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L'idea euroregionalista

Andrea Acquarone - Genova-Barcellona, 28 luglio 2023

Rielaborazione per il Forum 2043 di temi trattati da Andrea Acquarone - autonomista ligure, fondatore e animatore di “Che l’inse!” (che inizi!) - in precedenti lavori, raccolti nel libro “Un’idea di Liguria – Analisi e proposte per combattere il declino”, De Ferrari Editore, Genova, 2020. Acquarone è anche autore del breve ma denso saggio “Una tranquilla ora d'Europa - Appunti per una rivoluzione possibile”, Tapa blanda (Athenaeum), 2019 (tradotto anche in catalano).

Introduzione

Nel libro bianco di “Controvento. Associazione ligure per il dibattito pubblico (2014), iniziativa nobile promossa a Genova, fra gli altri, da Mauro Barberis, si leggeva: «Siamo genovesi con i piedi nel territorio e la testa nel mondo». La frase non è altro che una delle tante varianti del motto «agisci localmente, pensa globalmente», che qualcuno sintetizza con la crasi glocalismo: (da global + local), spesso strumentalizzandolo, riducendolo cioè a una operazione di marketing dai soliti colonizzatori del mondo, che vogliono spacciare a tutti gli stessi prodotti, mascherandoli con tocchi di colore locale.

Eppure dobbiamo andare orgogliosi, seguendo sempre uno spunto di Barberis, del fatto che il glocalismo è un tratto nativo dell’anima genovese e ligure: nati stretti fra i monti e il mare, i genovesi si sono dati da fare per guardare di là degli orizzonti, fino a diventare, nel bene e nel male, per un periodo importante della loro storia, una potenza d’Europa e del Mediterraneo.

Oggi da Genova e dalla Liguria dobbiamo, non solo possiamo, contribuire all’idea euroregionalista, sdoganandola in ambienti politici e istituzionali, che ne sono rimasti finora impermeabili. Non solo per fermare il declino della nostra terra, ma di tutti i territori. Non solo perché, nel profondo di ogni cultura, si trova un imperativo basilare ma ineludibile, quello di “continuare”, ma anche, non sembri una esagerazione, per consentire una vita pienamente umana alle generazioni future.

Il senso del declino di una comunità e di un territorio è un circolo vizioso che si autoalimenta. Intorpidisce il dibattito pubblico, svaniscono le competenze, invecchia la popolazione, perché i giovani cercano futuro altrove. Passata da antica e prospera nazione mediterranea a territorio periferico dello stato italiano, la Repubblica di Genova, simile ad un anziano abbandonato, si trova di fronte a sfide che non è in grado di affrontare e, senza che il mondo se ne accorga, se non succede qualcosa in questa nostra generazione, potrebbe lasciare la scena di questo mondo.

Lo stato centralista italiano ha impedito alla Liguria di tenere vivo il sistema di valori e i simboli di una organizzazione sociale che avevano connotato per quasi un millennio la nazione ligure, quasi fossero vergogne da cancellare. Lo stato genovese, originale e complicata esperienza di repubblica aristo-anarchica, è stato ridotto alla macchietta di una “repubblica marinara” al servizio della Spagna, fino alla “redenzione” dell’unificazione savoiarda.

Sopraffatti da un secolo che hanno lasciato guidare a poteri altri, lontani, estranei, i liguri hanno imparato a pensare che per essere degni della contemporaneità, dovevano dissimulare la loro identità: non parlare o zeneise, anzi denigrarlo col nome di “dialetto”, tacciare ogni discorso che si ricolleghi all’esperienza storica della Repubblica come passatista e fuori dal tempo, rinunciare persino alla propria antichissima bandiera, sostituita dall’assurdo vessillo che rappresenta oggi l’Ente regionale.

Così sono gli stessi liguri, ormai da diverse generazioni, che si fanno per primi fautori della deligurizzazione, riducendo una cultura autonoma, strutturata e in rapporto di reciproco arricchimento con l’esterno, al pesto, alla focaccia, al folklore sportivo e poco altro. E’ nostro dovere storico ritrovare il nostro autogoverno, per traghettare la nostra gente e il nostro territorio attraverso il mare tempestoso della globalizzazione.

Siamo qui a scriverne, forti dell’esperienza di una voce forte che si è levata in difesa di una certa idea di Liguria, ovvero quella del collettivo Che l’inse!, di cui chi scrive è stato fondatore e animatore per anni. Lo facciamo qui nel Forum 2043, quindi riconnessi con le parole antifasciste e anticentraliste di Chivasso del 1943, parole vive che parlano ancora a tutti e in tutti i territori, perché non è ancora arrivato, per la Liguria e per tutti i territori, almeno qui in Europa, il punto di non ritorno. Esso è vicino, ma siamo ancora in tempo a invertire la rotta, a dare ascolto alla corrente che ormai è lecito chiamare decentralism international, un’idea, resa universale proprio dalla globalizzazione, di decentramento e di recupero di “autogoverno per tutti dappertutto”, espressione cara a Mauro Vaiani. Un’idea che, nell’ambito delle istituzioni europee, che riconosce i territori regionali interni a ciascuno stato membro, ha preso appunto il nome di euroregionalismo.

Euroregionalismo come speranza

Le crisi mondiali che sono arrivate – il disastro della finanza globalizzata, la pandemia (e la sua gestione autoritaria), il ritorno del confronto militare fra stati europei e Federazione Russa, la difficoltà dei rapporti fra comunità democratiche e vecchie e nuove autocrazie, le migrazioni spesso talmente malgestite da essere ridotte a tratta di persone umane – hanno scosso molte certezze, ma hanno sicuramente confermato che i vecchi stati centralisti e autoritari, se non ne sono direttamente responsabili, non sono in grado di porre in essere rimedi strutturali e presidi duraturi.

Per le generazioni che sono cresciute in Europa dopo il 1989, la speranza è sempre stata riposta nel sistema delle istituzioni europee. La loro crisi, e il contemporaneo risorgere dei nazionalismi dei vecchi stati, è triste e allarmante.

Gli stati centralisti, se sono grandi abbastanza, rallentano e spesso rifiutano la cooperazione europea, oppure strumentalizzano le stesse istituzioni continentali. Quelle che in Europa chiamiamo “regioni”, al contrario, guardano all’Europa in modo molto più aperto e lungimirante, come realtà di solidarietà e di pace.

Queste regioni sono, in gran parte, “nazioni storiche”, antichi e autentici componenti di una vera “Europa dei popoli”, territori il cui autogoverno nell’Ottocento fu sacrificato sull’altare dell’uno o l’altro stato-nazione.

Esse devono ritornare in primo piano, quali unità territoriali, politiche ed economiche di base del confederalismo europeo.

Non solo la Catalogna, la Corsica, la Scozia, ma tutte queste antiche o meno antiche realtà territoriali dovrebbero essere promosse come entità politiche autonome. La loro moltiplicazione ed effervescenza le renderà protagoniste del processo confederale, proprio perché, diventandone “cantoni”, esse ne saranno i pilastri.

V’è infatti una differenza sostanziale tra il nazionalismo degli stati-nazione e quello delle “piccole patrie”: l’uno è un ostacolo alla costruzione di un’Europa unita, l’altro la favorisce. Bisogna superare perciò la diffidenza verso i “separatismi”, dato che l’integrità territoriale dello stato non è un valore assoluto, ma relativo, ossia utile nella misura in cui è utile l’esistenza dello stato a cui si riferisce. Oggi tutto sembra indicare che lo stato-nazione ottocentesco – tipo Italia, Spagna, Francia, Germania - sia desueto, mentre le regioni d’Europa, compresa quindi la Liguria, devono tenersi pronte a svolgere un ruolo importante nell’Europa e nel mondo del XXI secolo.

Per una vita migliore, non per un europeismo vuoto

Inseriamo qui anche un modesto caveat contro coloro che si rifiutano di mettere in discussione lo status quo dell’attuale conduzione degli affari europei, magari facendo girare appelli pro Europa (più Europa, soprattutto Europa) nell’imminenza delle elezioni (nel 2019 andò così e per il 2024 si intravede una preoccupante coazione a ripetere).

Nonostante gli eccessi di sovranismi e populismi, molti Europei voteranno contro l’attuale Unione Europa e le attuali realtà del globalismo, ignorando le grida dell’intellighenzia. Che poi i leader di partiti che in campagna elettorale sono stati ferocemente nazionalisti, giunti al potere, si moderino, è possibile, ma darlo per scontato comporta il rafforzare le paure e il senso di distacco fra le persone e le istituzioni europee e internazionali: se il voto non serve per produrre cambiamenti politici, la gente smetterà di votare, ma dubitiamo che questo porterà bene, nel medio-lungo termine.

Il fatto è che le politiche europee e la globalizzazione hanno dei perdenti e che questi perdenti sono sempre di più, a partire dai territori più marginali (ma ormai si vedono anche nelle periferie delle capitali d’Europa e della globalizzazione). L’unificazione dei mercati , non mediata a dovere, ha lasciato indietro larghi strati della popolazione e questo processo emarginante è tuttora in corso.

L’ordoliberismo, con la connessa esasperazione della concorrenza su scala continentale e, mai totalmente rinnegato, il feticcio dell’austerità, cioè l’ideologia incisa negli attuali trattati dell’Unione Europea, hanno dei contraccolpi. A lungo le conseguenze negative le hanno pagate i paesi poveri (ex colonie europee), ma ora sono arrivate a toccare le società europee. Non ci sono ricette semplici per affrontarla, ma questa realtà non può essere negata. Chi la subisce in prima persona - poveri, lavoratori poveri, classi medie impoverite - si volgerà verso chi promette di occuparsene, non importa quanto brutto, sporco, cattivo lo dipingeranno i media mainstream.

Occorrono idee e pratiche nuove, per il governo dell’Europa e della globalizzazione, che sappiano tenere conto dello spaesamento che proviene dai territori. Anche per questo siamo euroregionalisti: per andare oltre una Unione Europea che appare un opaco club di grandi stati e banche multinazionali.

Dobbiamo avvicinare una grande parte dei poteri di governo ai cittadini, proprio per rendere tollerabile che altre decisioni, d’interesse continentale o mondiale, si siano allontanate. La proposta euroregionalista è indispensabile per una rifondazione dell’Europa a partire dalle regioni, per colmare così rapidamente un vuoto politico pericoloso.

Il futuro dell’Europa, se ve n’è uno, passa per il rafforzamento delle regioni, nazioni storiche e moderni territori, fino a farle assurgere al rango di unità costitutive della confederazione.

Vogliamo ribadirlo con nettezza: il ritorno all’autogoverno, presidio delle autonomie personali, sociali, territoriali, è indispensabile proprio per affrontare i grandi temi globali del nostro tempo: la sfida ecologica, la produzione di buon cibo, la salute pubblica, il mantenimento del welfare, la gestione dei flussi di persone, la crescita civile e culturale – tutti temi che sono sempre stati presenti nel discorso di Che l’inse!.

Rendersi conto che il loro svolgimento non può prescindere dall’affrontare la prima parte del ragionamento, la richiesta di autogoverno, è quel che rafforza e differenzia il pensiero euroregionalista dalle forze politiche dominanti, anche nel campo popolare progressista - che è stato, in un passato lontano ma non dimenticato, quello più vicino agli autonomismi.

Non ci sarà progresso sociale, transizione ecologica, integrazione tra genti di diversa provenienza, tutela dei beni comuni e dei servizi pubblici essenziali, stabilità demografica, senza una fortissima autonomia, nella nostra terra e nelle altre.

Come in un circuito, da ovunque lo si prenda il ragionamento ritorna al punto di partenza. Certamente servono buone idee civiche e ambientaliste, ma senza i poteri, i fondi, l’autonomia per realizzarle, territorio per territorio, esse non diventeranno mai realtà. Perché dall’alto, da lontano, da altrove, si distrugge il mondo, non lo si migliora affatto, come dimostrano platealmente le scelte ecocide e suicide di tutte le grandi potenze e di tutte le concentrazioni di potere (politico, economico, militare) del nostro tempo.

Neomunicipalismo antiregionalista?

Ben poco possiamo aggiungere al confronto con coloro che rifiutano ideologicamente l’euroregionalismo, perché statalisti, siano essi veteronazionalisti o neosovranisti di area progressista (convinti, non senza motivazione, che la Costituzione italiana sia più “sociale” dei trattati europei).

Più insidiosa è l’obiezione ideologica che ci muovono i “neomunicipalisti”. Anch’essi sono convinti dei limiti del vecchio stato-nazione e più o meno convinti della necessità di far avanzare l’istanza europeista. Partono da premesse simili alle nostre, ma giungono a conclusioni parecchio differenti.

Il neomunicipalismo è stato rappresentato internazionalmente dalla sindaca di Barcellona Ada Colau, oltre che da altre esperienze europee. In Italia lo hanno interpretato, fra gli altri, Beppe Sala (sindaco di Milano) e Luigi De Magistris (per dieci anni sindaco di Napoli). L’idea ha una attrattiva, in ottica decentralista e progressista, ma anche una profonda debolezza, rispetto al nostro discorso euroregionalista.

L’impostazione neomunicipalista, in buona sostanza, concepisce un “noi” di riferimento, necessario a qualunque politica che non voglia cadere nell’esaltazione dell’individualismo neoliberista, come una “comunità di progetto” – secondo la terminologia di Manuel Castells – e non già come una comunità territoriale (nazionale o regionale). L’identità non è assente dal discorso neomunicipalista, ma è declinata in modo minimalista, svincolata da ogni retaggio storico o culturale, e non senza ragione: all’interno della comunità urbana – specie della contemporaneità metropolitana - il legato culturale delle appartenenze precedenti alla decisione di diventare residenti della città è meno visibile, più avanti nel processo di dissoluzione, quando non addirittura totalmente cancellato.

A Milano si sente difficilmente parlare milanese (mentre in provincia il lombardo è tuttora in uso). Un’analoga dicotomia esiste, ovviamente in proporzioni differenti, fra Barcellona e la Catalogna.

Le città sono sempre luoghi in cui la popolazione è più varia, in quanto a radici culturali, e questo facilita – quasi obbliga – a fare appello a un senso di comunità civica basato sulla costruzione, anzi la ricostruzione continua, di strutture sociali. E’ una identità, quella municipale o metropolitana, che trae il suo vigore dalla proiezione in un futuro condiviso, piuttosto che nella valorizzazione di un passato comune.

Le città, o meglio le aree metropolitane, sono dunque nell’idea neomunicipalista il vero centro del progresso civile, economico e sociale, e pertanto sono meritevoli di maggiori autonomie, facoltà di decidere e normare, per assecondare questa loro rilevanza a discapito di entità statali che sono sempre più superate dai tempi.

Tutto bene, fin qui, ma il territorio che le circonda? Secondo molti sindaci di questa corrente politico-culturale, esso verrà coinvolto per osmosi, di riflesso, nella costruzione di questa identità nuova, che supererà finalmente le distinzioni nazionali, nell’apertura a forme del vivere nuove e più coerenti con le necessità che l’epoca impone.

Le principali città europee sono in effetti, quale più quale meno, cosmopolite, inclusive, dinamiche. A loro il mondo non fa paura. In Italia lo sono anche molte città piccole. Molti sindaci, anche di cittadine e comuni relativamente piccoli, sono affascinati da questa prospettiva. Peccato, però, che ci si trova di fronte a una seduzione, più che a un osmosi, a un’attrazione più che a una inclusione. Il cittadino delle periferie e delle province rurali non è affatto uguale ai cittadini dei centri delle città, anche delle più socialiste e più democratiche.

Una grande città inserita nella globalizzazione può giustamente, in una stagione di confederalismo, aspirare a essere una città-cantone o una città-stato. Ma i territori circostanti le assomigliano poco e hanno, a nostro parere, bisogno di forme di autogoverno non solo altrettanto ma diversamente inclusive.

Nel neomunicipalismo la stessa espressione ‘cittadini europei’ rischia di diventare nei fatti ristretta alla sua etimologia: europeo si sente chi è di città (anche se possiede un buen retiro in posti rurali signorili...). La Le Pen non vincerà mai a Parigi, la Lega di Salvini non avrà mai più Milano. Magra consolazione se il resto dell’Europa diventa anti-europeo e anti-cittadino. Il neomunicipalismo, per dirla in modo semplice, può partorire molti “gilet gialli”.

L’antico cleavage città/campagna, specie di fronte agli immensi cambiamenti necessari per la transizione ecologica, è sempre più forte e richiede un buongoverno su scala territoriale più appropriata, come quella proposta da un serio e innovativo euroregionalismo.

Il necessario scetticismo nei confronti del macroregionalismo

Poiché il regionalismo contemporaneo è stato spesso calato dall’alto, a volte a casaccio, anche in Italia, ci ritroviamo anche con enti regionali con un’identità storica e dei confini molto incerti (anche se ormai cinquant’anni di regionalismo italiano ed europeo sono comunque un patrimonio che dovrebbe essere maneggiato con prudenza).

Per come è andata sviluppandosi la storia delle regioni, specie quelle di dimensioni geografiche e demografiche contenute, a molti pare ovvio che la prospettiva più plausibile sia quella dell’accorpamento all’interno di una regione più ampia. Così già avviene, per esempio, in molti campi delle realtà commerciale, associativa e civile, in cui la Liguria è accorpata al Piemonte e alla Val d’Aosta.

È chiaro che chi ha a cuore le sorti della Repubblica delle Autonomie non può che ostacolare questo macroregionalismo grossier.

Ci sono macroregionalisti che sono sinceramente europeisti, che credono, come noi, che il vecchio stato-nazione possa dissolversi nel sistema confederale europeo, che possa avanzare una Europa delle regioni… Purché non siano le attuali, ma per forza più grosse, le macroregioni.

Essi si ritengono più pragmatici degli euroregionalisti, contestando che se si andasse in quella direzione ci sarebbero troppe entità regionali, di dimensione troppo piccola… La loro astrazione arriva a immaginare accorpamenti con criteri analoghi a quelli con cui in età napoleonica si disegnavano dipartimenti e compartimenti: distanze, dimensioni, statistiche insomma. Nella migliore delle ipotesi, i meno fantasiosi, passerebbero dai NUTS2 (le attuali regioni europee) ai NUTS1 (le macroregioni già in uso nelle statistiche europee). A queste realtà più grandi essi concederebbero volentieri più risorse e più potere.

A chi scrive pare che dietro molte costruzioni macroregionaliste ci sia, innanzitutto, una debolezza di pensiero confederalista: la sussidiarietà si costruisce dal basso, non dall’alto.

C’è poi in molti casi una malcelata ignoranza di quello che i territori sono stati nei secoli, mettendo per di più esigenze di (presunta) efficienza amministrativa, omogeneità dell’ampiezza dei mercati, facilitazioni ai traffici, davanti alle ragioni culturali, ambientali e storiche di quelle che non sono “divisioni amministrative”, ma, prima di tutto, democrazie locali.

Per una buona politica, fondata sulle libertà e sulle autonomie, si devono valorizzare tutti gli aspetti dell’esistenza, anche quelli meno materiali e meno organizzativi, ma non meno rilevanti.

Del resto nulla vieta, in un contesto euroregionalista, che le singole regioni, della dimensione confacente alla loro storia e cultura (e volontà popolare debitamente informata), facciano rete fra di loro (come fanno già le Euregioni, o come prevede la Costituzione italiana per la collaborazione fra regioni vicine), condividendo strutture e servizi, senza bisogno di privare le popolazioni di un governo che le rappresenti.

Ai macroregionalisti, in sostanza, sfugge il nocciolo del discorso euroregionalista: avvicinare il governo ai territori, far sentire i territori arbitri del proprio destino, in un’epoca in cui i centri di potere diventano globali, quindi lontani e irrangiungibili. Questo non è possibile se si privano regioni storiche della propria entità amministrativa, per metterle insieme ad altri territori solo per fallace “funzionalismo”.

Conclusioni

L’euroregionalismo si pone dunque come un pensiero profondo e una azione praticabile, nella grande avventura necessaria per salvare l’idea stessa di Europa: in varietate concordia.

Per diventare prospetticamente egemone il discorso euroregionalista deve ovviamente abbandonare tutti i folklorismi e i ciarlatanismi. Il ché non significa affatto perdere il romanticismo dell’amore per la propria madreterra, o la passione per la sua storia, o la consapevolezza delle ingiustizie che abbiamo subito dai centralismi autoritari.

Anzi, l’euroregionalismo va autorevolmente proposto, senza scadere in argomenti obsoleti e in fin dei conti regressivi, proprio per proteggere i nostri territori, da nuove e sempre più sofisticate forme di centralismo autoritario, non solo politico-amministrativo, ma anche tecnologico e finanziario.

L’euroregionalismo è una idea vincente, per una vera Europa dei popoli, e deve iniziare a sentirsi tale.

Genova-Barcellona, 28 luglio 2023

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se determinata a far valere la propria dignità,
anche una piccola nazione come quella ligure
può sviluppare una mobilitazione volta a conquistare l’autogoverno,
un diritto inalienabile riconosciuto a tutti i popoli,
compresi quelli della vecchia Europa.

Franco Monteverde (1933-2019)

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Per chi non conoscesse Franco Monteverde, qui un affettuoso necrologio in ricordo di colui che è considerato il padre dell'autonomismo ligure del XX secolo.

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