, ma prassi radicata, operante senza tanti proclami formali. La sudditanza non era servitù e le comunità più cospicue seppero conservare molte delle libertà di governo originarie.
Pensiamo alla identità delle città venete sotto Venezia, o a quelle pontificie da Bologna a Perugia a Orvieto, o lombarde sotto Milano, alle piemontesi, alle toscane, o alle stesse città demaniali e feudali del sud.
Non c’era uniformità di disciplina, è ben vero, ma c’era la stessa tradizione di autogoverno che educava un ceto dirigente più o meno aperto ai bisogni della cittadinanza, e comunque dedito ad essi, in pura osservanza nei fatti della sussidiarietà. E il suo peso per i ceti locali poteva anche essere fatta valere con forza, come avvenne nei parlamenti dello Stato pontificio o in quelli più potenti: siciliani e sardi soprattutto8.
La differenza delle normative locali significava disuguaglianza, non c’è dubbio. Ma aveva dei risvolti soggettivi, di formazione e rafforzamento dell’autocoscienza identitaria, e risvolti oggettivi di relativa semplicità amministrativa, tanto lontani dalla complessa gestione centralistica studiata per il reddito di cittadinanza. Possibile che non si sia pensato di ricorrere a sistemi d’assistenza diretta locale come quella un tempo assicurata da enti comunali come quelli denominati Eca? Non potevano ora essere potenziati? Perché ricorrere a strane categorie di intermediari risultati poi inutili – come era prevedibile?
Per tornare a quel passato dimenticato, è vero che non c’era un governo centrale solidale sul quale poter contare nelle emergenze. Bisognava imparare a far da sé per lo più, sapendo imparare e creando comunità credibili. Ad esempio, favorire un’immigrazione qualificata era importante. La concorrenza dei centri locali non c’era proclamata apertis verbis, ancora una volta, ma c’era nei fatti, com’era nei fatti – anche con pesanti risvolti violenti tra vicini – la tutela dei confini per le proprie bestie, i coltivi, i frutti del bosco ecc.
E quella concorrenza inespressa era stimolo fortissimo al buongoverno locale.
Le cento e più città d’Italia, grandi e piccole, che tutti ammiriamo e sul cui passato costruiamo la nostra eccezionale realtà e potenzialità turistica, hanno secoli di autogoverno variegato alle spalle9. E persino regole deprecate poi, come il fedecommesso nobiliare, che poté però garantire la conservazione di strutture immobiliari importanti attraverso i secoli…
La discontinuità con quel mondo c’è eccome oggi, ma non sempre basta a connotare in modo positivo quello attuale10.
Dedicato a Gian Maria Varanini,
studioso molto attento alla storia dei rapporti tra i capoluoghi e i territori dipendenti,
che continuerà il suo impegno di ricerca
anche se ha ora terminato la sua docenza presso l’Università di Verona.
Autonomie e sussidiarietà, speranze e realtà
di Mario Ascheri
Siena, 2 febbraio 2025, Festa della Candelora
Note
1 Nel suo Le Regioni fra Stato e comunità locali, Bologna 1976, p. 5. Entro la abbondante bibliografia recente si veda Autonomie speciali e regionalismo in Italia, a cura di L. Blanco, Bologna 2020. Utile tra i periodici “Le Carte & la Storia”.
2 Nella pagina quarta di copertina, laddove concentrava il progetto-motivazione del libro.
3 Si veda al link https://www.cittadinanzattiva.it/chi-siamo.html (consultato il 10 settembre 2021).
4 Desumo dal link https://www.fortuneita.com/2021/03/28/nuovi-vertici-per-cittadinanzattiva/.
5 http://congresso2021.cittadinanzattiva.it/candidature-nazionali/segretario-nazionale.html.
6 Nel suo classico Che cos’è la Costituzione, ora con Introduzione di G. Zagrebelsky, Donzelli, Roma 1996, in cui la IV di copertina sintetizza efficacemente: «È bene che gli italiani tutti discutano appassionatamente i problemi costituzionali, ciascuno quelli che più sente… Come in tutti gli albori di nuovi assetti politici liberi, vi è una inclinazione al vago, alle formule che possono coprire le soluzioni più diverse. Bisogna, per quanto è possibile, che ciascuno cerchi di precisare le sue idee».
7 G.B. De Luca, Theatrum veritatis et justitiae, Venetiis, Apud Paulum Balleonium, 1716, tomus V, pars I: De usuris et interesse, adnotatio ad disc. 1, p. 10, n. 2.
8 Un rapido sguardo d’assieme nelle mie Istituzioni medievali, il Mulino, Bologna 1999, pp. 327-353. Sul problema discusso delle città-Stato ho messo una nota storiografica in https://ilpensierostorico.com/a-feud-on-italian-city-states-again-on-lorenzettis-buongoverno/.
9 Si veda ad esempio A. Dani, Cittadinanze e appartenenze comunitarie. Appunti sui territori toscani e pontifici di Antico regime, Historia et ius, Roma 2021 (con rinvii a precedenti lavori analitici).
10 Oggi molto discusso e incentrato, per aprire prospettive positive, sulla categoria delle ‘reti’, che dovrebbero appunto avviare alla soluzione dei problemi della complessità istituzionale; ricordo ad esempio il lavoro recente molto denso di L. Casini, Lo Stato nell’era di Google. Frontiere e sfide globali, Mondadori, Milano 2020.
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