Per un governo responsabile di Roma
Ci onora di un contributo al Forum 2043 il prof. Ignazio Marino, noto medico e politico, di tradizione cattolico-democratica, già senatore del PD (2008-2013). In Senato, in qualità di Presidente della Commissione d'Inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale chiuse la grave ferita dei Manicomi Criminali, grazie a un'indagine che fece scalpore in tutta la Repubblica. Venne eletto sindaco di Roma il 12 giugno 2013 con il 64% dei voti ma governò solo sino al 31 ottobre 2015. In 28 mesi alla guida di Roma, incarnò una breve stagione di buongoverno che fu prima denigrata sui media e infine bruscamente interrotta dalla miopia del suo stesso partito di allora. Dal 2016, il prof. Marino è tornato alla professione medica, alla ricerca scientifica e all’insegnamento accademico, alla Thomas Jefferson University di Filadelfia. Continua a contribuire al dibattito pubblico europeo, italiano e romano, attraverso i suoi interventi su vari media e con il suo sito https://www.ignaziomarino.it/.
PER UN GOVERNO RESPONSABILE DI ROMA
di Ignazio R. Marino
Roma potrebbe essere non solo una metropoli pienamente contemporanea, ma anche una capitale proiettata nel futuro. Occorre studiare dati, fatti e responsabilità. Anni fa scrissi un libro (Un marziano a Roma, Feltrinelli, 2016) cercando di proporre un'analisi esaustiva di queste mie convinzioni, da cui provo a estrarre alcuni spunti per il Forum 2043, dove si coltivano ideali di autogoverno responsabile che valgono per tutti i territori e per tutte le comunità locali.
Roma non è una metropoli ordinaria perché insieme a tutte le esigenze di una città moderna (trasporti, raccolta e smaltimento dei rifiuti, scuole, decoro urbano, sicurezza) ha anche la responsabilità di ospitare migliaia di grandi eventi laici e religiosi e il dovere di armonizzare la città storica e archeologica con la parte urbanizzata negli ultimi cento anni.
La città storica, quella visitata dai turisti e sede delle istituzioni, è un villaggio di centocinquantamila abitanti, ma Roma ha oltre quattro milioni di cittadini che necessitano dei servizi per una normale qualità di vita. È una città-regione e nell’evoluzione degli ordinamenti di una Repubblica formata da autonomie, il dibattito sul suo status anche istituzionale dovrebbe essere ben più lungimirante, per il bene dell’Urbe e dei suoi municipi.
Le gravi carenze nel settore dello smaltimento dei rifiuti e delle carenze nel trasporto pubblico possono essere esempi paradigmatici della questione romana ma anche delle reali possibilità di cambiamento. Non è un caso che esistano problemi come quelli dei rifiuti e dei trasporti. Sono il risultato di scelte precise.
Negli ultimi 60 anni si è accettato un monopolio privato dei rifiuti e si è rinunciato a dotare la città di impianti di proprietà pubblica con il risultato di favorire il monopolio privato. Così Roma, ancora oggi, non ha impianti di smaltimento e deve portare altrove le 5.000 tonnellate di rifiuti che produce ogni giorno.
Quando venni eletto Sindaco, nel giugno 2013, Roma aveva un triste primato mondiale: era la città con la più grande discarica del mondo: 240 ettari, un’area grande come 343 campi di calcio regolamentari. Immaginatevi una superficie ampia come quasi trecentocinquanta volte lo stadio Olimpico di Roma e colma di rifiuti. Nei periodi estivi, con tutti quei rifiuti in decomposizione l’area di Malagrotta diventava nauseabonda e l’intera montagna d’immondizia era visibile a chilometri di distanza dal volteggiare di decine di migliaia di gabbiani. Uno scenario infernale. L’enorme fossa era gestita da un singolo privato che dal 1974 al 2013 aveva accolto più di sessanta milioni di tonnellate di rifiuti. Così la pulizia della città di fatto dipendeva da una sola persona. Un’area enorme del territorio cittadino concessa da tutti i sindaci agli interessi di un solo monopolista privato. Pericolosa per la salute di un’intera comunità, ma anche in contrasto con gli ideali della difesa del nostro pianeta, secondo i quali i rifiuti devono rientrare nel ciclo produttivo come vetro, carta, cartone, metallo o essere utilizzati per creare fertilizzanti.
I profitti economici legati a una discarica di queste proporzioni erano tali che nessuna amministrazione precedente alla mia aveva mai voluto intervenire. Non si intervenne neppure quando l’Unione Europea aprì una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia perché aveva indicato come data ultimativa per la chiusura della discarica il 31 dicembre 2007.
Così accadde che Roma nei giudizi sui progetti di finanziamenti europei presentati scontava delle valutazioni negative a causa della procedura d’infrazione aperta proprio per la vicenda della discarica di Malagrotta. Inoltre, l’esistenza della discarica determinava anche un gravissimo ritardo nello studiare metodologie diverse per il trattamento dei rifiuti, che a Roma sono prodotti al ritmo di circa cinquemila tonnellate al giorno.
Quasi tutto, sino alla mia elezione, era gettato nella stessa discarica, dal materasso vecchio, alla radio della nonna che non funzionava più, agli scarti alimentari di casa e dei ristoranti, la cosiddetta frazione organica.
In altre parole, dal dopoguerra al 2013 non si era studiato un modello di gestione del ciclo dei rifiuti che potesse prescindere dalla discarica e trasformasse i rifiuti da problema a risorsa. E pensare che solo dalla frazione organica, che costituisce il trentacinque per cento dei rifiuti, cioè oltre mezzo milione di tonnellate ogni anno, con tecnologie avanzate di biodigestione si potrebbe produrre energia ben più pulita di quella derivante da buona parte delle fonti tradizionali, specialmente quelle fossili.
Potrebbe sembrare, quest'ultimo, un beneficio non particolarmente rilevante, ma non è così. Il drammatico discorso del 1 Dicembre 2023 pronunciato al COP 28 di Dubai dal Segretario Generale dell'ONU, António Guterres, risuona nella mia mente. La concentrazione di gas ad effetto serra in atmosfera ha recentemente superato le 417 parti per milione, soglia mai raggiunta in quasi un milione di anni di storia. Le evidenze scientifiche e l'aumento in intensità e frequenza degli eventi estremi già in atto in tutto il mondo comportano pertanto la necessità ineludibile di perseguire, ben prima della fine del secolo, una completa de-carbonizzazione energetica al fine di scongiurare gli effetti dei cambiamenti climatici. Un imperativo, una sfida, da cui nessun sindaco, governo o amministrazione locale responsabile può esimersi.
Un capitolo a parte meriterebbero poi le polveri sottili e la qualità dell’aria cittadina, problema non solo delle grandi città nei Paesi in via di sviluppo (abbiamo tutti presente lo smog che attanaglia città come Pechino) ma, con le dovute proporzioni, anche europeo: nel 2015 la Commissione Europea ha segnalato la presenza di procedure d’infrazione per i livelli di PM10 in 16 Paesi dell’Unione, tra cui l’Italia.
Non è un caso dunque che per rispondere ai problemi del cambiamento climatico e dell’inquinamento cittadino, distinti da un punto di vista fenomenologico ma con alcune cause in comune, diverse grandi città a livello internazionale stiano definendo e già cominciando ad attuare strategie ambiziose per l’ambiente e il clima basate su tre pilastri: la mitigazione, con la riduzione delle emissioni cittadine; l’adattamento, con la mappatura e la riduzione dei rischi, su tutti quelli idrogeologici; una gestione sostenibile dei rifiuti, che porti a massimizzarne il recupero ed il riciclo, minimizzando la quantità da smaltire in discarica.
La gestione del ciclo dei rifiuti indifferenziati a Roma si è storicamente caratterizzata per una marcata prevalenza, oltre l’ottanta per cento, del trasporto alla discarica, rispetto ad altre forme di destinazione. Esistendo la discarica di Roma, il ruolo industriale dell’azienda del Comune, l’AMA, è stato sempre residuale. Bastava limitarsi alla raccolta e al trasporto in discarica senza preoccuparsi di azioni più intelligenti come il recupero della carta, del cartone o dei metalli e del vetro affinché fossero immessi nuovamente nel ciclo industriale. Tutto in una buca e punto.
Dieci anni fa, nel 2013, AMA, l’azienda della nettezza urbana di Roma, era il più grande operatore in Italia nella gestione integrata dei servizi ambientali, con circa ottomila dipendenti, ma con soli due impianti di selezione e trattamento dei rifiuti urbani, un impianto di compostaggio, un termovalorizzatore destinato solo ai rifiuti sanitari, due impianti di valorizzazione della raccolta differenziata. La chiusura della discarica di Malagrotta ha determinato un cambiamento storico nella gestione dei rifiuti di Roma.
Nel corso dei miei 28 mesi di governo la quantità di raccolta differenziata è cresciuta rapidamente raggiungendo il quarantacinque per cento nel dicembre 2015. In un solo biennio e partendo da uno svantaggio storico imbarazzante, abbiamo raggiunto e superato i risultati al tempo raggiunti da città come Berlino (42%), Londra (34%), Vienna (33%), Madrid (17%), Parigi (13%). Purtroppo quella determinazione venne meno, dopo la fine della nostra amministrazione, e oggi invece di essere al 65% si è scesi al 40%.
L’inerzia nel superare Malagrotta non aveva consentito di pianificare e attuare un sistema che consentisse di mettere in sicurezza attraverso una rete di impianti pubblici la gestione dei rifiuti della Regione Lazio e della città capitale della Repubblica. Eppure era possibile, anche attraverso evidenti sinergie e possibilità di garantire efficienza ed economicità gestionali, evitando la migrazione dei rifiuti fuori dalla Regione Lazio con i relativi costi economici ed ambientali di trasporto.
Ho personalmente e ripetutamente insistito affinché il sistema impiantistico di proprietà regionale venisse riparato e reso più efficiente con un investimento dell’ACEA che non gravasse sulle tasse dei cittadini. ACEA, l’azienda comunale che gestisce i settori idrico ed elettrico ma anche i rifiuti,si era resa disponibile, ma per due anni ogni tentativo si è arenato sulle scrivanie della burocrazia della Regione Lazio, allora governata dal Partito Democratico.
Nell’aprile del 2015 presentammo la richiesta di autorizzazione per la realizzazione di un impianto di compostaggio con trattamento preparatorio e digestione anaerobica di cinquantamila tonnellate di rifiuti organici: il primo degli impianti che avevo promesso nella campagna elettorale del 2013 e il primo impianto di compostaggio della città di Roma. Se vi fosse stata la tempestiva autorizzazione da parte della Regione Lazio, la prima pietra sarebbe stata posta a Rocca Cencia entro il dicembre 2015 e oggi quell'impianto esisterebbe. Si sarebbe avviato il superamento del modello ereditato dal passato, tutto orientato a generare rifiuti da rifiuti, per alimentare discariche e inceneritori, in palese controtendenza con le indicazioni dell'Unione Europea.
Chi amministra non deve agire secondo ciò che gli conviene in quel momento, ma deve creare una prospettiva per le generazioni future. Io pensavo alla Roma del 2030 e ai nostri figli, piuttosto che al consenso del 2014. Abbiamo camminato sulla strada giusta per la città e non su quella più facile.
Con analoga lungimiranza occorre smettere di favorire il privato nei trasporti urbani. Per decenni si sono smantellati chilometri di rotaie per i tram per favorire la vendita dei mezzi su gomma. Oggi si dovrebbero ripristinare i tram in modo da offrire un’alternativa al trasporto privato sulla propria auto o sulla propria moto. Roma è la città con il maggior numero di veicoli a motore di tutto il continente europeo: 842 mezzi privati ogni 1.000 abitanti a Roma (250 a Parigi, 360 a Londra).
In 28 mesi di governo completai 17 nuovi km di metropolitana inaugurando la linea C. Al mio insediamento la cosiddetta talpa, il gigantesco mezzo meccanico che scava sottoterra per costruire metro dopo metro la galleria, era ferma e smontata. Nei primi 365 giorni di attività la linea C ha trasportato una media di 50.000 passeggeri al giorno, per un totale che si avvicina ai 10 milioni.
Se esiste la volontà, il cambiamento può avvenire. La drammatica verità, però, è che allo stato attuale, a oltre un quarto di secolo dalla sua ideazione, non si conoscono né i tempi di realizzazione, né i costi della metro C e neanche il suo tracciato finale che lo Stato, insieme alla Regione Lazio e al Comune di Roma, dovrà prima o poi indicare.
Due elementi hanno continuamente prevalso sull’interesse pubblico: l’interesse privato e una colpevole superficialità pubblica.
Mi spiego meglio con un esempio. Se a Londra, o in un’altra città, una stazione della metro passasse nei pressi di una linea ferroviaria urbana gli amministratori pubblici si sarebbero premurati di mettere le due linee di trasporto su ferro in connessione, ad esempio con un tunnel da percorrere a piedi o con nastri trasportatori di persone. Ipotesi di funzionalità di questo tipo non sono state assolutamente prese in considerazione a Roma nel progetto della metro. La linea metropolitana C in una delle stazioni che la mia amministrazione è riuscita a consegnare, la stazione di un quartiere noto e popolatissimo, il Pigneto, dista poche centinaia di metri da una linea ferroviaria che attraversa lo stesso Pigneto. Nessuno ha pensato di creare un collegamento tra questi due snodi che sarebbe stato utilissimo. Per realizzarlo sarebbe servito un nuovo progetto ed è per questo che la nostra Giunta, con la firma dell’assessore Guido Improta nel dicembre 2014 ha siglato un accordo con Rete Ferroviaria Italiana per permettere l’interscambio tra la metro C e le linee ferroviarie Orte-Fiumicino e Viterbo-Roma Ostiense. I lavori sarebbero dovuti cominciare nel 2016 ed essere completati nel 2017.
L’idea era di rendere sempre più facile spostarsi in città con il treno e la metro. Per questo io stesso ho insistito molto perché facesse parte dell’accordo con la rete Ferroviaria Italiana anche il completamento dell’anello ferroviario nella parte Nord di Roma con la riattivazione delle gallerie tra Vigna Clara e Valle Aurelia, inaugurate durante i mondiali di calcio del 1990 e chiuse, dopo pochi giorni, per i successivi trentatré anni. Una vicenda incredibile. Per la Coppa del Mondo di Calcio Italia ’90, fu inaugurato un tratto di ferrovia tra Vigna Clara e Valle Aurelia che fu utilizzato per soli otto giorni dai treni speciali che da Roma Tiburtina portavano gli spettatori allo stadio Olimpico. Ripristinare questo collegamento permetterebbe di connettere il quadrante Nord della città alla Ferrovia Regionale che da Roma Ostiense attraversa la Capitale con importanti stazioni, come San Pietro, Trastevere, gli ospedali Policlinico Gemelli e San Filippo Neri, per raggiungere Cesano, Bracciano e Viterbo. I vantaggi sono facilmente immaginabili. Una persona che dalla Balduina o da corso Francia vorrà raggiungere il quartiere Ostiense lo potrà fare su un treno urbano in quindici minuti, leggendo e ascoltando con le cuffiette la musica dal proprio cellulare, invece che in oltre sessanta minuti di stress nella propria automobile. Oppure potrà salire in treno a Vigna Clara, cambiare a Valle Aurelia, salire sulla metro A e arrivare comodamente a Cinecittà.
Volevo davvero fortemente rafforzare il trasporto su ferro nel quadrante nordoccidentale della città per il completamento dell’anello ferroviario, opera di cui si parla dal 1913, servono poco più di cinque chilometri di nuove rotaie e un nuovo ponte sul Tevere. Si tratta di un obiettivo che rivoluzionerebbe tempi e certezze negli spostamenti di milioni di persone.
In realtà esiste anche un altro problema: il colpevole sotto-finanziamento del trasporto pubblico di Roma rispetto ad altre metropoli italiane. Alcuni numeri descrivono la situazione meglio di tante parole. I soldi per i trasporti pubblici a integrazione del costo del biglietto, che in Italia è mantenuto al di sotto del costo reale del servizio, derivano dallo Stato attraverso il Fondo Nazionale Trasporti. Il Lazio riceve dallo Stato circa 576 milioni di euro all’anno, la Lombardia 853. Roma ha un territorio di 1.285 chilometri quadrati, Milano 703. Nell’anno 2014 Roma ha ricevuto dalla Regione Lazio 140 milioni di euro, mentre la Regione Lombardia ha destinato a Milano più del doppio, 285 milioni di euro. La sproporzione è evidente e risalente.
Addirittura, il finanziamento destinato a Roma al momento in cui fui eletto sindaco era pari a zero euro. Eppure Roma non solo è la città più estesa d’Italia, ma è anche capitale politica, religiosa, culturale.
Come era possibile che i diversi livelli di governo, nazionale, regionale e comunale si fossero disinteressati di Roma al punto di non finanziare autobus, tram e metro?
Ero e resto convinto che la soluzione debba essere strutturale: Roma ha diritto di avere una quota del fondo nazionale per il trasporto pubblico. Per questo proposi ad alcuni senatori di scrivere una norma da inserire nella legge di stabilità del 2014 e risolvere per sempre il problema: Roma avrebbe avuto ogni anno quanto le spettava per far funzionare autobus, tram e metro senza doversi presentare con il cappello in mano dinanzi al presidente della Regione Lazio per ottenere ciò che le leggi prevedono ma non garantiscono.
Convocai una riunione con il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, l’assessore ai trasporti di Roma Guido Improta e il presidente della commissione trasporti della Camera dei Deputati Michele Meta per informarli. Vennero in Campidoglio nell’autunno del 2013 e quando proposi di modificare le modalità di finanziamento dei trasporti di Roma con uno stanziamento diretto dello Stato, senza la Regione come intermediario, la riunione divenne molto tesa per la netta opposizione di Nicola Zingaretti, che preferiva non cambiare nulla e lasciare che le somme transitassero dallo Stato alla Regione e dalla Regione al Comune, e l’imbarazzo di Michele Meta che suggerì una non meglio precisata soluzione politica.
Ne rimasi frustrato e incredulo: possibile che nessuno comprenda quanto sia strategico per una città come Roma, e quindi per tutta Italia, un adeguato trasporto pubblico?
Mi fidai delle loro parole e della promessa di affrontare e risolvere il problema dei flussi di denaro dalla Regione al Comune nel settore dei trasporti entro la primavera del 2014. Sbagliai: tutto ancora oggi è rimasto immutato.
Voglio concludere scrivendo brevemente di un'altra enorme questione: la complessità di una città capitale che ospita, oltre alle istituzioni centrali della Repubblica, lo Stato del Vaticano, decine di realtà internazionali, centinaia di ambasciate, migliaia di istituzioni culturali e politiche, un patrimonio artistico immenso che attrae visitatori da tutto il pianeta. Studiando questi argomenti con Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, e sir Edward Lister, vicesindaco di Londra, appresi che Parigi riceve una somma aggiuntiva che sfiora il miliardo di euro e Londra quasi due miliardi di euro all’anno per le loro rispettive funzioni di capitale.
Nel 2014 indicai un percorso di ripensamento, affrontato con metodo: analisi dei costi aggiuntivi per la pulizia della città, straordinari per le forze di polizia locale, impatto sui mezzi del trasporto pubblico e altri indicatori misurabili. Un lavoro che ha aperto per Roma un capitolo di programmazione economica basata su esigenze reali e condizioni finanziarie esistenti. Ottenni che nella legge di stabilità votata nel 2014 fosse inserita, per la prima volta, una voce che riconosceva a Roma i costi di capitale della Repubblica. L’importo, pari a 110 milioni l’anno, è assolutamente insufficiente, dati i nostri calcoli che tra trasporti, ambiente, polizia locale e viabilità, stimavano i costi aggiuntivi in almeno 400 milioni di euro. Ma almeno il principio venne riconosciuto in una legge.
Resto convinto che il Comune di Roma dovrebbe alleggerirsi di proprietà e aziende che potrebbero essere affidate all’iniziativa privata (centrale del latte, un centro fiori, un centro carni, una compagnia di assicurazioni, quasi cinquanta farmacie, gli affitti di centinaia di appartamenti residenziali, partecipazioni spesso minuscole in aziende prive di senso strategico per il bene comune della città). Al contrario la raccolta e il riciclaggio dei rifiuti sono una missione cruciale che deve essere condotta da un’amministrazione pubblica romana forte e competente.
Roma non è condannata dal fato. È governabile e proiettabile nell'ambito delle metropoli moderne. È necessario che tutta la classe dirigente comunale sia più autonoma e responsabile. Serve che la politica e le istituzioni nazionali non difendano lo status quo. Occorre che i poteri civili e religiosi, finanziari e imprenditoriali, non portino avanti esclusivamente i propri interessi, ma che si sottomettano al progetto di bene comune scelto dai cittadini al momento delle elezioni democratiche dell’amministrazione capitolina e dei suoi municipi.
Ignazio Marino
(da Filadelfia
11 dicembre 2023)
La foto del post è tratta da https://x.com/ignaziomarino/status/1717220983784763697?s=20
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