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Dalla cultura montanara l'idea universale di bioregione

Omaggio a Tavo Burat - Monte Rubello (Trivero, Biella), 11 gennaio 2024

In questo tempo di centralismo autoritario, che produce inevitabilmente povertà, disumanità e infine guerra, ci stringiamo alle radici più profonde del nostro umanesimo territorialista, ecologista e libertario.

Questo anno 2024 sarà cruciale per studiosi, attivisti, amministratori locali che seguono il nostro Forum 2043. Dovranno affrontare le elezioni europee insieme alla nostra famiglia politica EFA e al patto Autonomie e Ambiente e le elezioni regionali in Sardegna, Abruzzo, Umbria, Basilicata e Piemonte. Siamo attesi all’impegno per il rinnovo di migliaia di amministrazioni comunali, nelle quali c’è sempre più bisogno del nostro patrimonio di civismo, ambientalismo, territorialismo. Questo Forum 2043 intende essere fonte di ispirazione e formazione per tutti coloro che vorranno lanciare un messaggio di speranza e di pace alle generazioni future, contro la rassegnazione a essere sudditi in una società percorsa da centralismi (tecnologici, economici, militari, politici) sempre più autoritari.

A fine anno 2024 saranno anche quindici anni dalla scomparsa di Tavo Burat (al secolo Gustavo Buratti Zanchi, Stezzano, 22 maggio 1932 – Biella, 18 dicembre 2009).

Il Forum 2043 gli dedica questo omaggio, perché è a lui che dobbiamo la messa a fuoco del concetto di “bioregione”, un’idea centrale per tutti i movimenti civici, ambientalisti, territorialisti, di emancipazione dei contadini e di tutti i lavoratori.

Tavo Burat è stato scrittore, poeta, giornalista, docente, politico, storico, studioso, ma soprattutto attivista per le biodiversità, le diversità etno-linguistiche, le autonomie locali. Si laureò, non a caso, con una tesi sul diritto del cantone dei Grigioni, lo stato svizzero che è a sua volta una piccola svizzera, in cui comuni di diversa lingua e cultura convivono, ciascuno occupandosi della propria comunità e del proprio territorio.

Fu il fondatore della rivista in lingua piemontese La slòira e direttore della rivista Alp. Fu studioso delle tradizioni popolari alpine, del tuchinaggio, del movimento evangelico di Fra Dolcino. La ricerca scientifica su Dolcino lo coinvolse al punto da spingerlo, da cristiano valdese qual era, a dichiararsi “neodolciniano”.

Il 14 settembre 1974, seicento anni dopo l’ultima condanna degli apostolici dolciniani, volle un cippo dedicato a Fra Dolcino sul Monte Rubello (montagna “ribelle”), al posto dell’obelisco che, nel 1907, nel sesto centenario della morte del frate, gli avevano dedicato gli operai anarchici e socialisti della Valsesia e che era stato distrutto dai fascisti. Ogni anno, nei pressi del restaurato cippo, si celebrano ancora raduni libertari la seconda domenica di settembre.

Del comitato promotore del nuovo monumento fanno parte, tra gli altri, Cino Moscatelli, epico comandante della Resistenza partigiana, Dario Fo, Franca Rame e Osvaldo Coisson, uno dei redattori di quella “Dichiarazione di Chivasso” del 13 dicembre 1943, con la quale si prefigurava per l’Italia e per l’Europa, un futuro di federalismo e autonomie per le valli alpine e in realtà per ogni territorio. La Carta di Chivasso ha anticipato di decenni le istanze decentraliste di tutto il mondo, da Gary Snyder, a Kirkpatrick Sale, Peter Berg, Raymond Dasmann, portando antichi valori confederalisti nella modernità industriale e restando attualissima ancora oggi nel XXI secolo globalizzato.

Tavo Burat era interessato all’eresia contro ogni autoritarismo. Studiava e parlava le lingue minoritarie. Percorreva le Alpi meno celebrate e più lontane dalle rotte turistiche, perché per lui le montagne erano sempre state un rifugio, il luogo più amato da gente perseguitata perché parla lingue incomprensibili al potere centralista costituito.

Nell’ottobre 1975 Burat, che allora era segretario per l'Italia dell’Associazione internazionale per la difesa delle lingue e delle culture minacciate (AIDLCM), di cui era stato uno dei fondatori a Tolosa nel 1964, organizzò a Lecce, insieme ad Antonio Piromalli, un convegno in difesa delle minoranze linguistiche, a cui partecipò anche Pier Paolo Pasolini (per il grande poeta, regista e intellettuale friulano, in pratica, fu l’ultimo intervento pubblico prima del suo assassinio).

Fu consigliere comunale a Biella, assessore della Comunità montana Bassa Valle Cervo dal 1970 al 1993, impegnato in molte istituzioni comunitarie, culturali e storiche. Aveva iniziato l'attività politica nel PSI, prima di diventare uno dei fondatori delle Liste Verdi, diventando uno dei proponenti del primo statuto confederale degli ecologisti italiani nel 1985. Nel tempo proseguì il suo impegno spirituale, culturale, storico e politico.

Alla sua morte, nel 2009, in conformità con la sua storia di difesa delle culture locali, volle essere sepolto avvolto nella bandiera dei Sinti piemontesi.

Civiltà montanara e autonomia bioregionale

di Tavo Burat*

Per bioregione si intende un luogo geografico riconoscibile per le sue caratteristiche di suolo, di specie animali e vegetali, di microclima, oltre che per la cultura umana che da tempo immemorabile si è sviluppata in armonia con tutto ciò. Le valli alpine, come la Valle Sesia, costituiscono - o meglio, costituivano - bioregioni, e cioè insieme biologici tendenti all'autosufficienza ed all'autoproduttività, che si sono adattati alle condizioni dei loro habitat dove si realizza un "equilibrio circolare" tra tutti i fattori (produttori di energia, consumatori di energia, eliminatori dei rifiuti).

Le popolazioni inserite nella bioregione formano comunità locali conferenti veste concreta a quello spirito di Gemeinchaft, cioè di "comunità di destino" entro cui si esprimono secoli di produzione culturale, in spazi per lo più liberi dai condizionamenti, affrancati dalla subalternità, caratterizzati da una produzione culturale autonoma e cioè non eterodiretta.

Orbene, a me sembra che per comprendere Dolcino, Margherita e la loro relazione con la Valle Sesia, sia necessario rapportarli alla bioregione teatro della loro epopea del 1305-1307. Quella Valle Sesia che, con il trattato di Gozzano del 1275, aveva conquistato con decenni di guerriglia contro i feudatari Biandrate prima e i centri metropolitani di Vercelli e Novara poi, una quasi indipendenza; "quasi" perché I' Universitas valsesiana corrispondeva - utilizzando un termine moderno - ad un protettorato: infatti, per trattati e contese con potenze forestiere era pur sempre necessario l'assenso della città di Novara.

(...) Si trattava di vere comunità reali, non personali, caratterizzate dalla coesistenza fra la proprietà privata e quella collettiva. La prima era limitata alla abitazione, alle armi, agli utensili da lavoro, al bestiame ed a poca terra; la grande proprietà - i campi coltivabili, le brughiere e gli alpeggi per i pascoli, i boschi - era comunitaria, e il godimento delle sue singole componenti era stabilito da "regole" scaturite da assemblee di uomini liberi, vale a dire da coloro che portavano le armi e che al prezzo della vita difendevano quella proprietà.

In alcuni Cantoni della Svizzera primitiva si è conservata la Landsgemeinde, assemblea per gli affari comunali e cantonali che emana leggi e regolamenti secondo i dettami della democrazia diretta, e la partecipazione è un diritto-dovere riservato sino a non molti anni fa agli uomini atti alle armi. Le comunità longobarde diedero vigore a tali assemblee degli uomini liberi, gli arimanni. Queste comunità erano chiamate vicìnie (vicinanze nel Biellese) comunaglie nell' Appennino parmense, regole, appunto, nel Cadore e nel Veneto.

L'etica che informava lo spirito comunitario sull'inalienabilità del suolo, era di voler conservare intatto il patrimonio collettivo.

(...) La comunità rurale-alpina può quindi definirsi come un insieme di famiglie vicine che coltivano un dato territorio soggetto a regole di utilizzazione collettiva, ed è l'antenata della maggior parte degli odierni Comuni "politici": in Svizzera sussiste tuttora il "doppio comune": quello moderno, "politico", e quello detto, in Canton Ticino e nei Grigioni italiani, "patriziale", corrispondente alla nostra vicìnia competente per l'amministrazione dei beni comunitari e per gli "affari pauperili" (cioè, l'assistenza).

(...) In molte alte valli, quegli "uomini liberi" poterono conservare con le armi i loro privilegi, cioè la loro autonomia, le loro "regole"; le vicìnie riuscirono a sopravvivere specialmente sulle montagne (divennero i cosiddetti "usi civici") e si conservarono sino all'inizio del secolo XIX; in Valsesia, ricordiamo la strenua battaglia autonomista dell' on. Aurelio Turcotti (Varallo 1808 - Torino 1885) canonico, ma poi fieramente eretico che manifestò nei suoi scritti simpatia per Dolcino, al Parlamento subalpino nei banchi della "montagna", la sinistra in cui sedeva Angelo Brofferio (su Aurelio Turcotti si veda: Tavo Burat, Le intuizioni di un profeta sconosciuto, in "Riforma", anno XlI, n° 11 (12-03-2004), p. 5; ldem, Aurelio Turcotti, eretico valsesiano, autonomista e federalista, né "L'impegno", a. XXIV n° 2 (dicembre 2004) pp. 121 – 128).

(...) Come abbiamo più volte sostenuto, la comunità cristiana che Dolcino ed i suoi seguaci proponevano come preconitrice del "Regno" era del tutto speculare, omologa, a quella dei montanari specie dell'alta valle non soggetta alle influenze mercantili della pianura: infatti vi si riscontrano i medesimi valori fondamentali: solidarietà e fratellanza, comunione dei beni, rifiuto di ogni tipo di balzello (taglie, o decime che fossero), parità uomo-donna, nessun servo nessun padrone, ma Dio unico "Signore"; rifiuto del denaro (si pensi al fondatore del movimento Apostolico, predecessore di Dolcino, quel Gherardino Segalello, "libertario di Dio" che gettò via i denari, francescano anarchico, salito al rogo l'anno 1300 a Parma) poiché l'economia era fondata sul servizio comunitario e sul baratto.

Dolcino testimoniava nel messaggio evangelico radicale la validità dell'ordinamento giuridico alpino, rivitalizzato dai Longobardi e minacciato dal Diritto romano che montava dai centri urbani della pianura.

La "crociata", invece, era la messa in opera di uno strumento oppressivo per l'affermazione dei princìpi antitetici: gerarchia; privilegi riconosciuti ai Signori feudali, laici o ecclesiastici che fossero; la donna considerata veicolo diabolico; la moneta sonante, anziché il libero scambio.

La sconfitta di Dolcino segnerà l'inizio della fine della civiltà alpina: alla luce del sole rimarrà l'ordinamento giuridico latino; ai "resistenti" resterà il buio dei boschi e della notte, dove troveranno rifugio i banditi; le donne "vestali" dell'antica cultura agreste diventeranno "streghe". Le fate giovani e belle saranno tramutate dalla cultura vincente in vecchie malefiche megere. La pratica del libero scambio in sfida alla legge sarà dei contrabbandieri.

Le alte valli alpine presenteranno nella loro decadenza economica, politica e sociale tutti i caratteri delle colonie, così come appaiono nel Terzo Mondo: le materie prime prodotte (si pensi ai metalli, cominciando dall'oro, ma anche all'acqua, bene quanto mai prezioso), sono consumate e trasformate nelle metropoli; le popolazioni sono territorialmente divise con confini estranei alla loro realtà economica sociale (le etnie alpine sono le medesime nei due versanti: provenzali o occitani, francoprovenzali, walser, retoromanci o ladini, tirolesi, carinziani, sloveni); le valli costituiscono una grande riserva di mano d'opera (serve, e poi operai) e di buoni soldati; il sistema viario di comunicazione da orizzontale tra valle e valle, sostituito da quello a raggiera che parte dai centri metropolitani per facilitare la pianurizzazione delle attività economiche; il capitale locale sparito, è sostituito da quello dei metropolitani, che a poco a poco si impadroniscono della terra (turismo speculativo che espelle gli indigeni); la produzione agricola, artigianale, soppiantata da quella industriale metropolitana; gli indigeni considerati culturalmente alienati, minus habentes e gli idiomi che esprimono la loro cultura bistrattata, degradati da valore "lingua" a “minus-valore”, dialetto, da estirpare e buttare (la rapina del minus-valore, dopo quella del plus-valore!).

Economia, cultura e lingua delle élites metropolitane si impongono sempre più nelle periferie: quanto è "alternativo", resistente alla globalizzazione, viene via via sospinto ai margini, o buttato a mare (come avvenuto nelle aree celtiche: in Scozia, Galles, Irlanda; Bretagna e per quella occitana, in Francia) dalla potenza economica metropolitana (di Londra o Parigi); da noi la "resistenza" è compressa contro le montagne, nelle Valli, sempre più in alto. Laddove i popoli indigeni non concordano con i piani elaborati dalle élites, che mistificano il proprio interesse facendolo apparire "progresso" tout court, essi possono essere sempre rappresentati quali terroristi pericolosi, primitivi, gretti egoisti, ostacolo allo sviluppo.

E' l'inversione dell' etica: colto, aperto e positivo il "cittadino"; ignorante e rozzo, testardo e meritevole al più di "conversione" di "emancipazione", quando non di severa condanna, il montanaro, "villano" insomma: un "eretico", cui un tempo spettava l'abitello giallo o il rogo, ed oggi il disprezzo sociale del benpensantismo cittadino. E' l'antica favola del lupo a monte e del povero agnello a valle, colpevole di aver intorbidito l'acqua …

(…) ...lo scrittore friulano Carlo Sgorlon, in un romanzo (L'ultima valle, edizioni Oscar Mondatori, Milano 1989 pp. 54-55) racconta "la moderna e sempre valida favola delle prevaricazioni dell'uomo sulla natura; favola antica della dabbenaggine e del miraggio del progresso che, alleati contro l'equilibrio della creazione, scatenano il sangue ferito della terra. Perché uccidono il passato, scambiandolo per passatismo, in nome di un avvenire che è furto, sconsacrazione, improvvisata padronanza del fuoco degli déi". In questo libro si staglia la figura di Siro, un montanaro contrario alla strada e alla diga progettata ed in fase di realizzo: il romanzo è ispirato alla tragedia del Vajont anche se i toponimi sono mutati.

A chi diceva a Siro; "sei tu fuori dal tempo. Dov'è il pericolo? Nei lavori della strada?" replicava: "ma certo. Cominciano sempre con una strada. Se lasciate che la strada si faccia, poi sarà tardi per ogni cosa". Lui conosceva le loro tecniche, le aveva viste applicate in molte altre valli.

Dopo la strada veniva gente che avrebbe messo le mani ingorde su ogni cosa. Avrebbe sventrato i boschi per farne da sci, costruito ogni possibile diavoleria, seggiovie, impianti di risalita, funivie per salire in cima alla montagna senza muovere un solo passo; avrebbe fabbricato alberghi, rovinato i nevai del massiccio, e le valli e le montagne sarebbero state percorse da una ragnatela di fili di acciaio e di piloni di cemento. Avrebbero deviato le acque... "Le acque? Cosa c'entrano le acque?" Non lo so. Dico per dire. So soltanto che rovinano tutto. "Siro, ragiona. La gente della valle aspetta da decenni che la strada sia fatta". Ma lui non voleva ragionare. Era sconvolto dalla sua passione, e continuava a dire che bisognava fare una lega di tutta la gente per bloccare il progetto che ci minacciava, correre in tutti i paesi a soffiare con ogni forza dentro l'antico corno di bue, per gettare l'allarme...

(…) Sgorlon ci spiega così, sia pure molto indirettamente, perché il movimento contro il Treno Alta Velocità -TAV- in Valle Susa abbia emblematicamente "recuperato" fra Dolcino: è la seconda volta, dopo gli anni di fine - principio secolo, quando il movimento operaio Valsesiano e Biellese onorò il "precursore", che un movimento popolare riscopre Dolcino e lo rivendica.

In Valle Susa, e in internet circola una significante lettera, firmata "Dolcino e Margherita, da nessun luogo" (utopia!) che è un inno alla libertà della montagna, una strenua difesa di quella "bioregione" che una colossale strada ferrata vorrebbe ancor più sconvolgere.

Una valle già percorsa da autostrade, superstrade e ferrovia, sconquassata da una "grande opera" che prevede montagne scavate per quindici anni, con un milione di metri cubi di materiale pericoloso da trasportare da qualche parte; cinquecento camion in transito giorno e notte nella valle per trasportare i detriti scavati; tonnellate di polvere circolante nell'aria: le verifiche secondo le quali non ci sarebbe amianto nei terreni si sono rivelate inattendibili, il movimento "No Tav" ne ha portato alla luce le lacune dal punto di vista scientifico e la Procura di Torino ha aperto un' inchiesta.

Si estende la desolazione di panorami cementificati, la distruzione di prati, l'ombra di viadotti, il grigio delle decine di piloni di cemento, antenne e tralicci aumentati in modo esponenziale, inoltre le falde deviate e prosciugate, le acque inquinate. Ma l'opera che costa miliardi e miliardi di sicuro non solo è dannosa, ma inutile, perché il rapporto tra trasporto merci e Pil cresce fino a quando lo sviluppo economico di un Paese non raggiunge una certa soglia, dopo la quale si stabilizza e decresce: i dati europei Eurostat evidenziano come in Europa il rapporto tra tonnellate per km di merci (indicatore di qualità di trasporto delle merci) e PiI, tra il 1997 e il 2002, è rimasto invariato; per l'Italia è stazionario.

II movimento che ha riconosciuto in Dolcino un emblema, antepone la tutela delle bioregione e della salute agli interessi di coloro che Sgorlon chiamava i "nuovi feudatari", cioè poche ma potenti lobby economiche, spesso trasversali negli schieramenti politici.

In realtà, si confonde il "progresso", che è liberazione dal bisogno e dal servaggio, con lo "sviluppo" che non deve essere infinito e che è destinato a schiantarsi a grande velocità contro la barriera del limite ecologico. Si sostiene che la TAV è indispensabile, altrimenti l'Italia non si modernizza, ma senza fondarsi su dati e fatti nazionali. E Luciano Gallino si chiede se non siano proprio gli abitanti della Val Susa a fare, invece, il vero interesse nazionale, e che stiano spronandoci a pensare se è davvero conveniente trasformare l'Italia nella piattaforma logistica d'Europa, e se la perseveranza di realizzare la TAV senza valide ragioni sia conseguenza dell'incapacità di esplorare in modo corretto altre opportunità di cui disponiamo.

Forse questi Dolcino e Margherita strenui difensori della bioregione alpina, e cioè di una regione-comunità in osmosi con il territorio, sono trascendentali, più attinenti ai personaggi mitici, tramandatici dalla tradizione popolare, che a quelli storici. Da Robin Hood a Farinet, la leggenda sembra consegnarci, meglio dei documenti, una realtà più significante, certamente più coinvolgente e affascinante. Andrè Malraux lasciò scritto: “solo il leggendario è vero”. Prima di lui, Beaudelaire aveva esclamato: “Sei sicuro che questa leggenda sia proprio vera? Ma che m’importa, se mi ha aiutato a vivere!”. E Alessandro Dumas va ancora oltre: “Si può violare la storia, purché ci faccia un bel figlio!”.

Dolcino e Margherita, furono torturati atrocemente ed arsi il 1° giugno 1307. Malgrado sei secoli di demonizzazione, il movimento operaio li riconobbe precursori della lotta per il riscatto degli oppressi, ed a Dolcino innalzò sul monte Massaro un obelisco alto 11 metri, abbattuto vent' anni dopo, nel 1927, dal regime fascista. Ancora una volta si credeva di averla "fatta finita" con siffatti simboli scomodi. Il bisettimanale della curia scrisse allora che "quel povero cumulo di pietre aveva cessato di essere, come si augurò e si credette dai promotori, un faro ed un punto di riferimento".

Ma non fu cosi: nel 1974, l'anno in cui il pensiero laico trionfò respingendo con un referendum la proposta di abrogare la legge che introduceva il divorzio nell'ordinamento giuridico italiano, sui ruderi di quell'obelisco sorse un cippo. Oggi Dolcino e Margherita fanno sentire le loro voce "altra", come eroi dell'autonomia e della salvaguardia delle bioregione.

Per dirla con Giuseppe Giusti, "dopo morti sono più vivi di prima".

* Fonti

- Quaderno n. 37 del Centro di iniziativa politica e culturale di Cuneo (CIPEC), dal sito http://www.cipec-cuneo.org/quaderni/cipec37.htm.

- Il libro di Tavo Burat, “Fra Dolcino e Margherita – Tra messianesimo egualitario e resistenza montanara”, Edizioni Tabor, 2013; segnatamente l’ultimo capitolo: “Civiltà montanara e autonomia bioregionale”, che riprende un precedente lavoro di Tavo Burat presentato a un convegno di studi dolciniani a Varallo il 4 novembre 2006 e i cui testi sono ripresi anche nel sopra citato Quaderno n. 37 del CIPEC.

- LA BÜRSCH - Centro di Documentazione dell'Alta Valle del Cervo, sul sito https://www.altavallecervocentrodoc.it/.

- “Ritornare selvatici - le parole nomadi di Tavo Burat”, docufilm prodotto da Ecomuseo Valle Elvo e Serra, regia di Giuseppe Pidello e Maurizio Pellegrini (https://www.videoastolfo.com/ritornare-selvatici).

- https://it.wikipedia.org/wiki/Gustavo_Buratti.

 

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