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Omaggio alla Catalogna e alla Svizzera

Giancarlo Pagliarini - Barcellona, 23 dicembre 2017 - Chivasso, 23 dicembre 2023

Proprio nei giorni in cui onoravamo gli 80 anni della Carta di Chivasso e si allargava il patto Autonomie e Ambiente, grazie all’apporto dell’Alleanza per l’Autonomia, Giancarlo Pagliarini (che dell'Alleanza è presidente onorario) ci ha inviato una sua raccolta di appunti della fine del 2017, che ci riporta in Catalogna nei giorni drammatici della repressione centralista del governo spagnolo, e ci ricorda di guardare alla Svizzera, per il futuro del nostro confederalismo. Sono passati ormai più di sei anni, ma lo scritto è assolutamente attuale e anzi importante per prepararci al confronto politico-elettorale del 2024, contro tutti i centralismi, per il confederalismo, per l’Europa dei popoli, per la pace e la prosperità di tutti i territori. Negli appunti di Giancarlo Pagliarini è citato Raül Romeva, già ministro catalano ai tempi del referendum di autodeterminazione, poi prigioniero politico incarcerato e oggi uno dei due spitzenkandidaten di EFA per le elezioni europee 2024, insieme a Maylis Roßberg.

Omaggio alla Catalogna e alla Svizzera

In questa fine 2017, Madrid ha sostituito il Governo eletto dai cittadini catalani con dei suoi rappresentanti e ha messo in prigione, oltre ai politici accusati di “disobbedienza”, anche i presidenti delle associazioni culturali catalane. Ho amici a Barcellona, che sono anziani e moderati, ma hanno paura quando pensano a ciò di cui è capace Madrid. Ci parlano di continue provocazioni, come quella dello scorso sabato 21 aprile all'ingresso dello stadio di Madrid per la finale Barcellona-Siviglia della Coppa del Re, quando la polizia ha vietato l'ingresso ai tifosi del “Barca” che indossavano una maglia gialla. Perché il giallo è il colore simbolo della volontà di autogoverno della Catalogna. Assurdo, incredibile, come siamo potuti arrivare a questo livello di repressione?

Nel 1931 era stata proclamata la Repubblica Catalana all’interno della Federazione iberica. Lo voglio ricordare perché dà fastidio leggere che i Catalani solo adesso vogliono più autonomia o la secessione perché sono diventati “ricchi” e non vogliono mantenere i territori più poveri. È una sciocca semplificazione.

La proclamazione del 1931 aveva anche allora spaventato il governo. Quei signori, a mio giudizio molto più civili di Mariano Rajoy e del re Filippo VI, mandarono da Madrid a Barcellona tre ministri con il compito di trovare una mediazione. Fu così che nacque la Generalitat de Catalunya, dotata di un’ampia misura di autogoverno. Purtroppo, com’è noto, conclusa la Guerra civile spagnola nel 1939, la dittatura militare franchista abolì le istituzioni catalane. Più di 200.000 catalani andarono in esilio. Il presidente della Catalogna Lluis Companys venne assassinato. Venne vietato l’uso della lingua catalana e iniziò un lungo ciclo di oppressione. In pratica da quel momento in Catalogna dovevi avere il permesso di Madrid anche per respirare.

Morto Franco nel 1975, però, di autonomie si è dovuto tornare a parlare, perché esse erano e sono nella storia e nella geografia della Spagna (e in realtà di ogni paese del mondo). Con il compromesso costituzionale del 1978, lo stato spagnolo è tornato a essere formato da 17 comunità (spesso coincidenti con le regioni storiche) e da 2 città autonome (Ceuta e Melilla), ponendo fine, almeno in linea di principio, al centralismo franchista.

Il primo statuto di autonomia della Catalogna non soddisfaceva pienamente il popolo catalano, perché non ne riconosceva pienamente l’identità e la diversità all’interno di una Spagna e di un’Europa plurali.

Nel 2003 la stragrande maggioranza dei membri del parlamento catalano s’impegnò a varare uno statuto di autogoverno più avanzato. Non c’era alcuna volontà di secessione unilaterale. Il primo ministro spagnolo, allora il socialista Zapatero, si era impegnato a supportare il nuovo statuto della Catalogna. Il nuovo testo fu varato in Catalogna nel 2005 (con 120 voti su 135 membri del parlamento locale) e presentato a Madrid. Nel maggio del 2006 le due camere del parlamento spagnolo lo approvarono, non senza averlo ritoccato per ridurre alcune autonomie e quindi non senza polemiche. Tuttavia il testo emendato da Madrid fu comunque approvato dai cittadini catalani con il referendum del 18 giugno 2006 e promulgato dal re di Spagna. La Catalogna veniva finalmente riconosciuta come una nazione all’interno dello stato spagnolo. Nel 2006, al meglio delle mie conoscenze, i secessionisti in Catalogna non erano più del 10% della popolazione.

Purtroppo, però, il centralismo non si dà mai per vinto. Quattro anni dopo, il 28 giugno 2010, la corte costituzionale spagnola (con una decisione presa da una maggioranza di 6 membri contro 4) prese la gravissima decisione di riscrivere 14 articoli dello statuto di autonomia approvato quattro anni prima dal parlamento di Madrid e dai cittadini catalani. Oltre a riscrivere i 14 articoli, decretò anche la “reinterpretazione” di altri 27. La “nazione catalana” fu cancellata. Questo rigurgito di spagnolismo era promosso dal Partito Popolare di Mariano Rajoy, in particolare.

Cosa ne hanno ricavato i centralisti, da questa corsa a chi è più “spagnolo”, più nazionalista, più centralista, più monarchico? Da allora in Catalogna il numero degli indipendentisti ha cominciato a crescere. Persone di sinistra, centro, destra, movimentiste e indipendenti, hanno unito le loro forze fino a formare una stabile maggioranza assoluta di catalani che vogliono il pieno autogoverno in una Europa diversa. Altro che rivendicazioni economiche, altro che lotta per trattenere un po’ di tasse su un territorio (peraltro economicamente già prospero). Come sta avvenendo ovunque nel mondo globalizzato, scatta in tante persone comuni la voglia di fare la differenza, di salvare la propria diversità, di avere più dignità e più autogoverno.

Ricordiamo un episodio fra i tanti: alla “Diada” (festa nazionale dell’identità catalana) dell’11 Settembre 2012 più di 1,5 milioni di cittadini (su circa sette milioni di residenti) avevano protestato contro la svolta centralista decisa dalla corte costituzionale e avevano cantato slogan che inneggiavano alla Catalogna come stato autonomo all’interno dell’Unione Europea.

Dopo le elezioni catalane del novembre 2012, 107 membri del Parlamento su 135, in reazione al comportamento centralista di Madrid, si espressero a favore dell’organizzazione di un referendum per l’indipendenza. Alla Diada dell’11 Settembre 2013 gli attivisti per l’autogoverno della Catalogna formarono una catena umana di 400 km dal nord al sud del territorio.

L’allora presidente della Generalitat, Artur Mas, tentò di negoziare col governo di Madrid lo svolgimento di una consultazione per l’autodeterminazione della Catalogna, trovandosi di fronte a un muro, eretto dal re e dalle istituzioni centrali.

Nel gennaio 2014 il Parlament della Catalogna aveva chiesto formalmente al governo di Madrid di trasferire a Barcellona i poteri necessari per organizzare un referendum sulla indipendenza, come Westminster aveva appena fatto con la Scozia. Richieste simili, prima del referendum del 1 ottobre 2017, erano state reiterate ben 18 volte.

L’11 settembre 2014 si svolse la Diada numero 300 (perché la data di riferimento è sempre stata la data storica dell’11 Settembre 1714, la resistenza catalana contro l’impero asburgico di allora). I discorsi ufficiali erano stati fatti alle ore 17.14 del pomeriggio e da allora al minuto 17.14 delle partite del Barcellona al Camp Nou tutto lo stadio, come un sol uomo, grida “Independencia”. A quella Diada avevano partecipato 1,8 milioni di persone. Con i colori giallo oppure rosso delle magliette dei partecipanti, che formavano una bandiera catalana vivente, formata da cittadini (locali e provenienti da tutta Europa), era stata formata a Barcellona una enorme “V”, che stava per “VOTO“. Il vertice era nella nuova Plaça de les Glòries Catalanes e le due gambe erano lungo la Diagonal e lungo la Gran Via. Intanto da Madrid sempre il solito assordante silenzio, come se non fosse successo niente.

A differenza di Londra, Madrid ha continuamente rifiutato il permesso di svolgere un referendum. Per i Catalani e per i loro concittadini europei che credono nella parola “libertà” questo è stato un comportamento assurdo.

Il parlamento catalano il 18 Settembre 2014 decise di “consultare i cittadini”. Il 27 Settembre il presidente Artur Mas aveva firmato il decreto per la consultazione, che poi avverrà il 9 novembre. Solo due giorni dopo la firma, il 29 settembre, ecco che la corte costituzionale interviene per sospendere anche la consultazione popolare decisa dal parlamento catalano, ignorando che, fra l’altro, il 4 ottobre 2014 ben 920 sindaci catalani, su un totale di 947, erano andati a Barcellona ad esigere la consultazione fissata per il 9 novembre.

Dieci giorni dopo, il 14 Ottobre 2014, la corte costituzionale aveva sospeso anche la “consultazione popolare”. Scattò un piano di riserva: si decise di chiamarla “partecipazione dei cittadini alle decisioni” . Questa era una procedura prevista dallo statuto di autonomia, quello decapitato dalla corte costituzionale il 28 Giugno 2010.

Il 4 Novembre 2014 la corte costituzionale sospendeva anche la “partecipazione dei cittadini alle decisioni”. Incredibile ma è successo: in Europa, in questa secolo XXI, uno stato continua a impedire a cittadini di esprimersi, pur vigendo un diritto europeo che tutela forse poco le autonomie ma sicuramente i diritti politici di tutti i cittadini.

In reazione alle sospensive della corte centralista, intervenivano molte organizzazioni non governative catalane. Prendevano in mano la situazione e organizzavano loro il referendum, che si è regolarmente svolto il 9 novembre 2014. Hanno votato più di 2,3 milioni di cittadini, con questi risultati: 80,76% per l’indipendenza, il 4,54% per lo status quo, il 10,07% per cambiare ma non necessariamente con un processo di indipendenza. Il resto, 4,63%, erano schede nulle.

Tre giorni dopo, il 12 novembre 2014, Madrid rompeva il silenzio e Rajoy diceva che quello del 9 novembre non era stato un voto democratico ma un atto di propaganda politica. Avevano votato in 2,3 milioni ma questa non era considerata una informazione importante. Dopo meno di due settimane, il 21 novembre 2014, lo stato spagnolo incriminava il Presidente Mas, due dei suoi ministri e alcuni funzionari perché non avevano bloccato il referendum e per altri “delitti”.

Il 27 Settembre 2015 si tengono nuove elezioni in Catalogna. I partiti a favore dell’indipendenza avevano il 47,8% dei voti. Il 13,1% era andato a partiti a favore del principio di “autodeterminazione”. In totale, queste due aree politiche avevano una solida maggioranza del 60,9%. Gli “unionisti” attaccati al centralismo di Madrid avevano raccolto solo il 39,1%.

Nel marzo del 2017 l’ex presidente Artur Mas era stato formalmente condannato per il referendum del 9 novembre 2014 e ancora sono in corso altri 400 processi per gli stessi “delitti”, cioè per aver voluto far votare i cittadini.

Il 22 Maggio 2017 il nuovo presidente Puigdemont, il vicepresidente Junqueras e il ministro degli esteri Romeva (nella foto sotto) erano andati ancora una volta formalmente a Madrid a chiedere di poter far esprimere i cittadini, ottenendo da Rajoy lo stesso monotono rifiuto.

2017 Raul Romeva spiega

A questo punto il 9 giugno 2017 Carles Puigdemont annunciava che i Catalani dovevano poter votare, che si sarebbe svolto un referendum e che la domanda sarebbe stata “Vuoi che la Catalogna diventi una Repubblica indipendente?”

Il parlamento catalano aveva approvato la legge sul referendum che si sarebbe poi svolto il 1 Ottobre 2017. Era la legge numero 19/2017, composta da 34 articoli. L’articolo 1 faceva riferimento ai diritti civili e politici, economici, sociali e culturali approvati dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 1966. L’articolo 4, comma 4, prevedeva che, se avessero vinto i “SI” “dins els dos dies següents a la proclamació dels resultats oficials per la Sindicatura Electoral, celebrarà una sessió ordinària per efectuar la declaració formal de la independència de Catalunya, concretar els seus efectes i iniciar el procés constituent”. Il comma 5 invece prevedeva nuove elezioni se avessero vinto i “NO”.

Il 1 ottobre 2017 hanno stravinto i “SI” e il 27 ottobre il parlamento catalano ha approvato la dichiarazione di indipendenza.

Un’amica che ha partecipato come osservatore internazionale al referendum del 1 ottobre ha scritto: “Quanti occhi lucidi ho incrociato domenica scorsa… Ho visto abbracciare le urne elettorali, ho visto anziani in sedia a rotelle accompagnati dai figli e ho visto anziani infermi che di fronte all’urna hanno voluto alzarsi, sorretti dai volontari...” . Ecco, è necessario capire per quali motivi tante persone sono andate a votare il primo di ottobre, rischiando e prendendo le botte della Guardia Civil. Le ho viste coi miei occhi, assieme ad altri 200 “osservatori internazionali”, parlamentari o ex parlamentari degli altri stati membri dell’UE. Ci chiedevano di non andare via perché altrimenti “ci avrebbero picchiati”. E da altri seggi ci telefonavano: “Venite, aiuto, stanno arrivando, quelli della Guardia Civil. Ci picchiano. Portano via le urne...”. Incredibile, eppure questo scenario da regimi del secolo scorso, è questa Europa nell’anno 2017.

Su una cosa voglio insistere: non ho mai sentito un catalano lamentarsi di tasse o altro, ma solo e sempre di dignità e autogoverno. L’Unione Europea non può non discutere di questi argomenti o parlarne solo alla luce di interessi, o di paure, o di appartenenze politiche.

Dopo la dichiarazione di indipendenza del 27 ottobre 2017, applicando per la prima volta nella storia l’articolo 155 della costituzione spagnola , il governo di Mariano Rajoy ha sostituito il governo eletto dai Catalani con dei suoi rappresentanti, che hanno poi organizzato nuove elezioni.

Le nuove elezioni si sono regolarmente svolte il 21 dicembre 2017 e ancora una volta i partiti indipendentisti hanno conquistato la maggioranza. Il resto ormai è cronaca quotidiana. Madrid continua a provocare e a usare la forza. Aiutata dal silenzio o addirittura dalle parole di appoggio di Tajani e di altri vertici della UE.

Dal 16 ottobre, tra i tanti altri, sono in prigione Jordi Cuixart, il presidente della associazione culturale Omnium (costituita negli anni 60 con l’obiettivo di studiare e promuovere la lingua e la cultura catalana) e Jordi Sànchez, presidente della associazione culturale ANC (Associazione Nazionale Catalana), costituita nel 2011. I due Jordi sono indagati di “sedizione”, un reato punito con decenni di carcere.

Si possono dire tantissime cose a favore o contro quello che sta succedendo in Catalogna, ma penso che la politica di “non parlarne” sia decisamente sbagliata: a mio giudizio riguarda molto da vicino tutta Europa e certamente non “solo la Spagna”. Il nostro sistema è basato su mercato e democrazia, da Teheran in giù abbiamo tanti nemici ma siamo capaci di farci male anche da soli. La mia impressione è che i signori che stanno guidando l’auto dell’UE sono concentrati sullo specchietto retrovisore ma non guardano né davanti né di lato.

Davanti e intorno a noi, invece, c’è tanto altro. E non è neppure lontano, basta andare in Svizzera. Come Barcellona e Madrid, anche Interlaken e Lugano sono diversissimi. Anche loro non parlano la stessa lingua. Ma a differenza di Barcellona e Madrid lavorano assieme per trasferire a figli e nipoti un sistema paese che funziona. E ci riescono. Perché in quello stato federale i cittadini sono informati e consapevoli. Riescono a fare la differenza. C’è sana competizione a tutti i livelli. Il sistema svizzero è molto meno permeabile ai centralismi del nostro tempo. La forma direttoriale di governo, fondata sulla ben nota “formula magica” (la responsabilizzazione di tutte le forze nel governo federale), è senza dubbio di gran lunga superiore ai sistemi politici in cui due parti politiche si alternano ciclicamente al potere, in una apparente competizione che è in realtà una gara a chi è più centralista.

Il modello svizzero ci insegna a trasformare gli attori, anche quelli più competitivi, in una squadra (Parag Khanna. “La rinascita delle città-stato. Come governare il mondo al tempo della devolution”. Capitolo 3: Sette presidenti sono meglio di uno).

Le chiusure nazionalistiche ed egoistiche caratterizzano i vecchi stati-nazione, non certo la Catalogna, o il Veneto, o la Scozia, o altre parti d’Europa stanche della antistorica, assurda e irrazionale cultura centralista.

C’è da liberarsi dei miti del centralismo. Nel 1994 Kenichi Ohmae scriveva: “I governi nazionali tendono tuttora a considerare le differenze tra regione e regione in termini di tasso o modello di crescita come problemi destabilizzanti che occorre risolvere , anziché come opportunità da sfruttare. Non si preoccupano di come fare per aiutare le aree più fiorenti a progredire ulteriormente , bensì pensano a come spillarne denaro per finanziare il minimo civile. Si domandano se le politiche che hanno adottato siano le più adatte per controllare aggregazioni di attività economiche che seguono percorsi di crescita profondamente diversi. E si preoccupano di proteggere quelle attività contro gli effetti “deformanti” prodotti dalla circolazione di informazioni, capitali e competenze al di là dei confini nazionali. In realtà non sono queste le cose di cui ci si deve preoccupare. Concentrarsi unicamente su questi aspetti significa mirare soprattutto al mantenimento del controllo centrale, anche a costo di far colare a picco l’intero paese, anziché adoperarsi per permettere alle singole regioni di svilupparsi e, così facendo, di fornire l’energia, lo stimolo e il sostegno per coinvolgere anche le altre zone nel processo di crescita.” (Kenichi Ohmae “La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economia regionali”, Baldini e Castoldi 1994).

La storia sta dando ragione a Kenichi Ohmae e a tanti altri pensatori decentralisti. Noi italiani in particolare ne sappiamo qualcosa. Il tema è questo: ha ancora senso il mito del controllo centrale dello stato? Voglio ricordare l’articolo 3 della Costituzione Svizzera. Ecco il testo: “I Cantoni sono sovrani per quanto la loro sovranità non sia limitata dalla Costituzione federale ed esercitano tutti i diritti non delegati alla Confederazione”. Dunque lo Stato centrale non è il “padreterno” come da noi e come in Spagna. La sovranità è dei cittadini, e quindi degli enti territoriali. Lo stato è al loro servizio e svolge i compiti che loro, i titolari della sovranità, via via decidono di delegargli. E naturalmente come e quando vogliono possono decidere, con lo strumento della “iniziativa popolare”, di cambiare la costituzione e togliere o modificare le deleghe. Con questa cultura e con questa costituzione la Svizzera è il paese più competitivo del mondo davanti a grandi (Stati Uniti, secondi) e a piccoli Stati (Singapore, terzo), secondo la recente (26 Settembre 2017) classifica di competitività del World Economic Forum.

Abbiamo bisogno di ispirarci al federalismo, anche per avere una Europa più forte, che sappia parlare, quando è necessario, con una sola voce. Una sola voce che non ci sarà mai finché i vecchi stati-nazione non si “frantumeranno volontariamente in entità politiche più piccole per le quali un’effettiva unione federale europea diventi non solo una convenienza ma un’urgente necessità” (Michele Boldrin su Linkiesta 1 Novembre 2017).

Finché il potere sarà concentrato nelle capitali dei vecchi grandi stati-nazione l’Unione Europea non parlerà con una voce sola e non parteciperà compiutamente alla politica internazionale. Continuerà a funzionare poco e male, a spendere cifre assurde per la propria pompa e le tecnocrazie, essere strattonata da una parte e dall’altra dagli interessi degli stati-nazione. E parole come libertà, responsabilità, efficienza e competitività continueranno a suonare estranee nei corridoi di Bruxelles.

Giancarlo Pagliarini
23 dicembre 2017 – pubblicato sul Forum 2043 il 23 dicembre 2023)

 

La foto in testa all'intervento di Giancarlo Pagliarini è tratta dal sito https://swissfederalism.ch/giancarlo-pagliarini-il-federalismo-agevolerebbe-litalia/

 

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