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Sardigna Libera

Claudia Zuncheddu: il 25 febbraio 2024 un voto per l'autogoverno sardo, contro il bipolarismo italiano

ELEZIONI REGIONALI IN SARDEGNA - AL VOTO IL 25 FEBBRAIO 2024

Intervento di Claudia Zuncheddu

(Sardigna Libera, associata di Autonomie e Ambiente)

Cagliari, 1 febbraio 2024

 

Non tutte le burrasche arrivano per nuocere. In Sardegna si destabilizza il bipolarismo italiano.

Nuovi fenomeni nel panorama elettorale sardo, rompono il rito delle solite guerre per bande tra centrodestra e centrosinistra per l’accaparramento del governo regionale, senza che nulla cambi per le condizioni di vita e dei diritti dei sardi.

A far tremare la stabilità del sistema bipolare è la candidatura di Renato Soru, un fenomeno dirompente.

L’ex-presidente, dopo una lunga e tormentata permanenza all’interno del PD, ha rotto con quel partito e con il polo di centrosinistra sul tema della grave imposizione della candidatura di Alessandra Todde del M5S alla presidenza della Regione autonoma della Sardegna. Un nome emerso a Roma dagli accordi tra PD e M5S, secondo logiche centraliste e di mera spartizione dei posti.

L’imposizione delle segreterie italiane sulla scadenza elettorale sarda ha risvegliato antiche differenze politiche mai risolte fra Renato Soru e il PD.

Sulle differenti e incompatibili visioni della Sardegna e i rapporti di forza all’interno del PD, i nodi sono venuti al pettine dopo anni di oblio.

Scrissi per il libro di Massimo Dadea “Meglio Soru (O NO?)” (uscito all’inizio del ‘22 per EDES: “La schiacciante vittoria elettorale di Soru alle elezioni del 2004, esprimeva la necessità, da parte della società sarda, di un cambiamento profondo che non poteva prescindere dalla rottura radicale di un sistema consolidato di potere e di privilegi nelle mani di una élite. Alla domanda, se in quegli anni ci fossero le condizioni politiche per la grande svolta, la risposta è no, se il rapporto di forza tra conservazione e cambiamento è a favore della conservazione. Così è stato allora e così sarà sino a quando non si sconfiggeranno i potentati e si costruirà una nuova classe politica dirigente che metta al centro della propria azione politica i destini del benessere della propria gente e della propria Terra… Ciò che il centrosinistra non volle capire, è che nel 2004, con la vittoria di Soru, non si trattava solamente di vincere le elezioni per la conservazione del proprio potere attraverso un ‘cavallo di razza’, ma di segnare una svolta nella società sarda con la messa in discussione del suo stesso ruolo all’interno del sistema”.

Per la cronaca, Soru rassegnò le dimissioni anticipatamente (nel novembre 2008), in quanto ostacolato nella sua azione di cambiamento da una parte del PD e del centrosinistra. Soru, vent’anni dopo, si riaffaccia nello scenario elettorale regionale con un’azione politica autonoma di rottura e contro ogni forma di centralismo: la Coalizione sarda.

Soru candidato presidente è sostenuto da cinque liste: Progetto Sardegna, formazione civica che Soru stesso aveva promosso sin dal 2003; Vota Sardigna, lista che unisce Sardegna Chiama Sardegna, IRS e Progres; Liberu; Rifondazione; la lista unitaria Azione-Più Europa-Upc.

La Coalizione sarda è il primo tentativo concreto di rottura del soffocante bipolarismo italiano, dopo anni di rassegnazione alla colonizzazione politica.

Soru avrebbe accettato di passare attraverso la selezione delle primarie, ma questa disponibilità è stata rifiutata dagli altri, perché il nome del candidato scelto a Roma, deciso nelle alte sfere del PD e del M5S, non poteva essere messo in discussione. La Sardegna era già stata oggetto di contrattazione e di scambio.

Todde, vicepresidente del M5S, deputata e già sottosegretaria di stato al Ministero dello sviluppo economico  nel governoConte II e nel governoDraghi,è di fatto una garante affidabile del sistema centralista italiano (e del neoliberismo europeo e globale, a cui il centrosinistra italiano è imbarazzantemente subalterno).

Per il dopo elezioni Renato Soru propone un nuovo progetto politico per il futuro della Sardegna: “...che comein Val d'Aosta, nel Trentino, inCorsica,nei PaesiBaschi,in Catalogna,i partiti regionali hanno dato una forte spinta per lo sviluppo , vogliamo che succeda anche da noi,cosìche la Sardegna diventi una regione che possa confrontarsi alla pari con quelle più avanzate d'Europa" ha dichiarato Soru.

Il fenomeno Soru potrebbe inaugurare un nuovo scenario, con la destabilizzazione del bipolarismo e del centralismo italiano, essendo una personalità politica con una esperienza personale, professionale, amministrativa, che oggettivamente surclassa quella degli altri candidati.

Della Todde abbiamo già detto. In questa contingenza politica, con una legge elettorale nata per tenere fuori dal consiglio regionale le forze minori e per blindare il bipolarismo italiano (che infatti nessuno ha voluto cambiare), c’è in corsa la lista Sardigna R-esiste con Lucia Chessa candidata presidente.

Nel centrodestra, che è stato a rischio di implosione, Alessandra Zedda di FI, ex assessora ed ex vicepresidente della giunta Solinas, ha ritirato la sua candidatura ed è rientrata nel polo italiano, a sostegno del candidato imposto da Roma, Paolo Truzzu di FdI, sindaco di Cagliari. Il presidente uscente, Christian Solinas (Psd’az), a suo tempo imposto dal leghismo salvinista, ha dovuto ritirarsi. Chi fu incoronato da Roma, da Roma venne deposto. Ciò che resta del Partito Sardo d’Azione sotto la guida di Solinas, non dimentichiamolo, nulla ha più a che vedere con i suoi fondatori autonomisti e antifascisti del 1921, tanto meno con le complesse ma anche entusiasmanti vicissitudini degli anni ‘70 e ‘80, quando il vento sardista portò Mario Melis alla guida della Regione autonoma.

Il risultato di queste elezioni è nelle mani dei Sardi e della loro capacità di individuare quali siano le formazioni politiche che sono per un reale cambiamento. In passato i Sardi hanno votato sinistra, destra, pentastellati, tutte realtà comandate dai vertici dello stato. Oggi con forza si pone il problema di scegliere fra chi è ancora succube del centralismo italiano e chi si batte per un genuino processo di autonomia e di autodeterminazione.

Il 25 febbraio 2024 è vicino ed è tempo di generosità e di speranza.

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Per Beniamino Zuncheddu e per tutti

Giustizia e Libertà per Beniamino Zuncheddu e per tutti

Il caso giudiziario di Beniamino Zuncheddu, un condannato all’ergastolo che da 32 anni urla la propria innocenza, risveglia il dibattito sull’accanimento della giustizia italiana sugli umili in generale e in particolare sulla società pastorale sarda.

A dar voce alla disperazione di un giovane pastore, per il quale tutto depone per la sua innocenza, è, ancora una volta, in una agghiacciante solitudine nel panorama dei media, Radio Radicale.

Siamo in attesa della revisione di un processo a oltre trent’anni di distanza da un delitto efferato, commesso a Sinnai, dove furono uccise tre persone. Il caso giudiziario in quell’ambito pastorale fu inquadrato come una presunta faida e fu chiuso in un batter d’occhio. Era bastato trovare uno da condannare per liquidare il caso. Beniamino Zuncheddu, di 26 anni, servo pastore fragile e indifeso, era il capro espiatorio perfetto per la giustizia italiana.

Quella lontana condanna all’ergastolo è ritenuta palesemente ingiusta dalla comunità di Burcei, il paese di Beniamino, per chi ha studiato il caso e oggi, finalmente, per gli addetti ai lavori.

Un giovane mite è invecchiato inascoltato. Ci sono voluti i Radicali per smuovere lo stagno putrido. In sostegno alla mobilitazione popolare di Burcei, si è tenuta pochi giorni fa una manifestazione radicale a Roma, in cui era presente, fra gli altri, la presidente onoraria del partito, Gaia Tortora, la figlia di Enzo.

Il caso di Beniamino Zuncheddu è emblematico dello stato desolante della giustizia dello stato centralista italiano, ma è reso ancora più insopportabile dalla condizione di subalternità coloniale in cui quello stato tiene le comunità sarde.

La società pastorale sarda è da sempre uno dei terreni preferiti dalle esercitazioni repressive della giustizia italiana. In questa atmosfera di discriminazione e disprezzo da parte degli operatori dello stato italiano, si è sviluppato un sentimento popolare di diffidenza nei confronti delle istituzioni della legalità (una conseguenza peraltro ben nota di tutti i colonialismi).

Il dramma di Beniamino non è solo un errore giudiziario. E’ anche un consapevole accanimento connesso con la criminalizzazione di un mondo pastorale che ha proprie regole, dettate dalla sua antica cultura, che ha resistito all’omologazione e che per questo è stato e viene ancora perseguitato, dai Savoia, al fascismo, al fallimento (voluto da Roma e da molti potenti di Cagliari) dell’autonomia speciale sarda, fino a tutt’oggi.

La nostra cultura è diversa e lontana dalla repressione dello stato centralista. La mediazione dei conflitti tra le parti è sempre avvenuta all’interno della comunità, attraverso personalità di valore: Sos òmines de gabbale, òmines de valoreche agivano per garantire le Paci, Sas Paghes.Queste figure avevano il compito di cercare riconciliazione tra le persone, come strada maestra per garantire sicurezza alla comunità. Questa concezione della risoluzione dei conflitti, peraltro, avrebbe qualcosa da insegnare a un sistema giudiziario burocratico e centralista che riempie le carceri, che trascina i processi per decenni, che è stato ripetutamente condannato in ogni foro internazionale per la sua feroce lentezza e incapacità di raggiungere obiettivi di giustizia riparativa.

Dal romanzo di Giulio Bechi, “Caccia Grossa”, descrizione della feroce repressione avvenuta a fine Ottocento ai danni delle popolazioni sarde, considerate fiancheggiatrici del banditismo, fino a oggi, il disprezzo dello stato centralista italiano per i sardi è ancora vivo. I codici italiani, ancora principalmente sabaudi e fascisti, pochissimo aggiornati (qualche volta in peggio) dalla Repubblica, hanno continuato a sradicare la nostra giustizia pastorale, insieme con la nostra cultura, per sostituirla con la giustizia peggiore d’Europa.

Insieme alla lotta per Beniamino, che merita la priorità e il massimo supporto da parte di tutti noi, tutta Autonomie e Ambiente ha il compito di approfondire, comprendere e ribellarsi contro il centralismo autoritario e la sua giustizia ingiusta, che continua a minacciare, con metodi antichi - e anche in modi nuovi tutti da mettere a fuoco - le nostre culture e i nostri territori.

Cagliari, 6 ottobre 2023

 

Claudia Zuncheddu

associata al Patto Autonomie e Ambiente - Movimento Sardigna Libera

 

Per l'autogoverno della Sardegna dopo il voto

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Claudia Zuncheddu (Sardigna Libera - associata di Autonomie e Ambiente) questo commento alle elezioni regionali sarde di domenica 25 febbraio 2024

 

Con il 45,3% si aggiudica la vittoria il campo largo con Alessandra Todde, presidente e leader del M5S. Il centro destra, con Paolo Truzzu di FdI e sindaco di Cagliari si arresta al 45%.

Note importanti di cronaca, un sardo su due non è andato a votare e sui voti alle liste delle due coalizioni emerge che la differenza fra il campo largo e il centro destra, è di circa 40 mila voti a favore del centro destra.

Al successo di Alessandra Todde, sul filo di lana, ha concorso sicuramente il voto disgiunto, in parte l’estrema polarizzazione imposta a reti unificate dai media italiani, nonché il clima di repressione poliziesca culminato con le manganellate ai giovani manifestanti di Pisa.

La Coalizione Sarda, con Renato Soru candidato presidente, non ha superato le “forche elettorali” del 10%. Stessa sorte con l’1% alla candidata Lucia Chessa della coalizione Sardigna R-esiste. La discriminante legge elettorale, varata per blindare il bipolarismo italiano, ancora una volta condanna circa 70 mila sardi, a non essere rappresentati nella nostra massima istituzione.

Tuttavia il risultato elettorale va analizzato non solo con i criteri delle coalizioni italiane. Il risultato della Coalizione Sarda, pur non rappresentata in Consiglio regionale, non è una disfatta. La percentuale dell’8,6%, nettamente inferiore alle aspettative, è la base di partenza di un progetto ampio e ambizioso, con testa e piedi in Sardegna, fuori dalle dinamiche delle politiche centraliste italiane. L’aspirazione all’autogoverno e all’autodeterminazione è il profondo solco che ci separa dal bipolarismo centralista italiano.

Siamo consapevoli che gli schieramenti italiani in Sardegna, sino ad oggi, sono stati capaci di reggere le burrasche e di resistere ai terremoti. E’ in questa lotta impari che l’8,6%, della Coalizione Sarda con Renato Soru, non è una inutile testimonianza, ma una base da cui andare avanti per ulteriori sfide.

Questa esperienza elettorale, maturata nel giro di pochi mesi, ha dato un forte impulso al dibattito nei territori sui grandi temi delle criticità sanitarie, economiche e sociali. Le lotte sulla difesa dei territori dall’attacco all’eolico, imposto per decreto, danno vita alla necessità di autonomia decisionale dei territori e di autogoverno delle comunità sulle proprie risorse. Queste esperienze hanno aggregato forze vitali e differenti su un grande progetto rappresentato da Soru e in parte già sperimentato dal suo precedente governo.

Per questa esperienza e per il suo futuro, un ringraziamento speciale a Renato Soru. Grazie anche a tutti i candidati, agli attivisti, ai numerosissimi sardi che hanno creduto nel progetto. Un saluto fraterno, senza rancore ma anzi con speranza di ritrovarsi su terreni di autogoverno e buongoverno, anche ai sardi che nella cabina elettorale si sono rassegnati a votare “italiano”.

Claudia Zuncheddu – Sardigna Libera

 

Pratobello '24, un simbolo per tutti coloro che vogliono decidere da sé su di sé

Ha avuto un grande successo popolare la proposta di legge regionale d'iniziativa popolare per porre un freno alla speculazione eolica in Sardegna. La proposta è meglio nota come "Pratobello '24", un nome che evoca la lotta degli anni '60, condotta dalle donne di Orgosolo sui loro pascoli alti, in cui impedirono la realizzazione di una base militare. Hanno firmato oltre 200.000 cittadini sardi, ciascuno di loro in persona (non c'è al momento in Sardegna qualcosa di analoga alla piattaforma pubblica istituita dalla Repubblica Italiana). Un risultato storico in una regione dove, alle ultime regionali del febbraio scorso, ci sono stati solo 690.000 voti validi a liste e candidati.

Questa proposta di legge verrà consegnata il 2 ottobre 2024 alla Regione Autonoma di Sardegna e si può immaginare che sarà un momento di grande festa popolare.

La Pratobello 2024 non ha avuto successo per la sua portata giuridica (è impervio scrivere una legge che possa incidere davvero sulla metastasi legislativa europea e italiana) ma perché è diventata il simbolo di una esigenza umana profonda, popolare e universale: essere certi, per il nostro bene ma soprattutto per quello delle generazioni future, che sul territorio, la sua fragilità, le sue risorse, la sua bellezza, le decisioni verranno prese da tutti coloro che lo abitano, con la partecipazione diretta di quelle che sono le reti di cittadinanza più attiva e attraverso autorità locali forti e competenti.

Certo, tutto è amplificato in Sardegna, una terra che è storicamente e strutturalmente trattata come una colonia interna, sin dalle origini della modernità. Una "natzione" che, ancora oggi, nonostante i fiumi di parole che sono scritte a tutela delle diversità e delle autonomie nelle norme internazionali, europee e italiane, in molti vorrebbero cancellare. Un territorio che si vorrebbe sfruttare e cementificare come si fa in ogni altra periferia dell'Italia. Una regione il cui statuto speciale è rimasto largamente inattuato e, a partire da quando è iniziata l'attuazione delle norme europee sulla libera circolazione dei grandi capitali e sull'austerità per tutte le autonomie locali, sempre più sistematicamente tradito. Una comunità a cui i media nazionali, da quasi trent'anni, concedono un unico diritto politico-elettorale: quello di scegliere fra il candidato governatore nominato a Roma dal centrosinistra o quello nominato a Milano dal centrodestra.

Ciò che però la Pratobello '24 evoca non vale solo per la Sardegna!

In ogni territorio fiumi di denaro privato e concentrazioni di potere pubblico sono sempre pronte a imporre dall'alto e da altrove impianti, infrastrutture, stravolgimenti della natura materiale e del paesaggio culturale. Ogni volta la narrazione dominante vuole imporre qualcosa per il "nostro" bene: lo sviluppo, la velocità dei trasporti, l'innovazione tecnologica, il nucleare di ultima generazione, la svolta "green"... Gli argomenti non mancano mai a chi ha quantità di denaro impensabili.

Pragmatismo, moderazione, capacità di accettare compromessi e di cercare soluzioni di buon senso, servono sempre. Non soffriamo certo della sindrome "Nimby". Nemmeno però i territori e le popolazioni locali possono essere soggette a (e spesso ingannate da) capitali internazionali e autorità lontane.

Rifiutiamo integralmente il metodo "Draghi" e norme come il decreto 199/2021, emanato dal governo di cui Alessandra Todde era viceministro allo "sviluppo economico".

Deve esserci resistenza. Resistere è difficile di fronte ai tiranni della globalizzazione, che dominano le menti prima ancora che comprare i terreni e corrompere i politici locali. Resistere è difficile, a meno che non ci si ancori a principi saldi: gli ecosistemi non si toccano; i beni culturali e naturali - compreso il paesaggio - non si deturpano; i territori non sono in vendita e non si danno nemmeno in concessione a chi li trasformerà irreversibilmente; gli impianti e le infrastrutture che si ritengono necessarie per gli interessi locali non possono essere altro che investimento e proprietà pubblica, perché alla fine del loro ciclo di vita solo l'autorità pubblica sarà in grado di rinnovarli o di ripristinare lo status quo ante (ammesso e non concesso che ciò sia possibile!).

Ciò che infine si decide di fare, giusto o sbagliato che sia, deve ricadere su chi lo ha deciso, secondo principi di sussidiarietà e solidarietà intergenerazionale.

Questa è la lotta non di un territorio, non di una singola comunità locale, non di qualcuna delle nostre regioni d'Europa contro altre, questa è una questione di autogoverno cruciale, concreta, vera, per tutti dappertutto.

L'avvio di una nuova stagione civile di autogoverno responsabile di ciascun territorio, secondo principi di sussidiarietà e solidarietà, sarà uno dei temi cruciali dell'assemblea di Imoladi Autonomie e Ambiente e del nostro impegno nei prossimi anni.

Olbia - Firenze - Udine, 30 settembre 2024

A cura di Silvia "Lidia" Fancello (AeA - EFA Sardegna), Mauro Vaiani (AeA - OraToscana), Roberto Visentin (presidente AeA - Patto Autonomia F-VG)

 

 

 

 

Radici, fallimento, riscatto per l’autogoverno della Sardegna (e non solo)

  • Autore: Claudia Zuncheddu (con un omaggio a Eliseo Spiga) – Cagliari, domenica 4 giugno 2023

La dottoressa Claudia Zuncheddu è animatrice della Rete Sarda Difesa Sanità Pubblica (la foto di Giampaolo Cirronis la riprende in una manifestazione del settembre '22) e punto di riferimento del decennale cammino del movimento Sardigna Libera. E' impegnata qui nel Forum 2043 per immaginare i "paesi nuovi" da lasciare alle generazioni future sin dall'inizio dei nostri lavori. Nel quadro di un lungo, delicato, rispettoso, inclusivo dialogo tra forze, gruppi, persone attive nella politica sarda, si è associata al progetto di Autonomie e Ambiente. Questo scritto è anche quindi, non casualmente vista la sua storia personale e la scelta radicale fatta in proposito da AeA, un'appassionata difesa della sanità pubblica, proprio attraverso  processi di autodeterminazione concreta in materie cruciali come acque, energie, cibo, salute. Contiene, infine, un omaggio alla bella figura di Eliseo Spiga: scrittore e politico sardo (nato ad Aosta nel 1930 da genitori sardi migranti e morto a Casteddu nel 2009) che non deve essere dimenticata.

Radici, fallimento, riscatto per l’autogoverno della Sardegna (e non solo)

Claudia Zuncheddu – Cagliari, domenica 4 giugno 2023

Se oggi siamo costretti a commentare gli espedienti retorici di Calderoli e Salvini sull’autonomia differenziata, mentre al potere è andato il governo più centralista della storia della Repubblica italiana, significa che la situazione è davvero grave.

Il ministro delle “porcate” fa quello che ha sempre fatto, ma noi? Noi possiamo attardarci, sulla difensiva, di fronte a processi politici che ormai da un ventennio disconoscono e svuotano tutte le autonomie, quelle personali, quelle sociali, quelle territoriali, preparando le condizioni per esaltare il centralismo autoritario?

Non perdiamo tempo accanto a coloro che, non sapendo come opporsi alla deriva populista, si attardano a discutere delle iniziative del leghismo salviniano, senza capire che quell’autonomia differenziata non si realizzerà mai, mentre il presidenzialismo e altre forme, ancora più opache, di centralismo avanzano.

A questo punto potremmo dire che noi indipendentisti, localisti, autonomisti, convinti sostenitori di forma avanzate di autogoverno e di confederalismo europeo, siamo costretti a mobilitarci contro il rischio che… Vengano minate le fondamenta di questa Repubblica italiana delle Autonomie e di questa Unione Europea disfunzionale. E’ un paradosso? Fino a un certo punto!

Noi che siamo sardi dovremmo aver chiaro, prima di tanti altri territori italiani ed europei, che cosa significa vivere sotto uno Statuto speciale di Autonomia e una Costituzione, carte tradite dal 1948.

Tutti i processi neocolonialisti, tesi a distruggere la nostra identità e la nostra economia locale, si sono solo accelerati, dopo l’avvio dell’ultima globalizzazione, quella del “Washington Consensus”. Dall’Unione Europea, peraltro contro i principi fondamentali dei trattati, sono arrivati capitalisti avventurieri, attacco ai beni comuni, austerità. Dalle rivolte cosiddette “anticasta”, in realtà solo antipolitiche e quindi anche, fondamentalmente, antidemocratiche, abbiamo avuto la contrazione degli spazi di partecipazione e agibilità politica, la scomparsa di fonti trasparenti di finanziamento pubblico dell’attivismo politico, il taglio dei consiglieri comunali, il taglio dei rappresentanti in consiglio regionale, il taglio dei parlamentari (il tutto, ovviamente, con il contemporaneo incistirsi di leggi elettorali ingiuste che discriminano ancor più le minoranze politiche presenti nella tradizione sarda).

Il risultato è, non solo per la Sardegna ma per tutti i territori, che sui media regna una cappa di grigio pensiero unico, le élite sono sempre più oligarchiche, l’alternanza fra i sedicenti “centrosinistra” e “centrodestra” corrisponde sempre più a un gioco delle parti, in una sostanziale continuità delle politiche.

Eppure le popolazioni non sono completamente domate.

Respinsero la disgraziata proposta di riforma costituzionale centralista Boschi-Renzi-Verdini nel 2016. E’ fallita, per mancanza di cultura democratica e autonomista, la protesta populista dei Cinque Stelle. E’ iniziata la parabola discendente del salvinismo e dei suoi decreti sicurezza. La deriva centralista, con l’espropriazione delle competenze territoriali, è tuttora in corso con il Piano di Colao (uomo alla guida della “task force” di Conte e poi ministro del governo Draghi), ma ha il fiato corto. Spogliare i sindaci di responsabilità, risorse, competenze, in materie come la sanità, l’ambiente, l’emancipazione degli ultimi, significa abbandonare queste materie, che hanno bisogno, per loro natura, di essere portate avanti territorio per territorio da autorità locali forti e autorevoli.

A proposito di sanità, vale la pena di ricordare che siamo in piena emergenza. In Sardegna dal 2006, a seguito di un accordo stato-regione, mai equamente onorato dal governo centrale, i costi della sanità sono a carico delle casse sarde con pesanti ricadute sull’economia locale e sulla salute dei Sardi.

La Sardegna è in testa per la mortalità e per la rinuncia alle cure. I pochi medici sardi sono sottopagati e demotivati. Fiumi di malati, che ne hanno la possibilità, vanno a curarsi altrove, arricchendo ancor più le regioni già ricche e le loro avide sanità private. Un fenomeno questo che non risparmia le risorse pubbliche, depauperate per curare numerosi malati in strutture convenzionate, nelle solite regioni opulente.

Per il taglio dei posti letto la Sardegna perde non solo importanti scuole di specializzazione, ma rischia persino la chiusura della Facoltà di Medicina. Neppure i LEA (livelli essenziali di assistenza), imposti dallo stato, a differenza di altre regioni, vengono rimborsati alla Sardegna.

Non stiamo parlando, sia chiaro, di una maledizione biblica che colpisce la Sardegna, ma di un processo generalizzato di svuotamento dell’assistenza sanitaria pubblica in tutte le realtà marginali, le cui conseguenze sono drammatiche nella maggior parte dei territori della Repubblica e anche in molte periferie d’Europa e della globalizzazione.

Da noi è tutto più esacerbato, per via della nostra condizione insulare e per il plateale tradimento di quello che dovrebbe essere uno statuto di autonomia speciale.

La fragilità e l’insicurezza sono la condizione esistenziale a cui ci hanno relegato le politiche centraliste. Allo spopolamento dei nostri paesi e all’abbandono delle campagne lo Stato e la Regione rispondono con la chiusura dei servizi pubblici: scuole, sanità, trasporti. Le regole europee e italiane di austerità e sostenibilità si risolvono in scelte di darwinismo sociale, una impropria selezione in cui sopravvivono i servizi pubblici nelle regioni di più alta densità demografica ed economica, a scapito di quelle che si stanno spopolando e impoverendo.

Tutte le economie locali e tutti i legami sociali sono sotto l’attacco della globalizzazione, delle agende centraliste e conformiste provenienti dall’Europa e dallo stato italiano. In Sardegna è tutto esasperato dalla marginalità geografica e dalla gracilità demografica. In 304 comuni sardi su 377, i decessi superano le nascite. La fuga verso le città (del continente) decreta la morte dei piccoli centri e di ogni speranza.

Fallace è anche la convinzione che lo spazio urbano, anche quello di Cagliari e degli altri pochi centri maggiori della Sardegna, possa essere luogo di incontro, relazioni, innovazione, men che meno agorà democratica o culturale.

L’urbanizzazione è selvaggia anche in un territorio povero come il nostro, anzi forse di più.

Ai ceti poveri, anche nelle piccole città della Sardegna, sono riservate periferie degradate dove le persone sono più sole, più fragili, più ricattabili, più assoggettabili al clientelismo della politica neocolonialista. Crescono sacche di disagio sociale che sono serbatoio di voti indispensabili per la conservazione delle attuali élite al potere.

La nostra speranza è nel distacco dagli schemi dell’attuale disumanizzazione e la riscoperta del comunitarismo proprio della nostra cultura millenaria.

Mentre riprendiamo nelle nostre mani il nostro destino, viene spontaneo un omaggio a Eliseo Spiga. Nel 1998, nel suo romanzo “Capezzoli di pietra“, emerge il suo grido contro un urbanesimo che non è fatto per noi e per quest’isola: “Da noi sovrana è la comunità e il nuraghe è simbolo e scudo della sovranità comunitaria. Noi non costruiamo città ma villaggi. La città è ostile alla terra agli alberi agli animali e inselvatichisce gli uomini, pretende tributi insopportabili per accrescere la sua magnificenza. In essa, i topolini che rodono la mente trovano pascoli lussureggianti per ingigantirsi: ambizione e voglia di potenza, invidia avarizia e brama di ricchezze superflue, slealtà odio e inimicizia verso i fratelli. La città crea specie che noi nuragici detestiamo, come i funzionari del tempio e del sovrano, i servi e gli schiavi. Ci porta un mondo di guerre insensate in cui ogni città combatte contro le altre per dominio e superbia“.

Noi, come popolo, dobbiamo rifiutare di essere deportati in periferie disumane. Come isola della bellezza, dobbiamo impedire di essere sfigurati dalla cementificazione. Non ci interessa di essere considerati “retrogradi” o “superati”.

Fra i tanti misteri della nostra cultura nuragica, gli addetti ai lavori una certezza ce l’hanno: non erano concepite concentrazioni urbane, ma piuttosto migliaia di villaggi nuragici sparsi in tutta la Sardegna, che suggeriscono una società fondata sulla cultura comunitaria e sull’equilibrio con la natura.

Cosa c’è di più antico e così nuovo, quindi, se non riappropriarci della nostra autonomia individuale e collettiva, cioè del nostro autogoverno?

L’autonomia speciale della Sardegna è sin qui fallita, anche perché, nelle illusioni del consumismo e di un malinteso progresso, essa è rimasta ostaggio di dispotici ascari del centralismo italiano, europeo, atlantico.

Oggi, grazie alla riscoperta, su scala europea, dei valori della Carta di Chivasso e della necessità di un nuovo confederalismo dal basso, possiamo rilanciare. Stavolta non in solitudine, ma insieme ai movimenti civici, ambientalisti, autonomisti degli altri territori della Repubblica italiana e dell’Unione Europea, attraverso il lavoro politico, culturale, elettorale di Autonomie e Ambiente.

E’ tempo di tenere fermi i principi e di portare avanti le lotte in cui abbiamo sin qui creduto: dalla resistenza contro la militarizzazione, alla rivolta contro l’inquinamento, alla difesa della salute di comunità e in prossimità, a tutte le nostre iniziative contro il neocolonialismo e contro lo spopolamento.

Dobbiamo dimostrare fermezza, proprio ora che alcuni giovani stanno infine tornando in Sardegna, portando con sé una salutare disillusione, dopo che hanno visto con i loro occhi le crisi degli eccessi neoliberisti.

Possiamo spezzare i processi che ci stanno spopolando e distruggendo e tornare a vivere in armonia con la nostra terra e con i nostri valori più antichi, da cui la società consumistica e capitalistica ha tentato di sradicarci… Non è troppo tardi.

Da quando Eliseo Spiga nel 2000 pubblicò il suo “Manifesto della gioventù eretica e del comunitarismo“, che volle firmare insieme al poeta Francesco Masala e al filosofo Placido Cherchi, è passato un quarto di secolo in cui le grandi macchine livellatrici della globalizzazione si sono inceppate più di una volta.

Le loro pretese di dominio universale si stanno arenando di fronte ai problemi dell’ambiente, all’impossibilità di nutrire e curare il mondo con i prodotti delle multinazionali, agli inaccettabili rischi della guerra infinita, all’imprevedibilità delle aspirazioni dei popoli del mondo.

La nostra riscossa, il nostro recupero di “sardità”, non è in ritardo e, forse, non è più nemmeno in anticipo.

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Sa die a pustis de "Sa Die"

  • Autore: Omar Onnis - Cagliari, 29 aprile 2025

La Sardegna ha appena celebrato il 28 aprile 2025 il suo annuale "Sa Die", la propria festa "natzionale". Nonostante l'indifferenza, il fastidio, le banalizzazioni di cui è fatta oggetto dai ceti politici centralisti al potere, la giornata non perde di significato, anzi è fonte di speranza. I Sardi la vivono come momento di autonomia spirituale e culturale, che sono fondamento di ogni autogoverno, come ci ricorda la Carta di Chivasso. Omar Onnis, il giorno dopo "Il Giorno", ne scrive per il Forum 2043.

Sa Die de sa Sardigna: storia, significati, speranze

Il 28 aprile in Sardegna si celebra – o meglio, si dovrebbe celebrare – la festa nazionale sarda, sa Die de sa Sardigna (il Giorno della Sardegna). Nel 1993, con legge regionale, fu stabilito infatti che ogni anno, in tale data, si sarebbe dovuto rievocare il 28 aprile 1794, quando un moto popolare prese il controllo della città di Cagliari, esautorò il governo sabaudo, arrestò tutti i funzionari stranieri, viceré in testa, e dopo pochi giorni li rispedì oltremare. È la cosiddetta “di’ de s’aciapa” (il giorno della caccia), quando si frugavano case e strade della città in cerca di stranieri da destinare all’imbarco. Una sorta di 14 luglio sardo. In seguito alla “cacciata dei Piemontesi” il governo fu assunto nell’isola dalla massima magistratura del Regno, la Reale Udienza, e la gestione politica fu condivisa col parlamento dei tre stamenti (analogo al parlamento francese dei “tre Stati”), a sua volta autoconvocatosi sul principio dell’anno precedente, a quasi un secolo di distanza dall’ultima volta (anche qui, similmente al caso francese), per organizzare la difesa dell’isola dall’attacco della stessa Francia rivoluzionaria, data l’inerzia del viceré Vincenzo Balbiano.

Quel 28 aprile si inseriva dunque in una più articolata sequenza di eventi, che si concluderà, dopo varie fasi, solo nel 1812, l’anno “della fame” nella memoria popolare, allorché un ultimo tentativo di riaprire la partita rivoluzionaria contro il governo sabaudo e il regime feudale, ancora in vigore, fu stroncata dalla durissima repressione del viceré Carlo Felice.

Il nucleo principale del periodo rivoluzionario sardo di solito è indicato nel triennio tra il 1794 (cacciata del viceré e di tutti i funzionari stranieri) e il 1796 (fallito tentativo di prendere il potere da parte di Giovanni Maria Angioy), ma come detto i fermenti durarono ancora a lungo. Del resto siamo nel bel mezzo del periodo napoleonico, quando le armi francesi portavano con sé in tutta l’Europa promesse di grandi cambiamenti politici e sociali.

La peculiarità della rivoluzione sarda, rievocata e riassunta nella data del 28 aprile, è che essa nacque e si svolse su una base di rivendicazioni e di programmi tutta endogena. Certo, influenzata dalle idee nuove che da decenni circolavano nel Vecchio Continente, ma non maturata in conseguenza di un’occupazione straniera bensì, un po’ paradossalmente, esplosa proprio in seguito alla vittoriosa difesa contro il tentativo di occupazione francese. Alla Francia, dopo il 1796, i leader del movimento rivoluzionario sardo, quelli scampati alla prigione o alla forca, si rivolsero in cerca di rifugio e poi di aiuto per liberare la Sardegna dal giogo della monarchia sabauda e del feudalesimo. Diversi di loro moriranno in esilio, a cominciare da Giovanni Maria Angioy (nel 1808), considerato la figura principale di tutto questo periodo. Le loro aspettative rimarranno frustrate, soprattutto a causa dell’interferenza delle questioni internazionali e dei mutevoli piani napoleonici sulla vicenda sarda. I Savoia per altro si rifugiarono armi e bagagli in Sardegna nel 1799, quando il Piemonte fu occupato dalla Francia. Non mostrarono mai particolare gratitudine, per questa ospitalità, pure pagata dal bilancio del regno sardo a carissimo prezzo. La corte sabauda lascerà l’isola solo nel 1814.

La rivoluzione sarda fu sconfitta. Non la prima né l’ultima rivoluzione che mancò i suoi obiettivi. Ma, nonostante la sconfitta, quello rivoluzionario resta un momento nodale della storia dell’isola. Dalla reazione a quel tentativo di cambiamento politico radicale emergerà la Sardegna contemporanea, con molti dei suoi problemi strutturali già chiaramente delineati fin dal principio dell’Ottocento. Soprattutto la relazione tra la classe dirigente locale – quella rimasta fedele a Casa Savoia – e il centro del potere esterno da cui dipendevano le sorti della Sardegna sarà paradigmatica di un assetto politico che, mutatis mutandis, resterà sostanzialmente molto simile fino ai nostri giorni. Una classe dirigente locale votata a un ruolo di intermediazione tra gli interessi e i piani del centro del potere legittimo esterno e la realtà dell’isola, certamente con indubbi guadagni e privilegi per sé.

La Sardegna fu consegnata allora a un destino di subalternità e di impoverimento che scandalizzavano persino alcuni osservatori contemporanei, come il console francese nell’isola nella sua relazione del 1816 (riportata da Fernand Braudel: non ne troverete traccia in alcun libro di storia italiano o sardo). Una terra “al centro della civiltà europea” lasciata languire e ove possibile depredata. Alcune riforme furono decise negli anni della Restaurazione come misure calate dall’alto e come generose concessioni, senza alcun vero spirito innovatore. Una, nel 1820, fu l’editto “sopra le chiudende”, che stabiliva la possibilità di appropriarsi privatamente di qualsiasi porzione di territorio fosse stato “chiuso”, un po’ sulla scorta delle enclosure inglesi del XVII secolo. Tale misura, che fece sentire i suoi effetti soprattutto nel decennio successivo, comportò un profondo mutamento nel regime fondiario che si tradusse in una traumatica transizione economica a danno dei ceti popolari. Una delle prime “modernizzazioni” passive cui la Sardegna da allora è stata sottoposta, sempre con promesse di progresso e benessere seguite da clamorose delusioni. Nel 1827 fu abrogata la Carta de Logu, raccolta legislativa varata nel 1392 da Eleonora d’Arborea e rimasta in vigore nei secoli del Regno di Sardegna spagnolo e poi sabaudo, con la promulgazione del nuovo codice civile. Tra 1836 e 1839, con diversi editti, fu abolito il regime feudale, facendone pagare il prezzo, sotto forma di indennizzi ai baroni, alle stesse popolazioni che lo avevano subito fino allora.

Il malcontento delle classi popolari verso i Piemontesi restò sempre vivo, emergendo a fasi alterne. Ancora a distanza di mezzo secolo dal triennio rivoluzionario, quando la Sardegna fu di nuovo in fermento per l’aspettativa di riforme, tra 1847 e 1848, la preoccupazione dell’amministrazione sabauda fu che potesse esplodere un “nuovo novantaquattro”, come scrisse in una sua relazione al governo Carlo Baudi di Vesme (intellettuale ed erudito, direttore delle miniere di Iglesias). La diffidenza dei Savoia e in generale della classe dirigente piemontese verso i sardi non venne mai meno. Una parte della classe dirigente isolana negli stessi mesi richiese la “fusione” politica e giuridica tra la Sardegna e i possedimenti sabaudi di terraferma. Fino a questo momento il Regno di Sardegna propriamente detto era appunto la Sardegna. I Savoia ne detenevano la corona, ma avevano tenuto ben distinti giuridicamente e amministrativamente dall’isola i propri possedimenti dinastici sulla terraferma. La “fusione” fu un passaggio irrituale e senza alcuna copertura legale, che tuttavia il re Carlo Alberto approvò proprio per tacitare i movimenti di protesta diffusi nell’isola. Le proteste tuttavia non cessarono, tanto che il re dovette nominare un commissario militare straordinario per sedare il movimento popolare e riportare l’ordine. Lo stesso gruppo sociale che aveva richiesto la fusione si accorse ben presto di aver fatto un pessimo affare.

La fine del plurisecolare Regno di Sardegna, delle sue leggi, delle sue istituzioni, sancito ulteriormente con la concessione dello Statuto albertino nel 1848, non comportò alcun vantaggio. Anzi, l’estensione del catasto e del regime fiscale piemontese all’isola provocò conseguenze drammatiche a livello socio-economico. L’unificazione italiana, di lì a pochi anni, consacrò la definitiva riduzione della Sardegna a porzione oltremarina, marginale e periferica del nuovo stato. Da qui in poi inizierà la “questione sarda” e nasceranno e si svilupperanno nel tempo il pensiero autonomista e quello indipendentista.

La vicenda rivoluzionaria sarda ha sempre rappresentato un problema, per la classe dirigente sarda, compresa quella intellettuale. Poche le voci che la rievocheranno, nel corso dei decenni tra Otto e Novecento. Due in particolare: il poeta Sebastiano Satta e Antonio Gramsci. Resteranno eccezioni.

Dopo l’unificazione italiana, a parte qualche raro esempio e qualche pubblicazione occasionale, per avere una trattazione storiografica organica ed esaustiva sul periodo sabaudo e sulla rivoluzione sarda bisognerà attendere il 1984, a quasi due secoli dai fatti. In particolare sarà lo storico Girolamo Sotgiu, nel suo Storia della Sardegna sabauda, a ricostruire nei dettagli e chiarire nei suoi aspetti fattuali e nei suoi contorni politici, l’intera vicenda. Non senza l’ammonimento sul possibile uso politico della conoscenza di quei fatti. Uno strano ammonimento, in un testo storico. Non deve stupire. Ancora oggi, a leggere i documenti e le testimonianze dell’epoca (come l’inno Su patriota sardu a sos feudatàrios, la “marsigliese” sarda), la rivoluzione sarda, rievocata nella giornata del 28 aprile, ci chiama in causa e ci pone domande. Troppe cose di quel tempo suonano ancora oggi troppo familiari, per non indurre riflessioni critiche sul nostro passato recente e sul nostro presente. Per questo la ricorrenza del 28 aprile, dopo i primissimi anni di celebrazioni pubbliche, con grande concorso di folla e notevole partecipazione emotiva (ne esistono in rete testimonianze video), è stata ridimensionata e oscurata dalle stesse istituzioni autonomiste.

Gli studi in proposito, dopo l’insuperato lavoro di Girolamo Sotgiu, sono stati limitati e la narrazione su quel periodo stereotipata e riduttiva. Non è solo un fatto di sciatteria culturale e politica. È del tutto comprensibile che per la classe dirigente sarda di oggi suoni minaccioso l’esempio di una classe dirigente diversa, di un ceto politico e intellettuale che non perseguì il proprio esclusivo interesse egoistico né si limitò a elaborare astrattamente principi e obiettivi virtuosi, ma se ne fece portatore attivo presso i ceti popolari, mettendosi in gioco nel tentativo coraggioso, anche a costo della vita, di mutare in meglio le sorti della Sardegna.

Ultimamente l’associazione ANS (Assemblea Natzionale Sarda), che ha come obiettivo la crescita culturale, civile e democratica dell’isola, ha assunto il compito di rilanciare la celebrazione di Sa Die e lo fa ormai da alcuni anni, senza alcun finanziamento pubblico e contando solo sul lavoro volontario dei propri associati e sul sostegno di alcuni sponsor privati. I risultati sono buoni e in crescendo. La sensibilità su questi temi e la sete di conoscenza storica sono molto forti in Sardegna, trasversalmente alle condizioni anagrafiche e sociali, a dispetto della noncuranza delle istituzioni e delle difficoltà a far entrare la storia e la cultura della Sardegna nella scuola italiana.

Il rilancio della festa del 28 aprile non è solo una questione nostalgica, una rivendicazione revanscista. È invece la doverosa riappropriazione di un momento storico decisivo, della cui conoscenza l’opinione pubblica sarda e internazionale è stata a lungo privata, ed è un momento di riflessione politica democratica ed emancipativa, di cui l’isola ha assoluto bisogno.

Intervento di Omar Onnis (scrittore, studioso, autore di https://sardegnamondo.eu/) per il Forum 2043 - Cagliari, 29 aprile 2025

 

Note

L'immagine a corredo dell'intervento è tratta da https://www.regione.sardegna.it/notizie/sa-die-de-sa-sardigna-il-28-aprile-spettacolo-a-cagliari

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Soru, un'idea di Sardegna, finalmente

Riceviamo e volentieri pubblichiamo dalla nostra associata Claudia Zuncheddu (Sardigna Libera)

Cagliari, 21 febbraio 2024

La campagna elettorale per le elezioni regionali in Sardegna è in fase conclusiva. Il 25 febbraio 2024 i sardi sono chiamati a esprimere il voto per le regionali e benché secondo certi sondaggi aleggi lo spettro dell’astensionismo, va messo in conto che il rientro di Renato Soru nello scenario politico sardo potrebbe aver risvegliato l’interesse degli elettori. La speranza del cambiamento, rispetto alla triste competizione a chi è più ignorante e conformista fra sinistra e destra italiane, potrebbe essere di stimolo.

Di certo, la candidatura indipendente di Soru ha stravolto quegli equilibri che sino ad oggi hanno garantito ai poli italiani la certezza dell’alternanza al governo della Sardegna, per non cambiare mai nulla. La legge elettorale sarda del 2013 fu varata ad hoc per blindare il bipolarismo italiano. Eppure l’Italien Régime non appare più così saldo.

La Coalizione Sarda, con Soru presidente, rompe gli antichi schemi. È costituita da cinque liste di cui almeno tre accolgono antiche aspirazioni all’autogoverno e una di esse, Sardegna chiama Sardegna, ha portato in campo una nuova generazione. Il lungo processo di maturazione politica, che ha indotto Renato Soru ad entrare in rotta di collisione con entrambi i poli italiani, non è ancora da tutti compreso nella sua forza dirompente.

Il fenomeno è in parte volutamente travisato. Certi ambienti, tanto iperpoliticizzati, quanto sterili, fanno le pulci all’alleanza sarda con giudizi arroccati su analisi e situazioni del passato. Il centrosinistra promuove, nei confronti della Coalizione Sarda con Soru presidente, una campagna di denigrazione, secondo la quale la loro sconfitta sarà da imputare non alle loro politiche fallimentari degli ultimi decenni, ma a Soru. Il centrodestra annaspa, perché i Sardi hanno già sperimentato che la deriva sardo-leghista e il centrodestra italiano significano più ricchezza per qualcuno in Italia e in Europa, ma sempre più povertà e spopolamento per la Sardegna.

Tra i candidati per la presidenza, la levatura politica e il progetto di Renato Soru sono senza rivali. Siccome siamo in un regime a democrazia fortemente limitata, la stampa lo svantaggia, preferendogli le coalizioni italiane, sostenute dalle incursioni in Sardegna di leader romani e lombardi. I capi della politica continentale, come al solito, arrivano con lo spirito dei padroni che devono controllare le loro “piantagioni di cotone”. Scortati da scarse truppe cammellate stanno poco in strada. Preferiscono le redazioni giornalistiche e le riunioni con i notabili, durante le quali ricordano a noi Sardi che siamo poveri, con tante emergenze, che la Sardegna è bella, che dobbiamo votare per i loro fedeli luogotenenti.

Renato Soru non aspetta nessuno, se non noi Sardi. Nei suoi 100 confronti con le comunità sarde, ha ascoltato, ha preso appunti, ha spiegato la sua visione di Sardegna, sapendo anche entrare nei dettagli di come si potrebbe migliorare l’amministrazione.

Soru riprende, ma avendolo aggiornato profondamente, il progetto politico per la Sardegna che lo portò alla vittoria delle regionali del 2004. Un’idea di Sardegna già allora avanzatissima, osteggiata dai centri di potere del suo partito d’origine, che oggi ripropone all’insegna di “mai più con i partiti del bipolarismo italiano”.

Ci vorrà un po’ di tempo prima che lo capiscano le elite chiuse nelle loro torri (romane) d’avorio, ma la scelta di Soru ha minato il potere centralista e coloniale, che opprime la Sardegna.

Al di là di quali saranno i nuovi rapporti di forza dopo il voto, il progetto politico di Soru ha già vinto con l’apertura di un varco, la creazione di uno spazio politico autonomo sardo, laddove noi sardi dobbiamo impegnarci per rompere le dipendenze e costruire il nostro futuro.

Claudia Zuncheddu – Sardigna Libera

 

 

Un'alternativa per la Sardegna nel 2025

Ricostruire la genealogia dei guasti portati dal "bipolarismo" in Sardegna sarebbe lungo, doloroso e, per i lettori del nostro sito, inutile. Da Solinas a Truzzu a Todde, i nominati dal centrodestra e dal centrosinistra si sono già rivelati quello che sono: figuranti messi lì da qualcun altro, a tutela di interessi che non sono certo quelli della Sardegna. Pubblichiamo integralmente una breve nota di oggi della presidenza di Autonomie e Ambiente sulla necessità della costruzione di qualcosa di nuovo: un progetto di autogoverno per la Sardegna, adatto al XXI secolo.

𝑮𝒍𝒊 𝒂𝒕𝒕𝒊 𝒑𝒂𝒓𝒍𝒂𝒏𝒐 𝒄𝒉𝒊𝒂𝒓𝒐: 𝒍𝒂 𝒑𝒓𝒆𝒔𝒊𝒅𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝑹𝒆𝒈𝒊𝒐𝒏𝒆 𝑨𝒖𝒕𝒐𝒏𝒐𝒎𝒂 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝑺𝒂𝒓𝒅𝒆𝒈𝒏𝒂 𝑨𝒍𝒆𝒔𝒔𝒂𝒏𝒅𝒓𝒂 𝑻𝒐𝒅𝒅𝒆 𝒆 𝒊𝒍 𝒔𝒖𝒐 𝒄𝒐𝒎𝒊𝒕𝒂𝒕𝒐 𝒆𝒍𝒆𝒕𝒕𝒐𝒓𝒂𝒍𝒆 𝒉𝒂𝒏𝒏𝒐 𝒗𝒊𝒐𝒍𝒂𝒕𝒐 𝒍𝒂 𝒍𝒆𝒈𝒈𝒆 10 dicembre 1993, n. 515 𝒊𝒏 𝒎𝒐𝒅𝒐 𝒔𝒐𝒔𝒕𝒂𝒏𝒛𝒊𝒂𝒍𝒆 𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒇𝒐𝒓𝒎𝒂𝒍𝒆.
𝑳𝒂 𝒑𝒐𝒕𝒓𝒂𝒏𝒏𝒐 𝒄𝒆𝒓𝒕𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒕𝒊𝒓𝒂𝒓𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒍𝒆 𝒍𝒖𝒏𝒈𝒉𝒆 𝒄𝒐𝒏 𝒓𝒊𝒄𝒐𝒓𝒔𝒊 𝒆 𝒂𝒍𝒍𝒐𝒏𝒕𝒂𝒏𝒂𝒏𝒅𝒐 𝒏𝒆𝒍 𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐 𝒊𝒍 𝒑𝒓𝒐𝒄𝒆𝒅𝒊𝒎𝒆𝒏𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒅𝒆𝒄𝒂𝒅𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒂 𝒍𝒐𝒓𝒐 𝒓𝒊𝒔𝒄𝒉𝒊𝒐 𝒆 𝒑𝒆𝒓𝒊𝒄𝒐𝒍𝒐.
𝑵𝒆𝒍 𝒇𝒓𝒂𝒕𝒕𝒆𝒎𝒑𝒐 𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒎𝒊𝒄𝒊 𝒆 𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒔𝒔𝒐𝒄𝒊𝒂𝒕𝒊 𝒅𝒊 𝑨𝒖𝒕𝒐𝒏𝒐𝒎𝒊𝒆 𝒆 𝑨𝒎𝒃𝒊𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒊𝒏 𝑺𝒂𝒓𝒅𝒆𝒈𝒏𝒂 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒏𝒔𝒊𝒇𝒊𝒄𝒉𝒆𝒓𝒂𝒏𝒏𝒐 𝒊𝒍 𝒅𝒊𝒂𝒍𝒐𝒈𝒐 𝒄𝒐𝒏 𝒍𝒂 𝑪𝒐𝒂𝒍𝒊𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝑺𝒂𝒓𝒅𝒂, 𝒍𝒆 𝒇𝒐𝒓𝒛𝒆 𝒄𝒊𝒗𝒊𝒄𝒉𝒆, 𝒊 𝒄𝒐𝒎𝒊𝒕𝒂𝒕𝒊 𝒍𝒐𝒄𝒂𝒍𝒊, 𝒊 𝒑𝒓𝒐𝒎𝒐𝒕𝒐𝒓𝒊 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝑷𝒓𝒂𝒕𝒐𝒃𝒆𝒍𝒍𝒐24, 𝒑𝒆𝒓 𝒄𝒐𝒔𝒕𝒓𝒖𝒊𝒓𝒆 𝒖𝒏𝒂 𝒗𝒆𝒓𝒂 𝒂𝒍𝒕𝒆𝒓𝒏𝒂𝒕𝒊𝒗𝒂 𝒔𝒂𝒓𝒅𝒂.
𝑪𝒐𝒏 𝒊 𝒓𝒂𝒑𝒑𝒓𝒆𝒔𝒆𝒏𝒕𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝒄𝒆𝒏𝒕𝒓𝒂𝒍𝒊𝒔𝒎𝒐 𝒓𝒐𝒎𝒂𝒏𝒐 𝒄𝒐𝒏 𝒊𝒍 𝒄𝒆𝒏𝒕𝒓𝒐𝒅𝒆𝒔𝒕𝒓𝒂 𝒆 𝒄𝒐𝒏 𝒊𝒍 𝒄𝒆𝒏𝒕𝒓𝒐𝒔𝒊𝒏𝒊𝒔𝒕𝒓𝒂 𝒔𝒊 è 𝒕𝒐𝒄𝒄𝒂𝒕𝒐 𝒊𝒍 𝒇𝒐𝒏𝒅𝒐.
𝑳𝒂 𝑺𝒂𝒓𝒅𝒆𝒈𝒏𝒂 𝒉𝒂 𝒃𝒊𝒔𝒐𝒈𝒏𝒐 𝒅𝒊 𝒖𝒏 𝒑𝒓𝒐𝒈𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒑𝒐𝒔𝒊𝒕𝒊𝒗𝒐, 𝒑𝒓𝒐𝒑𝒐𝒔𝒊𝒕𝒊𝒗𝒐, 𝒄𝒐𝒎𝒑𝒆𝒕𝒆𝒏𝒕𝒆, 𝒊𝒏𝒄𝒍𝒖𝒔𝒊𝒗𝒐, 𝒅𝒊 𝒂𝒖𝒕𝒐𝒈𝒐𝒗𝒆𝒓𝒏𝒐 𝒂𝒅𝒂𝒕𝒕𝒐 𝒂𝒍 𝑿𝑿𝑰 𝒔𝒆𝒄𝒐𝒍𝒐.
 
𝑨𝒖𝒕𝒐𝒏𝒐𝒎𝒊𝒆 𝒆 𝑨𝒎𝒃𝒊𝒆𝒏𝒕𝒆
 
Olbia 7 gennaio 2025
 
Per mettersi in contatto con Autonomie e Ambiente in Sardegna si faccia riferimento a Silvia Lidia Fancello: