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Solidarietà internazionale

Conoscere le narcomafie e combatterle territorio per territorio

  • Autore: riflessioni ispirate da Rocco Chinnici, nel quarantesimo del suo martirio e nel trentesimo della Strage di Via dei Georgofili - Palermo-Firenze, 25 maggio 2023

Il trentesimo anniversario della strage di Via dei Georgofili, avvenuta a Firenze nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, ci dà l’occasione per ricordare tutte le vittime dello stragismo mafioso.

Quest’anno ricorrono anche i quarant’anni dell’assassinio del magistrato Rocco Chinnici, ucciso nel tragico attentato di Palermo del 29 luglio 1983. Saranno le sue parole il cuore di questa riflessione, perché egli fu lungimirante non solo come organizzatore della repressione, ma anche profondo come indagatore della natura della contemporanea criminalità organizzata in mafie e cosche.

Il dott. Rocco Chinnici era un limpido funzionario di una magistratura centrale. Era privo di cultura autonomista, ma aveva ben compreso che l’enorme potere delle narcomafie aveva potuto accumularsi all’interno dello stato italiano unitario, del mercato comune europeo, di quelli che erano già allora ai suoi tempi, in molti settori, mercati mondiali aperti.

Anche le narcomafie, come tutti i fenomeni della modernità, risentono dei fattori di scala: lasciandole operare su spazi più ampi, esse non crescono solo quantitativamente, ma cambiano qualitativamente e accrescono geometricamente la propria pericolosità.

Il potere delle narcomafie non è una fatale condanna biblica. Non è fondato sul mero familismo amorale di alcune popolazioni arretrate, sulla mancanza di senso civico o su un qualche malcostume che affliggerebbe una comunità piuttosto che un’altra. Non si combatte con un generico moralismo. Esso è fondato su rapporti di forza economici, sociali, politici e geopolitici, che la nostra tradizione anticolonialista e anticentralista, più di altre, può incrinare. Noi commemoriamo, ma intendiamo soprattutto lottare.

Gli stralci del magistero del dott. Rocco Chinnici che pubblichiamo e commentiamo sono tratti da una sua ben nota Relazione al Consiglio superiore della magistratura (CSM) del 3 luglio 1978, che è disponibile integralmente presso il sito del Consiglio stesso e anche in altre fonti come l'interessante Progetto San Francesco. Ci rifaremo anche a un altro importante documento, intitolato “La mafia oggi e sua collocazione nel più vasto fenomeno della criminalità organizzata”, scritto dallo stesso Rocco Chinnici e dal suo collega Saverio Mannino, presentato a un incontro del CSM del 4-5-6 giugno 1982, pubblicato in un supplemento alla rassegna “Il CSM” del maggio-giugno 1982, e anch’esso messo a disposizione dal Progetto San Francesco.

La pubblicazione dei testi del dott. Chinnici non ha pretese filologiche. Eventuali errori o imprecisioni nella trascrizione sono esclusivamente responsabilità dei coordinatori del nostro Forum 2043.

LA MAFIA: ASPETTI STORICI E SOCIOLOGICI E SUA EVOLUZIONE COME FENOMENO CRIMINOSO

di Rocco Chinnici – 3 luglio 1978

PREMESSA

Per chi voglia condurre un discorso serio sulla mafia, un discorso che miri a comprendere e a far comprendere il fenomeno quale è stato nel passato e quale è oggi, a penetrarne le implicazioni di ordine sociale, economico, criminale, é necessario andare indietro nel tempo per stabilire l’epoca in cui esso incomincia a manifestarsi, le cause e le condizioni che ne consentirono e favorirono lo sviluppo.

Sulla mafia si è detto e scritto molto da italiani e stranieri a partire dalla fine del secolo scorso, quando, dopo l'unificazione del Regno d'Italia, il fenomeno, a causa della sua incidenza nella vita socio-economica e politica di buona parte dell'Isola, assunse dimensioni gravi ed allarmanti. Sono del 1876 "Le inchieste in Sicilia" di Leopoldo Franchetti e di Sidney Sonnino, e quelle della "Giunta Parlamentare". Si tentò, fin da allora, di studiare il fenomeno mafioso, di colpirlo nelle manifestazioni criminali; si compirono indagini e ricerche sia da parte di privati, cultori di studi storici ed etnologici, che dei pubblici poteri; si tentò di dare una spiegazione ed un volto alla misteriosa organizzazione che, indubbiamente, esercitava notevole influenza sulle strutture della societa isolana dell'epoca. E' stato, però, dopo la seconda guerra mondiale - durante il ventennio, sulla mafia, ove si eccettuino il libro di Cesare Mori "Con la mafia ai ferri corti", e gli accenni che ebbe a far Mussolini in qualche suo discorso, si scrisse poco in quanto il regime ritenne di avere definitivamente debellato il fenomeno - che si è avuto, sul fenomeno mafioso, un vero e proprio ritorno degli studiosi, che hanno condotto ricerche, pervenendo, a volte, a risultati apprezzabili; il rinnovato interesse per una migliore e più realistica visione del fenomeno, si spiega col fatto che la mafia, dopo la caduta del fascismo e la ripresa democratica, ha avuto la possibilita di riorganizzare le proprie fila, di potenziare la propria organizzazione, di esercitare un ruolo - specie nei primi anni del dopoguerra - non secondario se non addirittura da protagonista nella vita di alcune provincie dell'Isola. Il non siciliano, che ascolta, potra stupirsi di, questa affermazione o potrà ritenerla esagerata.

Noi diciamo che la mafia, tra il luglio 1943 e gli anni '60, con la costituzione del movimento separatista di Andrea Finocchiaro Aprile prima, e annidandosi, nelle forme più svariate, subito dopo, nei partiti politici di centro destra che ebbero il governo dell'Isola dopo il raggiungimento dell’autonomia, esercitò, nelle provincie della Sicilia Occidentale un dominio, contrastato soltanto dalle forze politiche progressiste. E' questa, storia recente, forse non sufficientemente conosciuta dalle nuove leve dei giovani siciliani ed ancor meno da quelli del resto d'Italia; una accurata indagine sul periodo storico, soprarichiamato, cosa che cercheremo di fare più avanti, servirà a chiarire l’influenza della mafia nella vita dell'Isola e il perché dei mali che hanno afflitto le quattro provincie della Sicilia Occidentale e che continuano a pesare e ad incidere negativamente sullo sviluppo socio-economico e culturale delle stesse.

Nota di contesto: Il dott. Chinnici, in questo passaggio e anche in un altro che leggeremo più avanti, ci appare sbrigativo nel suo giudizio sul sicilianismo e sulle correnti autonomiste. Il che non ci deve meravigliare, per una persona della sua generazione, della sua cultura e del suo status professionale. Non è dai magistrati del secolo scorso che ci si deve aspettare adesione a progetti di decentralismo. Va anche compreso che questo documento è del 1978, quando le narcomafie non hanno ancora iniziato a sterminare coloro che stanno tentando di avviare delle riforme del sistema politico siciliano (e italiano): Michele Reina (ucciso il 9 marzo 1979 – scrive su di lui Wikipedia: il primo politico di rilievo ucciso da Cosa Nostra dai lontani tempi di Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo ed ex direttore generale del Banco di Sicilia, nel 1893); Piersanti Mattarella (ucciso il 6 gennaio 1980); Pio La Torre (30 aprile 1982); Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982).

ORIGINE E SIGNIFICATO DELLE ESPRESSIONI "MAFIA E MAFIOSO"

Ogni studioso del fenomeno mafioso che si rispetti, non può non incominciare a parlare della mafia, se non partendo dalla ricerca etimologica. Noi riteniamo che l’indagine sia puramente esercitativa, convinti come siamo che la mafia é una realta viva ed operante sul tessuto sociale della Sicilia Occidentale, con un'organizzazione e collegamenti concreti, con analoghe organizzazioni operanti altrove, nel territorio nazionale, negli U.S.A., nel Canada e, per lo meno in passato, anche nella Francia Sud-Occidentale. Tuttavia, per completezza, anche noi risaliremo alle origini ed al significato della parola mafia. Si ritiene che il termine mafia sia di derivazione araba e stia a significare, forza e coraggio; protezione; secondo tale teoria si tratterebbe di una parola composta dalla radice tematica "mu" che significa forza e dal verbo “afa" che significa proteggere; sarebbe stato usato per la prima volta all'epoca dei Vespri Siciliani (1282) per indicare gruppi di cittadini coraggiosi che avrebbero preso concrete iniziative per proteggere il popolo dai soprusi dei francesi e che avrebbero avuto un ruolo determinante, sulla espulsione degli stessi dall’Isola.

La parola mafia avrebbe assunto significato di "associazione" di “organizzazione fuori-legge" nel 1863 quando, per la prima volta a Palermo, andò di scena il lavoro di Giuseppe Rizzoto e di Mosca dal titolo "I mafiusi della Vicaria" nel quale si portavano a conoscenza del pubblico "le attivita svolte, in base ad un particolare tipo rudimentale di ordinamento giuridico a sé stante, da un gruppo di delinquenti associati al nuovo carcere di Palermo Ucciardone"; secondo alcuni, però, il termine "Mafioso" nel significato di “associato" sarebbe stato usato, per la prima volta, attorno al 1860, dai patrioti di Marsala i quali tenevano le loro segrete riunioni, prima dello sbarco dei Mille, nelle "mafie", cave di tufo, una volta coltivate e sfruttate, e poi abbandonate.

Quest'ultima tesi appare suggestiva, perché, forse per la prima volta, allora, alla parola mafia venne,attribuito il significato di associazione, organizzazione, avente carattere di segretezza, di mistero; si vollero, cosi assimilare i mafiosi, agli affiliati a quella setta misteriosa soprannominata "Beati Paoli" che avrebbe operato nel capoluogo dell'Isola ai tempi del dominio spagnolo per opporsi alle angherie e alle ingiustizie dei dominatori. I mafiosi, cosi, sarebbero stati uomini coraggiosi, forti, giusti, che avrebbero agito per finalità sociali, per il raggiungimento di un assetto civile ordinato nel quale, al popolo o "popolino", come è chiamata in Sicilia la classe dei non abbienti e del sottoproletario, sarebbero stati rispamiati i soprusi e le prepotenze dei nobili, dei ricchi, dell’alto clero, di latifondisti etc.. Quanto testè esposto potrebbe avere fondamento se si considera che non pochi mafiosi, in un primo tempo, accolsero Garibaldi come liberatore ed assertore di un nuovo ordine sociale e se ancora, oggi, il mafioso si ritiene, ed è considerato in determinati ambienti, "uomo d’ordine" ed "uomo d’onore",

La tesi di coloro che vorrebbero attribuire alla parola mafia il significato di forza, prestanza fisica, bellezza argomentando il fatto che in qualche rione popolare di Palermo per attribuire qualità eccellenti ai propri familiari e alle proprie cose si usa il termine “mafiuso", sembra del tutto fantasiosa; a meno che non voglia ammettersi che il termine venga usato, in simili casi, non nel significato originario bensi in quello translato.

Rimandando, per un approfondimento della questione, ai numerosi autori che di essa si sono ampliamente occupati, a giudicare dal significato che il termine “mafioso" assunse verso la fine del secolo scorso, riteniamo attendibile la tesi di coloro i quali ritengono la parola mafia di origine araba col significato di associazione di uomini con finalità di protezione dei poveri e degli umili; siffatta tesi si concilia, da un punto di vista contenutistico, con quella di coloro i quali, partendo dalla considerazione che nelle cave abbandonate di Marsala si davano convegno segreto i patrioti, attribuiscono alla parola il valore di organizzazione segreta, accentuando l'aspetto della segretezza. Diciamo, anzi, che le due tesi si integrano. Il connotato particolare della segretezza, - in proposito mi piace riportare, in gergo, due delle espressioni usate dai mafiosi alla fine del secolo che bene indicano il modo di pensare mafioso: "Nun fari Sangiuvanni cu li sbirri, nun dari cunfirenza a li mugghieri (non stringere rapporti di companatico con appartenenti alla polizia, non fare confidenze alla moglie)" "le troffi hannu l’occhi, li mura hannu l’aricchi (i cespugli hanno gli occhi e le mura hanno le orecchie)", assieme a quello del mutuo soccorso, della solidarietà attiva fra gli associati, costituisce la nota principale che caratterizza e qualifica la associazione nei primi tempi del suo apparire.

Nota di contesto: attenzione, qui il dott. Chinnici ha appena terminato di spiegare che ciò che di mafioso si trova nella storia e nella cultura popolare antica è in fondo parte dell’eterna lotta degli umili contro i potenti, ma ciò che era in antico non corrisponde assolutamente alla realtà di oggi, come si capirà andando più avanti nella lettura.

MAFIA - COMPORTAMENTO O ASSOCIAZIONE CRIMINOSA?

A nostro modo di. vedere, per meglio comprendere il fenomeno mafioso, è necessario che l'esame su di esso sia condotto con riferimento a tre distinti periodi. Un primo che va dalla Unificazione del Regno d'Italia all’avvento del fascismo, un secondo dal 1922 al 1943, un terzo dal 1943, cioè dalla fine della guerra in Sicilia, ai nostri giorni.

(...)

...come si può parlare di inesistenza della mafia come associazione se si sono avuti casi, oltre che da noi anche negli U.S.A., nei quali la Polizia ha sorpreso capimafia riuniti in convegno per prendere decisioni che investono interessi di tutta l'organizzazione?

E ancora, se la mafia non fosse associazione con strutture e gerarchie proprie, con proprie norme che regolano la vita interna, quale spiegazione si potrebbe dare alla serie interminabile di omicidi e di gravissime altri reati contro il patrimonio che per modalita di esecuzione e per il fatto che gli autori rimangono ignoti o impuniti denunciano la chiara matrice mafiosa? Come spiegare le lotte spietate, con diecine e diecine di morti, tra gruppi di mafiosi in contrasto tra loro? Non riteniamo di dire cose nuove sulla mafia. La nostra venticinquennale esperienza giudiziaria nel corso della quale ci siamo occupati di numerosi e talvolta gravi processi contro imputati di associazione a delinquere di tipo mafioso, ci autorizza ad affermare che non è né modo di sentire atavico né modo di comportamento tipico dei siciliani. In Sicilia non esiste una popolazione con lo spirito tipico del mafioso; non esiste una particolare realtà etnica e climatologica che abbia potuto determinare o favorire la insorgenza del fenomeno (enfasi nostra, ndr). Nelle provincie siciliane nelle quali tale fenomeno esiste, si riscontra, sì, un atteggiamento mafioso, ma è atteggiamento tipico e caratteristico di chi è affiliato alla mafia; non esiste nelle stesse provincie un comportamento mafioso generalizzato. Se per comportamento intendiamo un modo diffuso, naturale, quasi inconsapevole di agire nella società, laddove per atteggiamento, scelta volontaria ed individuale di azione nella societa stessa, considerato che la mafia esiste soltanto nella Sicilia Occidentale, che il numero dei mafiosi è piuttosto ristretto, parlare di mafia come "modo di essere o di comportarsi dei siciliani" è grave errore; errore frutto di superficialità e, a volte, di disinformazione.

Nota: E' importantissimo questo passaggio perché il dott. Rocco Chinnici dimostra di aver chiari gli errori dei pregiudizi etnicisti e culturalisti, dietro i quali si nascondono alcune delle peggiori trappole di autogiustificazione dello sfruttamento e dello spopolamento di tutti i territori marginali, sottoposti a processi di colonialismo.Mafiosi non si nasceribadisce in conclusione di questo paragrafo il dott. Chinnici.

(...)

LA MAFIA DAL 1860 ALL'AVVENTO DEL FASCISMO

Riprendendo le fila del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall'unificazione del Regno d'Italia alla prima guerra mondiale e all'avvento del fascismo, dobbiamo, brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell'unificazione, non era mai esistita in Sicilia.

Qualche studioso ritiene di poter ritrovare dei precedenti ad essa riferibili, nei cosiddetti "familiares" al servizio del tribunale dell’inquisizione che godevano di particolari privilegi, primo e più importante fra tutti quello del Foro privilegiato. In concreto i "familiares" «baroni, gente de casato e persone da lui dipendenti» vivevano fuori dallo stato del quale non accettavano, né riconoscevano, l’autorità; avevano una loro giustizia e una loro amministrazione. Dubitiamo che sul piano storico possa, fondatamente, parlarsi di un collegamento tra la mafia e, anzitutto, non costituivano costoro setta segreta, Inoltre, dal tempo dell'inquisizione al 1860, di tempo ne era trascorso; si erano verificati, anche nel nostro paese, avvenimenti che avevano determinato mutamenti nelle strutture della societa. L'unificazione era stata preceduta da moti e fermenti rivoluzionari ai quali la Sicilia non era rimasta indifferente. Per noi l’associazione criminosa e criminogena denominata "mafia", con le caratteristiche peculiari che man mano saranno messe in evidenza, nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d'Italia; nasce come struttura portante dell'economia agraria dell'epoca, come forza occulta che contrasta il potere dello stato che - se pure largamente rappresentato dalla classe conservatrice - con la sinistra laica e liberale, incomincia, anche sotto la spinta delle masse e del sottoproletariato, a propugnare riforme in diversi settori della vita socio-politica ed economica.

E' fuori dubbio, comunque, che il periodo in esame rivesta, per lo studioso, una importanza notevole. Cadute le vecchie strutture politiche, e amministrative dei diversi piccoli stati nei quali l’Italia era divisa; con l'espropriazione dei beni ecclesiastici, con il timido avvio alle costruzioni di opere pubbliche, con i moti di ribellione del 1866, con l’inizio dell'industrialiazzazione si determina nel nostro stato un clima di incertezza, di instabilità, di contrasti, soprattutto di contrasti.

Il meridione è afflitto dal brigantaggio (fenomeno che ha poco o nulla in comune con la mafia) alimentato, specie in Calabria e nelle Puglie, dalla reazione che spera in un ritorno al passato. Sono gli anni della miseria più nera, gli anni in cui le genti del sud incominciano ad emigrare in massa nei paesi delle due Americhe; in Sicilia, malgrado l’emigrazione imponente, non c’è pane per chi rimane. Il contadino, l'eterno sfruttato, lavora dall’alba al tramonto per un salario che consente di nutrirsi soltanto di pane e cipolla e la sera, di un piatto di legumi per quattordici ore al giorno, sia che zappi la vigna, che mieta il grano, stremato dalla fatica e dalla malaria, dice, in un canto popolare, oggi scomparso, che a causa del lavoro massacrante "li rini si li manciano li cani"; non possiede nulla, soltanto i pantaloni e la camicia e la "bussaca" indumenti nei quali, a seguito dei rattoppi, della stoffa originaria rimane ben poco.

La terra, ed il bestiame, sono del barone o del cavaiiere, cosi come la stamberga costruita con “pietra, e taio (fango)" e col pavimento in terra battuta, composta di unico vano, senza l’ombra di quelli che oggi noi chiamiamo servizi, nella quale.vive con la moglie ed i figli…

(...)

Miseria ed analfabetismo regnano anche nella città. Le industrie, che già nel nord Italia cominciano a nascere e a cambiare il volto della societa, nel meridione e nell'Isola appaiono come una chimera; si vive con i proventi dell’artigianato, del piccolo commercio, e nelle borgate, di agricoltura. In questa società, cosi depressa, cosi inumana, cosa fa la mafia, cosa fanno i mafiosi? La mafia, in questo periodo, assume nella vita della Sicilia Occidentale, un ruolo ben preciso; diventa incontrastata dominatrice delle campagne; protegge ed è protetta dai baroni e dai cavalieri, i quali, sono i proprietari di quasi tutte le terre coltivate e dei pascoli. Prende parte attiva alla vita politica ed amministrativa…

(…)

E’ in questa fase iniziale dello Stato unitario che la mafia assume la caratteristica di associazione criminosa e criminoggena. Il primo illecito che essa commette è quello di costituirsi in potere in contrasto con quello statale. Quale associazione segreta, al servizio della grande proprietà, non tollera fatti nuovi che possano turbare il dominio dei latifondisti. Se il contadino e l'affittuario reclamano condizioni più umane e più giuste, risponde col fucile caricato a lupara ma ha anche interessi propri da tutelare. Il mafioso di spicco è spesso gabellato (gestore per contodel grande proprietario, ndr), che cede a mezzadria o in subaffitto il fondo del barone. L’equilibrio cosi estaurato che gli procura ricchezza e prestigio, non può né deve essere turbato; chi osa paga con la vita. In questo momento storico la mafia incomincia ad interessare lo studioso - sociologo o criminologo - e lo stato, perché è proprio tra gli anni '70 e '80 (dell’Ottocento, ndr) che essa si afferma come associazione con incidenza notevole nel tessuto sociale di buona parte dell'Isola. Legata, come abbiamo visto, ai ricchi proprietari terrieri e ai signori, dei quali tutela gli interessi, diventa indispensabile strumento di costoro anche in occasione delle elezioni politiche e amministrative e se in taluni centri non si raggiungono determinati equilibri si verificano, allora, all'interno di essa delle spaccature: conseguono danneggiamenti di viti e di alberi da frutta e non di rado omicidi; nelle elezioni comunali impone candidati propri; gli eletti saranno gli amministratiri del comune.

Abbiamo detto che il mafioso, in questo periodo storico, è il vero padrone della terra. Sorgono, sul finire del secolo, le prime cooperative di lavoratori della terra; nascono i fasci di rinnovamento per il riscatto dei contadini, per una più giusta e più umana condizione di vita.

Il mafioso, sulle prime, appare indeciso; qualcuno, ma sempre per libidine di potere e solo per poco tempo, aderisce ai fasci di rinnovamento. Subito, però, prevale la vocazione conservatrice e reazionaria. Entra in azione il fucile a canne mozze, caricato a lupara: cadono così sotto i colpi dell’arma terribile, che diventerà poi simbolo della mafia, decine e decine di contadini che, affamati di terra e di giustizia, hanno il torto di organizzarsi, per affermare, al cospetto di una classe privilegiata e di uno stato che di essa è espressione, il diritto ad una maggiore giustizia sociale. I fasci hanno ‘breve durata. Mafia e potere centrale riescono a soffocare, laddove sono sorti, i movimenti di ribellione. La pace, quella voluta dalla classe privilegiata, ritorna nelle campagne.

(...)

Nota: Qui il dott. Chinnici ci descrive in modo vivace quanto accade in tutti i territori che si ritrovano sotto una dominazione alta, lontana, estranea. Le elite dominanti vengonorapidamente cooptateall’interno del nuovo potere politico. Sotto di loro un ceto di ascari violenti tiene a bada gli umili. Attenzione, però, si sta parlandoancoradi squadracce che assumono il controllo di porzioni di territori rurali e periferici. Non si sta ancora parlando della mafia contemporanea.

LA MAFIA DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Il regime fascista, fondato sulla violenza, non poteva tollerare la mafia; due galli nel pollaio della Sicilia Occidentale non potevano stare. E non rimasero a lungo.

(...)

Nota: in questo paragrafo il dott. Chinnici riassume come le mafie partecipino prima alla repressione dei moti sociali dopo la tragedia della Grande guerra, poi si posizionino, come tutti i ceti dominanti, a sostegno del fascismo. Infine, con l’arrivo in Sicilia del prefetto Mori, il regime si sbarazza della manovalanza mafiosa, con i metodi spicci dello stato di polizia fascista. E’ una vittoria effimera, ovviamente, perché tutti i privilegiati conservano le loro posizioni, sostituendo la violenza mafiosa con quella fascista. Questo non toglie che un certo numero di persone della mafia si rifiuti di aderire al regime.

Mori é stato definito "il prefetto di ferro". - annota non senza amarezza il dott. Chinnici in questo paragrafo - Senza volere togliere meriti a nessuno, riteniamo che qualsiasi funzionario di P.S. o ufficiale dei C.C. con quei poteri, con quei mezzi, con quei sistemi e nel clima di terrore che seguì alle prime retate, avrebbe raggiunto gli stessi risultati del Mori. Non possiamo andare oltre senza dare una risposta a quanti potrebbero chiederci se, prima o dopo le retate, ci furono mafiosi che aderirono al fascismo. Premesso che la mafia, come associazione, non ha mai fatto scelte politiche definitive, essa, necessariamente, sta dalla parte di chi detiene il potere.

(...)

LA MAFIA DOPO LA CADUTA DEL FASCISMO

Arriviamo al luglio 1943. Le truppe alleate incominciano l’occupazione del territorio nazionale partendo dalla Sicilia dove sbarcano, dopo terrificanti attacchi aerei e navali. In poco tempo tutta l'Isola é "liberata". L’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories,ndr), nei comuni della Sicilia occidentale, pone a capo delle amministrazioni mafiosi rientrati da poco dal confino o loro familiari che diventano campioni dell'anti-fascismo. Andrea Finocchiaro Aprile, che per tutto il ventennio nessuno aveva visto in Sicilia, essendo egli rimasto nella capitale ove esercitava la libera professione forense, agita la bandiera giallo rossa del separatismo. La mafia delle quattro provincie della Sicilia occidentale, o gran parte di essa, è con lui; crede nelle sue affermazioni e nelle sue promesse.

Nota: In questo passaggio il dott. Chinnici, come abbiamo detto molto distante dalla parabola del sicilianismo, parla di ciò che resta della manovalanza mafiosa che era stata anch’essa perseguitata dal fascismo e di quella mafia che aveva cooperato con gli Alleati. A questo punto della storia siciliana, questo è la mafia, non quella che sarà dopo.

Nelle file del separatismo occidentale militano i familiari del bandito Giuliano; questi autodenominatosi colonnello dell 'EVIS (Esercito Volontario per l'Indipendenza Siciliana) si schiera assieme ai componenti la banda accanto a quel pugno di giovani idealisti che nulla hanno a che fare con la mafia e col banditismo e che cadranno, poi, in conflitto con le forze dell'ordine o finiranno in galera. Lentamente incominciano ad organizzarsi i partiti politici che oggi chiamiamo dell'arco costituzionale; previa autorizzazione dell'AMGOT ogni partito incomincia a pubblicare il proprio giornale. Noi, allora diciottenni, scopriamo un mondo fino allora sconosciuto: ci avevano detto che bisognava “credere obbedire combattere", ci avevano insegnato che il duce aveva sempre ragione. Per la prima volta ci fu dato di scoprire la libertà e provammo lo stesso stupore di Ciaula quando vide la luna. La satira pungente del "Becco giallo", gli attacchi anche sul piano personale che uomini politici di primo piano si muovevano reciprocamente nei giornali di partito, rimasero a lungo impressi nella nostra memoria.

E’ il grande momento della mafia (ritorna l’ordine sociale garantito dallo stato, ci permettiamo di commentare, ndr). Ritorna nei feudi e nei giardini estromettendo con la forza gli affittuari e i mezzadri. Qualcuno tenta di resistere, ma viene inesorabilmente eliminato. Non esercita vendetta nei confronti degli ex fascisti che pure avevano avuto un ruolo non secondario nelle "retate" del prefetto Mori; in alcuni centri del Palermitano, nei giorni che seguirono l'ingresso delle truppe alleate, si limita a spingere al saccheggio delle dimore degli ex gerarchi la folla; non ricordiamo casi di ex podesta o segretari del partito uccisi dai mafiosi dopo la liberazione dell’Isola; forse - ma la notizia dovrebbe essere controllata - un caso si ebbe in un comune del trapanese.

(...)

Incomincia, tra difficoltà di ogni genere, l'opera di ricostruzione. Come è noto, durante il periodo bellico, le distruzioni:maggiori si ebbero sulle città; è qui che si profilano possibilità di grossi guadagni. La mafia lo intuisce. Non abbandona ancora le:campagne dove, contrastando le lotte dei contadini, organizzate e guidate da esponenti politici di primissimo piano, riesce a mantenere il predominio; si prepara, però, ad inserirsi nelle citta. Elezioni regionali del 1947, affermazione del "Blocco del Popolo", che raggruppa partiti laici e di sinistra. La mafia ha compreso che il movimento separatista ha perduto la sua battaglia (del resto nessun siciliano aveva mai pensato al successo di un movimento i cui aderenti predicavano odio "contro i tiranni italici" ed aggredivano che non era con loro). Voluta dalla Democrazia Cristiana e dai partiti laici era nata frattanto la Regione.

E’ il momento storico più-importante della mafia che entra nelle file di quasi tutti i partiti che hanno rappresentanti al parlamento regionale.

(...)

Nota: In queste righe si comprende che il dott. Chinnici aveva i suoi pregiudizi contro il regionalismo, anche quello più moderato, ma questo non toglie nulla allo spessore delle sue riflessioni sulla criminalità organizzata. Più avanti rievoca come la mafia contribuisca alla liquidazione del bandito Giuliano e chiosa:La leggenda che vuole i mafiosi uomini rispettosi dell'ordine costituito trova conferma.

Incomincia, intanto, la ricostruzione del paese. Palermo, capoluogo dell'Isola, sede del parlamento e del governo regionale, subì negli anni della guerra bombardamenti a tappeto che distrussero tutta la zona portuale e cagionarono danni notevoli in quasi tutti i quartieri.

Si arriva agli anni cinquanta. Il potere della mafia si é manifestato, come abbiamo visto, fino a quegli anni, nelle campagne. Rizzotto, Miraglia, sono nomi di sindacalisti caduti assieme a decine di contadini sotto i colpi della mafia, che vede, come nel passato, nelle lotte dei sindacalisti e dei partiti che li sostengono, un attacco alle proprie istituzioni. La fame di terra dei contadini rimane come sempre inappagata. La riforma agraria, che nelle previsioni del legislatore avrebbe [qui nel testo c’è una lacuna, ndr] consentiranno mai ai contadini di poter trarre da essi i mezzi di vita; quelli rimasti ai grossi proprietari terrieri o al mafioso di spicco, essendo i migliori sotto ogni aspetto, diventano aziende agricole modello sulle quali la presenza del mafioso é ancora oggi attiva.

Nelle città incomincia - disordinata e caotica - la ricostruzione e l’espansione edilizia. La mafia delle città e delle borgate comprende che ha dinanzi a sé nuove e inesauribili fonti di ricchezza; su questa fase - ci avviamo agli anni sessanta - la sua azione si svolge in diverse direzioni: commercio e mediazione delle aree fabbricabili, interventi presso le amministrazioni e gli uffici per la concessione delle licenze e degli appalti, imposizioni di tangenti agli imprenditori, gestione diretta di imprese di costruzione. Cosi come era avvenuto per le campagne, nessun ostacolo essa incontra nella sua attività; ha raggiunto attraverso il ruolo svolto nelle elezioni amministrative regionali e politiche, tali risultati che può accedere presso tutti gli uffici pubblici e ottenere tutto quello che chiede. Del resto non sono pochi i pubblici dipendenti ad essa legati per rapporti di parentela o di interessi. Cosi, con costruzioni sorte senza licenza o con licenza, che violano apertamente gli strumenti edilizi, vengono messi "a sacco" Palermo e i vicini comuni. Incominciano, in questo periodo di tempo, a Palermo, a delinearsi ed esplodere i contrasti fra due gruppi di mafia che fino agli anni sessanta avevano avuto modo di rafforzare le loro sfere di influenza. Sono i gruppi Greco e Torretta di Palermo che hanno trasferito i loro centri di interessi dagli agrumeti alle aree edificabili. Fallita la opera di mediazione e di pacificazione di mafiosi di prestigio, è il momento degli omicidi, delle stragi, delle terribili vendette. I morti per le vie di Palermo e nelle vicine borgate si contano a decine. Si sviluppano contrasti per il dominio nella zona dei Cantieri Navali e dei Mercati Ortofrutticoli. Strage di Ciaculli. Si reclama l’intervento dello Stato. La mafia ha cambiato volto, Fino agli anni sessanta essa ha avuto nelle quattro provincie della Sicilia occidentale due precisi obiettivi: 1) l’arricchimento, con qualsiasi mezzo, degli associati; 2) il mantenimento, nelle campagne, di strutture che potessero consentirle il controllo sulla economia agraria, ai danni dei contadini a vantaggio del latifondista, ma, sopratutto, proprio. Fino agli anni sessanta, in conecreto, essa fu un potere che agì in modo rilevante nella societa agricola in contrapposizione a quello statale. Ciò sulla scia di una tradizione che voleva la mafia “elemento di ordine”.

A partire dal 1960 le aumentate fonti di arricchimento - sempre e comunque illecite - i collegamenti con le analoghe organizzazioni di oltre oceano, fanno di essa un’associazione criminosa di tipo gangsteristico.

(...)

Nota: Stavolta è arrivata davvero, spiega il dott. Chinnici, una “nuova mafia”.

...la mafia siciliana, dopo gli anni sessanta, sullo esempio di quella americana oltre ad allargare la sfera delle attivita illecite, ispirandosi ad essa, compie una penetrazione più incisiva nell’apparato e nelle amministrazioni pubbliche. E’ questa una azione necessaria se si considera che essa oramai, come copertura delle attività delinquenziali, altre ne svolge. che hanno il crisma apparente della legalità. Appalti per costruzione di opere pubbliche vengono quasi sempre aggiudicati ad imprenditori mafiosi o ad imprese che corrispondono alla mafia tangenti consistenti. Le imprese del Nord, quelle locali che non vogliono sottostare al ricatto, subiscono gravi atti intimidatori cui seguono dannggiamenti.

Il rapporto mafia - pubblica amministrazione assume aspetti emblematici ed inquietanti. Enti pubblici sono permeati dal potere mafioso; le opere pubbliche costano al contribuente molto più di quanto dovrebbero. Laddove il potere mafioso non riesce a penetrare con i metodi tradizionali - clientelari o.violenti – riesce a volte corrompendo. "Cosa Nostra" fa scuola.

(…)

La mafia con le caratteristiche nuove che abbiamo visto sposta il campo di azione nelle zone della Italia industrializzata. Sequestri di persona che rendono miliardi. Collegamenti con la "ndrangheta" calabrese, cosi come anni prima, per ragioni di contrabbando, c'erano stati con la camorra napoletana. E’ la nuova mafia, spregiudicata, spietata, assetata di potenza e di ricchezza, che non conosce più confini alle proprie azioni e non riconosce vecchi canoni e vecchi schemi. La lotta per il predominio pur continuando a permanere nel capoluogo dell'Isola si sposta anche nel Nord. A Milano cadono sotto i colpi delle micidiali "Colt Cobra", che sembra l'arma corta preferita dai giovani della nuova mafia, mafiosi di "rispetto". Continua ai giorni d’oggi nella carenza ed insufficienza dello Stato, l’azione pluridirezionale della mafia. I morti, nella Sicilia occidentale, si.contano a diecine e diecine. All'assemblea regionale, così come in passato, forze politiche tradizionalmente democratiche che da sempre combattono le associazione mafiose, hanno, in questi giorni, chiesto al Governo centrale di dare attuazione ai rimedi ed ai suggerimenti proposti dalla Commissione Antimefia. Il delicato momento politico ci induce a ritenere che il fenomeno mafioso non sarà affrontato con l'adozione di quelle misure – non soltanto restrittive – che da anni si invocano. E la Sicilia occidentale continua a rimanere vittima di situazioni che suonano offesa alla civiltà.

Nota: Qui si chiude la relazione del 1978 e già è chiaro che le mafie sono diventate concentrazioni di potere che si dilatano quanto si dilatano gli stati e i mercati. Passiamo ad ascoltare alcune delle considerazioni dalla relazione Chinnici-Mannino del 1983.

LA MAFIA OGGI E SUA COLLOCAZIONE NEL PIÙ VASTO FENOMENO DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA

di Rocco Chinnici e Saverio Mannino – giugno 1983

PREMESSA

(…)

Le forme associative ricordate hanno in comune lo scopo di arricchimenti personali con mezzi illeciti (di regola rispondenti al fine, ma non esclusivi dello stesso omicidio) per cui assumono una metodologia di tipo parassitario, che si esprime nella tendenza all’infiltrazione nell’ambiente sociale e nelle istituzioni dello Stato per distorcerne l’azione dai fini pubblici a loro proprio vantaggio.

Questo elemento è certamente presente anche nella camora (…) come gli avvenimenti odierni (caso Cirillo) dimostrano con l’inquietante costatazione e dei contatti fra camorra e terrorismo e della compromissione dei pubblici poteri nell’utilizzazione dell’azione intermediatrice della camorra per trattare col terrorismo.

(…)

LA MAFIA SICILIANA

(…)

Nota: Il documento ricorda come si fosse rintuzzata la violenza mafiosa, con azioni di repressione e iniziative politiche e sociali, nel primo dopoguerra, ma poi la mafia torna a dilagare quando diventa narcomafia. Il proibizionismo è un terreno scivoloso, di grande arricchimento e corruzione. La narcomafia fa un salto di qualità.

...Già agli inizi e a metà degli anni sessanta (…) la mafia pur continuando a gestire il contrabbando di tabacchi lavorati esteri, a controllare il mercato delle aree edificabili e delle acque per uso irriguo, a ricattare commercianti, imprenditori, agricoltori, pur facendo avvertire pesantemente la sua presenza nella vita politica ed amministrativa attraverso collegamenti con il potere, aveva iniziato una attività nuova, il commercio di cocaina, eroina e di altri stupefacenti.

(…)

…I processi (…) provano, in modo inequivocabile, che esistono strettissimi legami tra le organizzazioni mafiose delle tre regioni: dimostrano, anche, che tali organizzazioni, nella produzione e nel commercio dell’eroina, sono in rapporti con le organizzazioni internazionali, segnatamente con le famiglie mafiose d’origine siculo-calabrese-napoletana, destinatarie dell’eroina prodotta in Sicilia e in Calabria ed operanti negli USA e nel Canadà.

(…)

Nota: Il documento descrive un potere economico che però non ha affatto rinunciato a condizionare fortemente la politica e gli organi dello stato (o meglio degli stati).

L’omicidio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, caduto nel tentativo generoso di dare un volto nuovo alle pubbliche istituzioni e nel momento in cui, predisponendo le necessarie riforme, stava per passare [d]alla enunciazione di linee programmatiche dirette ad estromettere mafia e sistemi mafiosi dai gangli vitali della Regione, alla realizzazione delle stesse, costituisce la drammatica riprova della validità della tesi… (…) …la mafia, oggi come nel passato, non può mantenere posizioni di rilievo… se, forte della potenza economico-finanziaria raggiunta, allenta i vincoli che la legano al potere.

(…)

...oggi le associazioni mafiose (camorra e ‘ndrangheta comprese) hanno assunto un ruolo assai importante anche nell’ambito della criminalità organizzata internazionale… (…) “La multinazionale della droga” non è espressione giornalistica, né è priva di significato.

Nota: Continuano poi con riflessioni sulla globalizzazione di questo potere, con la sua capacità di inquinare la vita non solo finanziaria ma anche politica, fin negli Stati Uniti e in Sudamerica.

(…)

La lotta alla mafia deve partire dagli aspetti morfologici del fenomeno: contro l’infiltrazione mafiosa è necessario l’avvio di un processo di disinquinamento seguendo i principi di una bonifica sociale… (…)...la mafia non recluta solo nelle carceri, ma dovunque si ponga ai giovani la scelta fra l’emarginazione e il prestigio, il ruolo sociale, il denaro facile, la carriera ed il successo – pur con gli enormi rischi connessi – del mafioso.

Nota: Pur entro i limiti della loro posizione come amministratori di giustizia, gli autori proseguono facendo cenno alla necessità di riforme contro il notabilito elettorale, gli abusi di posizione dominante nei media e nel finanziamento della politica, l’infiltrazione mafiosa nei corpi e nei poteri dello stato, i subappalti, le esternalizzazioni, le confische degli arricchimenti improvvisi e potenzialmente illeciti. Tutte battaglie che ad oggi restano incompiute e che devono essere che al centro dell’azione politica di noi decentralisti, che siamo ostili a tutte le concentrazioni di potere politico ed economico. Concentrazioni che sono, intrinsecamente, congeniali e funzionali al continuo riformarsi di centrali di potere mafioso.

Vorremmo chiudere sommessamente, ma non senza durezza: noi decentralisti dobbiamo fare ciò che le persone che hanno una mentalità centralista, sicuritaria, autoritaria, non riusciranno mai a fare. Tocca a noi aprire nei nostri territori un’approfondita riflessione su quanto le narcomafie e gli stati centralisti e autoritari si compenetrano, s’inquinano e, in definitiva, si rafforzano a vicenda, aprendo dibattiti seri sui proibizionismi (su ciò che è permesso a tutti e ciò che invece è permesso solo ai criminali). Tocca a noi impedire che i beni comuni, in particolare ambiente, cultura, alimentazione, salute, siano messi sul mercato, perché nella globalizzazione qualcuno che ha abbastanza fondi – legali o illegali – per impadronirsene e controllarli, purtroppo, si troverà sempre. Tocca a noi impedire che il potere politico si concentri in così poche mani, che sia sufficiente la corruzione di un solo vertice o di un solo ufficio, per condurre in rovina interi territori.

L’immenso dolore delle vittime di mafia potrà trovare consolazione solo in seno alla Provvidenza, ma il qui e l’ora della giustizia, se vogliamo onorare Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Rocco Chinnici e tutti gli altri martiri delle narcomafie in tutto il mondo, fanno parte del nostro compito autonomista.

* * *

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Francesco, il papa delle periferie del mondo

  • Autore: Papa Francesco - Città del Vaticano, 23 settembre 2020

Precisiamo subito, a scanso di fraintendimenti, che non intendiamo attribuire alcuna etichetta politica a papa Francesco, il vescovo di Roma di cui oggi, sabato 26 aprile 2025, si celebrano i funerali.

L’America Latina, in cui si è formato come uomo e come sacerdote il papa gesuita - al secolo Jorge Mario Bergoglio (Buenos Aires, 17 dicembre 1936 - Città del Vaticano, 21 aprile 2025) - è percorsa da antichi, accesi e tuttora irrisolti dibattiti tra federalisti e centralisti in cui a noi non risulta che il futuro papa si sia mai troppo esposto.

Tuttavia Bergoglio è sempre stato uomo delle periferie, della sua “Baires” prima e poi del mondo intero. Nonostante sia cresciuto in un ambiente filo-peronista, non ha mai ceduto alle sirene dei centralismi autoritari, che hanno poi condotto l’Argentina (e molti altri paesi) sotto il giogo rovinoso di dittature populiste, nazionaliste, reazionarie, o addirittura militari.

In molti dei suoi interventi ha criticato l’elitarismo e le tecnocrazie centraliste, esprimendosi sempre a favore del protagonismo popolare, delle comunità, delle realtà locali.

I documenti più importanti del suo pontificato – le lettere encicliche Fratelli tutti (2020) e Laudato si' (2015) – sarebbero incomprensibili senza tener presente il continuo richiamo alla partecipazione delle comunità locali nell'affrontare le sfide globali. Per papa Francesco non c'è azione sociale e politica veramente cristiana – e quindi autenticamente umana – se non da parte di coloro che amano e curano la propria terra, pensando al bene comune dell’intera Terra.

Come ci scrive Eric Canepa, intellettuale americano-europeo, impegnato nella sinistra europea, amico delle autonomie e di questo Forum, "So much of Francis’s teachings had to do with de-reifying, de-mystifying the real relations among people and the world with its apparently eternal economic laws, which breed a deadening fatalism and a soulless positivism. No, a positivist, empiricist, and pragmatic approach to the world is not “realistic” for the same reasons that Marx gave in criticizing the mechanical materialism of Feuerbach. Because what is wonderful and unique about human beings is their potential, that they live by thinking forward beyond their immediate material existence, by imagining a future, that they can change, and that they need to be connected to people, to many people – just to exist as human beings.". Gli esseri umani cambiano le cose restando umani, cioè non solo individui ma coese comunità che possono cambiare concretamente le cose nella loro vita quotidiana. Sono maturate nel mondo delle visioni globali, ma l'azione è e resterà per sempre locale.

Frugando tra le memorie del suo servizio come vescovo di Roma – servus servorum Dei – abbiamo trovato parole che confermano la sussidiarietà come valore fondamentale della dottrina sociale cristiana. Parole che risultano consonanti con quelle della dichiarazione di Chivasso, che è ispirata, oltre che dall’antico confederalismo svizzero ed europeo, anche dal pensiero cristiano-sociale più moderno.

Il mondo cristiano, in particolare la Chiesa cattolica romana, riscoprì l’antico principio della sussidiarietà come argine con cui difendere umanità e libertà in un mondo dominato da sempre più gigantesche e feroci concentrazioni di potere industriale, finanziario, politico e militare. Le decisioni sociali e politiche dovevano restare al livello più vicino possibile alle persone, alle comunità locali, ai corpi intermedi delle società. Lo stato doveva essere “sussidiario”, non “totalitario”, come poi i fascisti italiano lo avrebbero teorizzato e altri realizzato (e non stiamo parlando solo di “nazisti e sovietici”, come ben capiscono coloro che hanno studiato i caratteri intrinsecamente totalitari di tutta la modernità).

La sussidiarietà fu sancita con la forza di encicliche papali come la Quadragesimo Anno, promulgata da Pio XI nel 1931 e da allora, sia pure fra non poche contraddizioni e ricorrenti amnesie, il mondo cattolico non ha mai cessato di restare fedele a questo fondamentale principio.

Ne abbiamo trovato una solida conferma nel discorso di papa Francesco per l’udienza generale del 23 settembre 2020, di cui qui riproduciamo un ampio estratto, in affettuoso ricordo di questo buon pastore, tornato nel seno della Provvidenza dopo la conclusione della sua avventura terrena.

Roma, sabato 26 aprile 2025, giorno dei funerali di papa Francesco - a cura del gruppo di studio interterritoriale Forum 2043

Affinché tutti possiamo partecipare alla cura e alla rigenerazione dei nostri popoli

Dal discorso di papa Francesco all'udienza generale del 23 settembre 2020 - Vaticano, Cortile di San Damaso (fonte)

Affinché tutti possiamo partecipare alla cura e alla rigenerazione dei nostri popoli, è giusto che ognuno abbia le risorse adeguate per farlo (cfr Compendio della dottrina sociale della Chiesa [CDSC], 186). Dopo la grande depressione economica del 1929, Papa Pio XI spiegò quanto fosse importante per una vera ricostruzione il principio di sussidiarietà (cfr Enc. Quadragesimo anno, 79-80). Tale principio ha un doppio dinamismo: dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Forse non capiamo cosa significa questo, ma è un principio sociale che ci fa più uniti.

Da un lato, e soprattutto in tempi di cambiamento, quando i singoli individui, le famiglie, le piccole associazioni o le comunità locali non sono in grado di raggiungere gli obiettivi primari, allora è giusto che intervengano i livelli più alti del corpo sociale, come lo Stato, per fornire le risorse necessarie ad andare avanti. Ad esempio, a causa del lockdown per il coronavirus, molte persone, famiglie e attività economiche si sono trovate e ancora si trovano in grave difficoltà, perciò le istituzioni pubbliche cercano di aiutare con appropriati interventi sociali, economici, sanitari: questa è la loro funzione, quello che devono fare.

Dall’altro lato, però, i vertici della società devono rispettare e promuovere i livelli intermedi o minori. Infatti, il contributo degli individui, delle famiglie, delle associazioni, delle imprese, di tutti i corpi intermedi e anche delle Chiese è decisivo. Questi, con le proprie risorse culturali, religiose, economiche o di partecipazione civica, rivitalizzano e rafforzano il corpo sociale (cfr CDSC, 185). Cioè, c’è una collaborazione dall’alto in basso, dallo Stato centrale al popolo e dal basso in alto: delle formazioni del popolo in alto. E questo è proprio l’esercizio del principio di sussidiarietà.

Ciascuno deve avere la possibilità di assumere la propria responsabilità nei processi di guarigione della società di cui fa parte. Quando si attiva qualche progetto che riguarda direttamente o indirettamente determinati gruppi sociali, questi non possono essere lasciati fuori dalla partecipazione. Per esempio: “Cosa fai tu? - Io vado a lavorare per i poveri – Bello, e cosa fai? – Io insegno ai poveri, io dico ai poveri quello che devono fare – No, questo non va, il primo passo è lasciare che i poveri dicano a te come vivono, di cosa hanno bisogno: Bisogna lasciar parlare tutti!

E così funziona il principio di sussidiarietà.

Non possiamo lasciare fuori della partecipazione questa gente; la loro saggezza, la saggezza dei gruppi più umili non può essere messa da parte (cfr Esort. ap. postsin Querida Amazonia [QA], 32; Enc. Laudato si’, 63). Purtroppo, questa ingiustizia si verifica spesso là dove si concentrano grandi interessi economici o geopolitici, come ad esempio certe attività estrattive in alcune zone del pianeta (cfr QA, 9.14). Le voci dei popoli indigeni, le loro culture e visioni del mondo non vengono prese in considerazione.

Oggi, questa mancanza di rispetto del principio di sussidiarietà si è diffusa come un virus.

Pensiamo alle grandi misure di aiuti finanziari attuate dagli Stati. Si ascoltano di più le grandi compagnie finanziarie anziché la gente o coloro che muovono l’economia reale. Si ascoltano di più le compagnie multinazionali che i movimenti sociali. Volendo dire ciò con il linguaggio della gente comune: si ascoltano più i potenti che i deboli e questo non è il cammino, non è il cammino umano, non è il cammino che ci ha insegnato Gesù, non è attuare il principio di sussidiarietà. Così non permettiamo alle persone di essere «protagoniste del proprio riscatto».[1]

Nell’inconscio collettivo di alcuni politici o di alcuni sindacalisti c’è questo motto: tutto per il popolo, niente con il popolo. Dall’alto in basso ma senza ascoltare la saggezza del popolo, senza far attuare questa saggezza nel risolvere dei problemi, in questo caso nell’uscire dalla crisi. O pensiamo anche al modo di curare il virus: si ascoltano più le grandi compagnie farmaceutiche che gli operatori sanitari, impegnati in prima linea negli ospedali o nei campi-profughi. Questa non è una strada buona. Tutti vanno ascoltati, quelli che sono in alto e quelli che sono in basso, tutti.

Per uscire migliori da una crisi, il principio di sussidiarietà dev’essere attuato, rispettando l’autonomia e la capacità di iniziativa di tutti, specialmente degli ultimi. Tutte le parti di un corpo sono necessarie e, come dice San Paolo, quelle parti che potrebbero sembrare più deboli e meno importanti, in realtà sono le più necessarie (cfr 1 Cor 12,22).

Alla luce di questa immagine, possiamo dire che il principio di sussidiarietà consente ad ognuno di assumere il proprio ruolo per la cura e il destino della società. Attuarlo, attuare il principio di sussidiarietà dà speranza, dà speranza in un futuro più sano e giusto; e questo futuro lo costruiamo insieme, aspirando alle cose più grandi, ampliando i nostri orizzonti. [2]

O insieme o non funziona.

O lavoriamo insieme per uscire dalla crisi, a tutti i livelli della società, o non ne usciremo mai. Uscire dalla crisi non significa dare una pennellata di vernice alle situazioni attuali perché sembrino un po’ più giuste. Uscire dalla crisi significa cambiare, e il vero cambiamento lo fanno tutti, tutte le persone che formano il popolo. Tutte le professioni, tutti. E tutti insieme, tutti in comunità.

Fonti

https://www.vaticannews.va/it/chiesa/news/2019-03/convegno-washington-vista-sinodo-panamazzonico.html (per la foto di corredo al post)

https://it.wikipedia.org/wiki/Papa_Francesco

https://it.wikipedia.org/wiki/%C3%89mile_Chanoux

https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200923_udienza-generale.html (fonte dell’estratto)

 

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La controstoria di don Milani, contro militarismo, colonialismo e retoriche patriottarde

  • Autore: lettura di don Lorenzo Milani, nel centenario della nascita - Barbiana del Mugello, 27 maggio 2023

Ha rovesciato i potenti dai troni, Ha innalzato gli umili;(Luca 1,52)

Per onorare il centenario della nascita di don Lorenzo Milani (27 maggio 1923-2023), rileggiamo la sua “controstoria” dello stato italiano, estratta dalla sua lettera del 1965 ai cappellani militari toscani, in difesa degli obiettori di coscienza, in polemica con ogni forma di militarismo, colonialismo, imperialismo.

(…)

L'obiezione in questi 100 anni di storia l'han conosciuta troppo poco. L'obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l'han conosciuta anche troppo.

Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare.

1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell'idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c'erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l'appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d'Italia un monumento come eroe della Patria.

A 100 anni di distanza la storia si ripete: l'Europa è alle porte.

La Costituzione è pronta a riceverla: "L'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie...". I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, così come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell'Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei.

La guerra seguente, 1866, fu un'altra aggressione. Anzi c'era stato un accordo con il popolo più attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l'Austria insieme.

Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria, tant'è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant'è vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: "L'insurrezione annunciata per oggi, è stata rinviata a causa della pioggia".

Nel 1898 il Re "Buono" onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L'avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata.

Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare "Savoia" anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l'unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo.

Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d'un bianco più che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l'uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?

Idem per la guerra di Libia.

Poi siamo al '14. L'Italia aggredì l'Austria con cui questa volta era alleata.

Battisti era un Patriota o un disertore? È un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti?

Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una "inutile strage"? (l'espressione non è d'un vile obiettore di coscienza ma d'un Papa canonizzato).

Era nel '22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l'esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l'avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l'Obbedienza "cieca, pronta, assoluta" quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Così la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra "Patria", quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa).

Nel '36 50.000 soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: Avevano avuto la cartolina di precetto per andar "volontari" a aggredire l'infelice popolo spagnolo.

Erano corsi in aiuto d'un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano. Coll'aiuto italiano e al prezzo d'un milione e mezzo di morti riuscì a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d'ogni libertà civile e religiosa.

Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrota) chiunque sia reo d'aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi. Senza l'obbedienza dei "volontari" italiani tutto questo non sarebbe successo.

Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall'altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l'appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato.

Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire?

Poi dal '39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l'altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia).

Era una guerra che aveva per l'Italia due fronti. L'uno contro il sistema democratico. L'altro contro il sistema socialista. Erano e sono per ora i due sistemi politici più nobili che l'umanità si sia data.

L'uno rappresenta il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri.

L'altro il più alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri.

Non vi affannate a rispondere accusando l'uno o l'altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c'era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d'ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi. Negazione d'ogni giustizia e d'ogni religione. Propaganda dell'odio e sterminio d'innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente).

Che c'entrava la Patria con tutto questo? e che significato possono più avere le Patrie in guerra da che l'ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di patrie?

Ma in questi cento anni di storia italiana c'è stata anche una guerra "giusta" (se guerra giusta esiste). L'unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana.

Da un lato c'erano dei civili, dall'altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall'altra soldati che avevano obiettato.

Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i "ribelli", quali i "regolari"?

È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i "ribelli"?

Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l'ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati.

Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall'obbedienza militare. Quell'obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un "distinguo" che vi riallacci alla parola di San Pietro: "Si deve obbedire agli uomini o a Dio?". E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.

In molti paesi civili (in questo più civili del nostro) la legge li onora permettendo loro di servir la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria più degli altri, non meno. Non è colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione.

Del resto anche in Italia c'è una legge che riconosce un'obiezione di coscienza. È proprio quel Concordato che voi volevate celebrare. Il suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di coscienza dei Vescovi e dei Preti.

In quanto agli altri obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro né contro di voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s'è mai sentito dire che la viltà sia patrimonio di pochi, l'eroismo patrimonio dei più?

Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene.

Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l'ha fatto. Più maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?

Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il comandamento del Signore è "estraneo al comandamento cristiano dell'amore" allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!

Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità.

Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima.

Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.

Don Lorenzo Milani

* * *

Testo estratto dalla pubblicazione “L' obbedienza non è più una virtù”Documenti del processo a don Lorenzo Milani

Prima edizione: Firenze, Libreria editrice fiorentina, 1965. Nel 1994 uscì l'edizione a cura del giornalista viterbese Carlo Galeotti per i tipi di Nuovi Equilibri/Stampa Alternativa di Viterbo, da cui è stato estratto un testo elettronico integralmente disponibile in rete con la licenza specificata al seguente indirizzo: http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

 Altra fonte: https://www.famigliacristiana.it/articolo/l-obbedienza-non-e-piu-una-virtu-il-testo-di-don-lorenzo-milani.aspx

 Altre informazioni: https://it.wikipedia.org/wiki/L%27obbedienza_non_%C3%A8_pi%C3%B9_una_virt%C3%B9

 

Questo formidabile scritto ci rivela un don Milani gigantesco, connesso con le più avanzate forme di critica sociale e politica del suo tempo. Scrive Gabriele Arosio (su Riforma.it) che don Milani ha condiviso con altri grandi del secolo XX la convinzione che si possa cambiare il mondo cominciando da una delle periferie della grande storia: Danilo Dolci, prima a Trappeto e poi a Partinico; Franco Basaglia, prima a Gorizia e poi a Trieste; Adriano Olivetti a Ivrea; Tullio Vinay, pastore valdese, che scelse Riesi per la sua agape evangelica. Che poi è la storia vissuta da molti pionieri del nostro civismo ambientalista e territorialista: cominciare a cambiare il mondo cominciando dal proprio posto, in una comunità circoscritta e unita da una originale cultura vernacolare, con un senso del limite che esalta la nostra condizione umana, nell'intimità di una terra che possiamo conoscere e servire davvero nella breve parabola della nostra vita. Tornando a don Milani, basta visitare Barbiana e vedere com'era la sua scuola, leggere le carte geografiche, frugare nella sua biblioteca e fra i supporti didattici che utilizzava per i ragazzi, per capire quanto quest'uomo fosse avanti rispetto ai suoi tempi. Alessandro Mazzerelli, pioniere di solidarismo locale e autonomismo toscano, nelle sue memorie racconta di un pensiero audace che gli fu consegnato da don Milani, l'auspicio, cioè, che tutte le grandi potenze scomparissero e che al loro posto il mondo si popolasse di “ventimila sammarini” (“Ho seguito don Lorenzo Milani profeta della terza via”, Rimini : Il cerchio, 2007, pag. 31). Questo ricordo di don Lorenzo Milani assume un significato cruciale anche nel recente romanzo di fantapolitica confederalista di Mauro Vaiani (“Cosmonauta Francesco”, Firenze : Porto Seguro, 2022).

 

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La necessaria alternativa al neonazionalismo, a vecchi e nuovi centralismi, ai traditori della sussidiarietà

Il discorso della presidente Giorgia Meloni al Meeting di Rimini lo scorso 27 agosto 2025 è stato rivelatore. L'aspirante podestà d'Italia ha espresso, in modo pacato ma inequivocabile, la sua cultura politica centralista, venendo peraltro lungamente applaudita da una platea che ha evidentemente smarrito il suo antico attaccamento ai principi umani e cristiani della sussidiarietà.

Ha parlato dell'Italia come "nazione", oscurando sfacciatamente la verità storica che il nazionalismo italiano è stato la nostra rovina. Ciò che abbiamo ricostruito, dopo il disastro, è una Repubblica di autonomie, dove si è cercato, nonostante le contraddizioni e i guasti della modernità e della globalizzazione, di proteggere le diversità locali, regionali, culturali, linguistiche, che sono una esigenza insopprimibile di una vita veramente umana.

Secondo la presidente, l'Italia-nazione sta rioccupando il suo posto a fianco delle altre nazioni, ma quali sarebbero queste altre nazioni? Gli stati "mononazionali" sono una eccezione (spesso sinistra). I nostri vicini europei e mediterranei che prosperano sono ordinamenti che rispettano le autonomie e le diversità. Quelli dove si praticano forme di neonazionalismo e centralismo sono tutti in declino, a rischio di involuzioni autoritarie, quando non già sprofondati nella violenza, nel terrorismo, nella guerra.

La presidente Meloni ha rivendicato l'intervento del centralismo per rimediare alla crisi di alcuni territori, come Caivano, ma con questo argomento ha sfidato il buon senso e la sua - temporanea - fortuna politica. Quante Caivano possono essere emancipate dalla povertà e dalla violenza dall'intervento diretto di un governo centralista? Una, forse. Alcune, forse ma improbabile. E tutte le altre migliaia di periferie che stanno degradando, che si stanno impoverendo e spopolando, in cui sono a rischio interi patrimoni culturali e ambientali? Il centralismo non ne conosce neppure il numero, figuriamoci i problemi.

L'annuncio di alcune misure "nazionali", come un "piano casa" (un sempreverde propagandistico), sono stati particolarmente imbarazzanti. Non esistono soluzioni "italiane" per i problemi dei nostri diversi territori, dove si spazia dall'eccesso di cementificazione e speculazione, all'estremo opposto di abbandono, incuria, isolamento e spopolamento. Il declino non potrà mai essere fermato, senza sussidiarietà e responsabilità. Non è sorprendente, peraltro, come tutti questi neonazionalisti italiani (non solo quelli di Fratelli d'Italia, sia chiaro) siano tutti così ciechi e miopi rispetto all'esigenza di tutelare le nostre economie locali.

Dobbiamo smontare questo neonazionalismo centralista italiano, perché mette in discussione l'autonoma e originale azione politica dei leader locali per promuovere una vita veramente a misura di persona umana per le generazioni future, una vita radicata in comunità locali - di nascita o di elezione - coese e solidali, rispettose del proprio patrimonio culturale e del proprio ambiente naturale.

Nonostante il coro conformista della maggior parte dei media, nessun centralismo, nessun neonazionalismo, nessuna concentrazione di potere e di ricchezza stanno migliorando la vita quotidiana degli esseri umani. Anzi, nonostante tutta la retorica "green", la stanno mettendo sempre più in pericolo, distruggendo gli ecosistemi locali e minacciando il creato con i loro ecomostri e i loro arsenali pieni di armi di distruzione di massa. Tutte le grandi potenze - ma anche molte medie e piccole - sono autocrazie dove le persone, le famiglie, le piccole imprese, i coltivatori diretti, gli artigiani, le comunità locali, sono semplicemente stordite dalla propaganda, impoverite, oppresse.

Le nostre vecchie democrazie europee non fanno eccezione, visto che cresce come un cancro la concentrazione del potere nelle mani di pochi leader, tecnocrati e magnati.

Non dubitiamo che la presidente Meloni sarà abile, prudente e moderata, ma non facciamoci illusioni. Alla fine della sua stagione politica, cittadini e comunità si ritroveranno tutti meno autonomi e più dipendenti dallo stato.

Lavoriamo quindi, tutti noi che crediamo nell'autonomia delle persone e dei territori, a contribuire a una svolta politica. E' una sfida ineludibile, che riguarda non solo le personalità indipendenti e autonome dal bipolarismo "all'italiana", ma anche molti di coloro che stanno al momento partecipando a esperienze politiche e amministrative insieme al centrodestra e al centrosinistra. E' un cantiere in cui c'è bisogno di tanto lavoro da parte di tanti, superando gli attuali steccati.

L'Italia e l'Europa sono fatte di autonomie e non possiamo lasciare che i neonazionalisti, i centralisti, i tecnocrati le distruggano, perché dopo il passaggio di questi barbari del nostro essere autonomi, e quindi veramente italiani ed europei, non resterebbe più niente.

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Prato, mercoledì 3 settembre 2025, San Gregorio Magno - a cura della segreteria interterritoriale

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La cartina riprodotta a fianco del post è una famosa mappa dei territori italiana realizzata dal grande cartografo inglese John Cary nel 1799, dove sono descritte le diversità italiane com'erano prima della Rivoluzione francese e delle invasioni napoleoniche. Quila fonte su Wikipedia. Qui una versione a più alta definizione.

 

Morire di centralismo autoritario

Con il passare delle ore il catastrofico terremoto che ha colpito molti territori turchi, curdi e siriani, nella notte fra il 5 e il 6 febbraio 2023, si rivela nella sua terrificante gravità.

Le forze sorelle e i gruppi civici, autonomisti e ambientalisti della rete Autonomie e Ambiente, attraverso la presidenza, esprimono tutta la possibile solidarietà.

Seguiamo la vicenda attraverso i collegamenti internazionali di Alleanza Libera Europea (ALE, European Free Alliance), in particolare con la forza politica localista, interculturale, federalista, libertaria del Partito Democratico dei Popoli, che è il movimento del sistema politico turco a cui siamo più vicini.

Questa immensa tragedia deve essere una occasione di riflessione e, per tutte le cancellerie dell'Europa e del Mediterraneo, di ripensamento. Questo potrebbe essere il momento per una tregua immediata, a carattere umanitario, di ogni conflitto in corso, dallo Yemen ai territori palestinesi, dal Nagorno-Karabakh (Artsakh) alla linea del fronte russo-ucraino.

E' davanti agli occhi di tutti che di centralismo autoritario si muore di più che di un terremoto, per quanto terribile. Non ci riferiamo solo al fatto che i territori curdi del Bakur e del Rojava, oltre a molte altre province sotto giurisdizione turca e siriana, erano già state martoriate dalle guerre combattute dai regimi contro i loro stessi popoli. C'è qualcosa di più profondo.

Le cronache dai luoghi del dolore, come quelle dell'ottimo Mariano Giustino (corrispondente di Radio Radicale) ci informano di un'amara verità: quei regimi centralisti autoritari hanno lasciato licenza di costruire e inquinare, ma non hanno mai permesso la formazione di servizi locali decentrati, autonomi, forti, gli unici che possano assicurare la resilienza delle comunità locali nei momenti di crisi.

Il centralismo è autoritario sempre, paralizzante in tempi di crisi.

Il presidenzialismo è sempre prolifico di opere faraoniche, inutili e, in caso di disastri naturali, assassine.

Il militarismo è sempre pericoloso e d'inciampo di fronte alle necessità di operare capillarmente nei territori colpiti da eventi tragici.

Vedere intere province distrutte dalla guerra, inquinate, divise dalle persecuzioni politiche, lasciate prive di autorità locali civili e democratiche, oltre che di servizi locali di protezione civile e di assistenza, sia di monito per tutti.

Per noi è una spinta profonda a continuare le nostre battaglie civiche, ambientaliste, autonomiste.

 

 

 

Omaggio all'Artsakh dall'assemblea EFA

E' in corso a Bruxelles l'Assemblea generale della nostra famiglia politica europea, EFA (European Free Alliance), che può essere seguita su X (già Twitter): https://twitter.com/EFAparty.

L'assemblea ha tributato un commosso omaggio al popolo dell'Artsakh, applaudendo per minuti in piedi gli esponenti oggi in esilio e presenti all'incontro.

Stiamo parlando di 150.000 persone che sono state perseguitate, affamate, bombardate e infine cacciate dalla loro màtria ancestrale. La piccola patria è meglio conosciuta come Nagorno-Karabach in Occidente. Dopo una lunga e triste storia di rivalità fra nazionalismi armeno e azero, recentemente quest'ultimo ha prevalso e compiuto ciò che tutti consideravano impossibile e intollerabile nel XXI secolo: la deportazione genocida di tutta la comunità dell'Artsakh (oggi in gran parte riparata in Armenia).

Nella foto la presidente EFA, la dottoressa Lorena Lopez, vicino ad ArmineAlexanian, esponente in esilio del Partito Democratico dell'Artsakh (forza sorella in EFA, https://twitter.com/DPA_Artsakh).

 

Per la pace si riparta dal cessate il fuoco

Nella nostra rete di forze territoriali abbiamo avuto e abbiamo ancora posizioni articolate su come arrivarci, ma non ci sono dubbi su dove dobbiamo andare: l'Europa deve gettare il proprio peso politico ed economico nell'arrivare al più presto a un cessate il fuoco in questa terribile guerra tra la Federazione Russa e l'Ucraina. Questo conflitto ormai decennale (che dalla prima mattinata del 24 febbraio 2022 è diventato una operazione militare su larga scala, ma che risale almeno al 2014), deve essere fermato.

Tutto è possibile, dopo il cessate il fuoco: salvaguardare la sovranità e la natura democratica della repubblica di Ucraina; restituire ai cittadini dei territori contesi una speranza e una voce sul loro futuro; frenare la deriva militarista e nazionalista nella Federazione Russa, i cui popoli non sono nemici dell'Europa e nemmeno nemici del popolo ucraino; riaprire il dialogo a tutto campo, in tutto il mondo, con tutte le potenze, sul disarmo e contro la proliferazione nucleare.

Per questo molti nostri attivisti dell'Italia centrale partecipano alla marcia della pace Perugia-Assisi di oggi domenica 21 maggio 2023.

Per questo la nostra forza sorella Siciliani Liberi ha aderito all'iniziativa dei referendum contro la guerra e per la sanità pubblica. Per un approfondimento su questa iniziativa popolare, consigliamo l'ascolto di questa "tribuna" con il prof. Ugo Mattei, ospitata da Radio Radicale: https://www.radioradicale.it/scheda/698585/dibattito-sui-tre-referendum-sanita-e-guerra

A cura della segreteria interterritoriale

Firenze, 21 maggio 2023

 

 

Sa die a pustis de "Sa Die"

  • Autore: Omar Onnis - Cagliari, 29 aprile 2025

La Sardegna ha appena celebrato il 28 aprile 2025 il suo annuale "Sa Die", la propria festa "natzionale". Nonostante l'indifferenza, il fastidio, le banalizzazioni di cui è fatta oggetto dai ceti politici centralisti al potere, la giornata non perde di significato, anzi è fonte di speranza. I Sardi la vivono come momento di autonomia spirituale e culturale, che sono fondamento di ogni autogoverno, come ci ricorda la Carta di Chivasso. Omar Onnis, il giorno dopo "Il Giorno", ne scrive per il Forum 2043.

Sa Die de sa Sardigna: storia, significati, speranze

Il 28 aprile in Sardegna si celebra – o meglio, si dovrebbe celebrare – la festa nazionale sarda, sa Die de sa Sardigna (il Giorno della Sardegna). Nel 1993, con legge regionale, fu stabilito infatti che ogni anno, in tale data, si sarebbe dovuto rievocare il 28 aprile 1794, quando un moto popolare prese il controllo della città di Cagliari, esautorò il governo sabaudo, arrestò tutti i funzionari stranieri, viceré in testa, e dopo pochi giorni li rispedì oltremare. È la cosiddetta “di’ de s’aciapa” (il giorno della caccia), quando si frugavano case e strade della città in cerca di stranieri da destinare all’imbarco. Una sorta di 14 luglio sardo. In seguito alla “cacciata dei Piemontesi” il governo fu assunto nell’isola dalla massima magistratura del Regno, la Reale Udienza, e la gestione politica fu condivisa col parlamento dei tre stamenti (analogo al parlamento francese dei “tre Stati”), a sua volta autoconvocatosi sul principio dell’anno precedente, a quasi un secolo di distanza dall’ultima volta (anche qui, similmente al caso francese), per organizzare la difesa dell’isola dall’attacco della stessa Francia rivoluzionaria, data l’inerzia del viceré Vincenzo Balbiano.

Quel 28 aprile si inseriva dunque in una più articolata sequenza di eventi, che si concluderà, dopo varie fasi, solo nel 1812, l’anno “della fame” nella memoria popolare, allorché un ultimo tentativo di riaprire la partita rivoluzionaria contro il governo sabaudo e il regime feudale, ancora in vigore, fu stroncata dalla durissima repressione del viceré Carlo Felice.

Il nucleo principale del periodo rivoluzionario sardo di solito è indicato nel triennio tra il 1794 (cacciata del viceré e di tutti i funzionari stranieri) e il 1796 (fallito tentativo di prendere il potere da parte di Giovanni Maria Angioy), ma come detto i fermenti durarono ancora a lungo. Del resto siamo nel bel mezzo del periodo napoleonico, quando le armi francesi portavano con sé in tutta l’Europa promesse di grandi cambiamenti politici e sociali.

La peculiarità della rivoluzione sarda, rievocata e riassunta nella data del 28 aprile, è che essa nacque e si svolse su una base di rivendicazioni e di programmi tutta endogena. Certo, influenzata dalle idee nuove che da decenni circolavano nel Vecchio Continente, ma non maturata in conseguenza di un’occupazione straniera bensì, un po’ paradossalmente, esplosa proprio in seguito alla vittoriosa difesa contro il tentativo di occupazione francese. Alla Francia, dopo il 1796, i leader del movimento rivoluzionario sardo, quelli scampati alla prigione o alla forca, si rivolsero in cerca di rifugio e poi di aiuto per liberare la Sardegna dal giogo della monarchia sabauda e del feudalesimo. Diversi di loro moriranno in esilio, a cominciare da Giovanni Maria Angioy (nel 1808), considerato la figura principale di tutto questo periodo. Le loro aspettative rimarranno frustrate, soprattutto a causa dell’interferenza delle questioni internazionali e dei mutevoli piani napoleonici sulla vicenda sarda. I Savoia per altro si rifugiarono armi e bagagli in Sardegna nel 1799, quando il Piemonte fu occupato dalla Francia. Non mostrarono mai particolare gratitudine, per questa ospitalità, pure pagata dal bilancio del regno sardo a carissimo prezzo. La corte sabauda lascerà l’isola solo nel 1814.

La rivoluzione sarda fu sconfitta. Non la prima né l’ultima rivoluzione che mancò i suoi obiettivi. Ma, nonostante la sconfitta, quello rivoluzionario resta un momento nodale della storia dell’isola. Dalla reazione a quel tentativo di cambiamento politico radicale emergerà la Sardegna contemporanea, con molti dei suoi problemi strutturali già chiaramente delineati fin dal principio dell’Ottocento. Soprattutto la relazione tra la classe dirigente locale – quella rimasta fedele a Casa Savoia – e il centro del potere esterno da cui dipendevano le sorti della Sardegna sarà paradigmatica di un assetto politico che, mutatis mutandis, resterà sostanzialmente molto simile fino ai nostri giorni. Una classe dirigente locale votata a un ruolo di intermediazione tra gli interessi e i piani del centro del potere legittimo esterno e la realtà dell’isola, certamente con indubbi guadagni e privilegi per sé.

La Sardegna fu consegnata allora a un destino di subalternità e di impoverimento che scandalizzavano persino alcuni osservatori contemporanei, come il console francese nell’isola nella sua relazione del 1816 (riportata da Fernand Braudel: non ne troverete traccia in alcun libro di storia italiano o sardo). Una terra “al centro della civiltà europea” lasciata languire e ove possibile depredata. Alcune riforme furono decise negli anni della Restaurazione come misure calate dall’alto e come generose concessioni, senza alcun vero spirito innovatore. Una, nel 1820, fu l’editto “sopra le chiudende”, che stabiliva la possibilità di appropriarsi privatamente di qualsiasi porzione di territorio fosse stato “chiuso”, un po’ sulla scorta delle enclosure inglesi del XVII secolo. Tale misura, che fece sentire i suoi effetti soprattutto nel decennio successivo, comportò un profondo mutamento nel regime fondiario che si tradusse in una traumatica transizione economica a danno dei ceti popolari. Una delle prime “modernizzazioni” passive cui la Sardegna da allora è stata sottoposta, sempre con promesse di progresso e benessere seguite da clamorose delusioni. Nel 1827 fu abrogata la Carta de Logu, raccolta legislativa varata nel 1392 da Eleonora d’Arborea e rimasta in vigore nei secoli del Regno di Sardegna spagnolo e poi sabaudo, con la promulgazione del nuovo codice civile. Tra 1836 e 1839, con diversi editti, fu abolito il regime feudale, facendone pagare il prezzo, sotto forma di indennizzi ai baroni, alle stesse popolazioni che lo avevano subito fino allora.

Il malcontento delle classi popolari verso i Piemontesi restò sempre vivo, emergendo a fasi alterne. Ancora a distanza di mezzo secolo dal triennio rivoluzionario, quando la Sardegna fu di nuovo in fermento per l’aspettativa di riforme, tra 1847 e 1848, la preoccupazione dell’amministrazione sabauda fu che potesse esplodere un “nuovo novantaquattro”, come scrisse in una sua relazione al governo Carlo Baudi di Vesme (intellettuale ed erudito, direttore delle miniere di Iglesias). La diffidenza dei Savoia e in generale della classe dirigente piemontese verso i sardi non venne mai meno. Una parte della classe dirigente isolana negli stessi mesi richiese la “fusione” politica e giuridica tra la Sardegna e i possedimenti sabaudi di terraferma. Fino a questo momento il Regno di Sardegna propriamente detto era appunto la Sardegna. I Savoia ne detenevano la corona, ma avevano tenuto ben distinti giuridicamente e amministrativamente dall’isola i propri possedimenti dinastici sulla terraferma. La “fusione” fu un passaggio irrituale e senza alcuna copertura legale, che tuttavia il re Carlo Alberto approvò proprio per tacitare i movimenti di protesta diffusi nell’isola. Le proteste tuttavia non cessarono, tanto che il re dovette nominare un commissario militare straordinario per sedare il movimento popolare e riportare l’ordine. Lo stesso gruppo sociale che aveva richiesto la fusione si accorse ben presto di aver fatto un pessimo affare.

La fine del plurisecolare Regno di Sardegna, delle sue leggi, delle sue istituzioni, sancito ulteriormente con la concessione dello Statuto albertino nel 1848, non comportò alcun vantaggio. Anzi, l’estensione del catasto e del regime fiscale piemontese all’isola provocò conseguenze drammatiche a livello socio-economico. L’unificazione italiana, di lì a pochi anni, consacrò la definitiva riduzione della Sardegna a porzione oltremarina, marginale e periferica del nuovo stato. Da qui in poi inizierà la “questione sarda” e nasceranno e si svilupperanno nel tempo il pensiero autonomista e quello indipendentista.

La vicenda rivoluzionaria sarda ha sempre rappresentato un problema, per la classe dirigente sarda, compresa quella intellettuale. Poche le voci che la rievocheranno, nel corso dei decenni tra Otto e Novecento. Due in particolare: il poeta Sebastiano Satta e Antonio Gramsci. Resteranno eccezioni.

Dopo l’unificazione italiana, a parte qualche raro esempio e qualche pubblicazione occasionale, per avere una trattazione storiografica organica ed esaustiva sul periodo sabaudo e sulla rivoluzione sarda bisognerà attendere il 1984, a quasi due secoli dai fatti. In particolare sarà lo storico Girolamo Sotgiu, nel suo Storia della Sardegna sabauda, a ricostruire nei dettagli e chiarire nei suoi aspetti fattuali e nei suoi contorni politici, l’intera vicenda. Non senza l’ammonimento sul possibile uso politico della conoscenza di quei fatti. Uno strano ammonimento, in un testo storico. Non deve stupire. Ancora oggi, a leggere i documenti e le testimonianze dell’epoca (come l’inno Su patriota sardu a sos feudatàrios, la “marsigliese” sarda), la rivoluzione sarda, rievocata nella giornata del 28 aprile, ci chiama in causa e ci pone domande. Troppe cose di quel tempo suonano ancora oggi troppo familiari, per non indurre riflessioni critiche sul nostro passato recente e sul nostro presente. Per questo la ricorrenza del 28 aprile, dopo i primissimi anni di celebrazioni pubbliche, con grande concorso di folla e notevole partecipazione emotiva (ne esistono in rete testimonianze video), è stata ridimensionata e oscurata dalle stesse istituzioni autonomiste.

Gli studi in proposito, dopo l’insuperato lavoro di Girolamo Sotgiu, sono stati limitati e la narrazione su quel periodo stereotipata e riduttiva. Non è solo un fatto di sciatteria culturale e politica. È del tutto comprensibile che per la classe dirigente sarda di oggi suoni minaccioso l’esempio di una classe dirigente diversa, di un ceto politico e intellettuale che non perseguì il proprio esclusivo interesse egoistico né si limitò a elaborare astrattamente principi e obiettivi virtuosi, ma se ne fece portatore attivo presso i ceti popolari, mettendosi in gioco nel tentativo coraggioso, anche a costo della vita, di mutare in meglio le sorti della Sardegna.

Ultimamente l’associazione ANS (Assemblea Natzionale Sarda), che ha come obiettivo la crescita culturale, civile e democratica dell’isola, ha assunto il compito di rilanciare la celebrazione di Sa Die e lo fa ormai da alcuni anni, senza alcun finanziamento pubblico e contando solo sul lavoro volontario dei propri associati e sul sostegno di alcuni sponsor privati. I risultati sono buoni e in crescendo. La sensibilità su questi temi e la sete di conoscenza storica sono molto forti in Sardegna, trasversalmente alle condizioni anagrafiche e sociali, a dispetto della noncuranza delle istituzioni e delle difficoltà a far entrare la storia e la cultura della Sardegna nella scuola italiana.

Il rilancio della festa del 28 aprile non è solo una questione nostalgica, una rivendicazione revanscista. È invece la doverosa riappropriazione di un momento storico decisivo, della cui conoscenza l’opinione pubblica sarda e internazionale è stata a lungo privata, ed è un momento di riflessione politica democratica ed emancipativa, di cui l’isola ha assoluto bisogno.

Intervento di Omar Onnis (scrittore, studioso, autore di https://sardegnamondo.eu/) per il Forum 2043 - Cagliari, 29 aprile 2025

 

Note

L'immagine a corredo dell'intervento è tratta da https://www.regione.sardegna.it/notizie/sa-die-de-sa-sardigna-il-28-aprile-spettacolo-a-cagliari

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Sette sfide dal nostro Sud per il bene di tutta Europa

Rilanciamo qui le sette sfide di emancipazione e riscatto, nel Sud, in Europa, per tutti, che sono state elaborate da Melfi 2023:

1) una nuova generazione di severe leggi europee antitrust, contro i giganti;

2) ritorno alla gestione locale autonoma di beni comuni e servizi pubblici essenziali, contro le multiutility;

3) rendere più elastico e accessibile il credito, anche alle famiglie e alle piccole imprese (i giganti fanno già ora quello che vogliono), anche ponendo fine al risiko bancario e tornando a favorire l'esistenza di istituti bancari locali noprofit;

4) la drastica semplificazione degli adempimenti richiesti alle medie, piccole e piccolissime imprese, imprese sociali e startup;

5) la critica radicale alla ZES unificata, che vediamo come un nuovo vicereame;

6) confronto con la BCE perché in regioni diverse possano vigere tassi d’interesse diversi, perché l’economia di una regione più povera non può sopportare lo stesso tasso di una regione ricca (petizione europea 941/2018 primo firmatario Canio Trione);

7) messa in discussione radicale del dogma della "competitività" fra territori, che genera inesorabilmente pochi vincenti e lo spopolamento e l'impoverimento di tutti i territori "perdenti".

 

Melfi, 22 novembre 2023 (Santa Cecilia)

Dopo l’incontro di Melfi 2023 (27/10/2023), cittadini, attivisti, studiosi, amministratori del Sud, insieme al Patto Autonomie e Ambiente e all’Alleanza Libera Europea (European Free Alliance), ispirati dai valori della Charta di Melfi 2019, dai principi anticolonialisti e internazionalisti della Carta di Algeri 1976, dall’autonomismo e dal confederalismo europeo della Carta di Chivasso 1943, hanno riaffermato i’impegno per una Europa di popoli, regioni e territori, dove si realizzino riscatto economico e sociale con riforme economiche a vantaggio di molti e non di pochi; per la ricostruzione della democrazia contro il centralismo autoritario e i suoi strumenti di sorveglianza universale; per la protezione delle tradizioni e delle identità locali; per la salvaguardia dell’ambiente e di tutti i beni comuni che vogliamo consegnare intatti alle generazioni future.

1 Vogliamo essere presenti in Europa, con nostri rappresentanti, non per piàtire aiuti o fondi, ma per pretendere riforme, che sono l’unica vera alternativa al declino, allo spopolamento, alla distruzione ambientale, alla cancellazione delle nostre identità: è tempo di una nuova stagione di lotta antitrust, ben più radicale di qualsiasi altra che sia stata realizzata sin qui nella storia del capitalismo, contro tutte le concentrazioni di potere economico, industriale e finanziario; i giganti della globalizzazione, con il loro capitalismo massificante, autoritario, predittivo e induttivo dei comportamenti – e non più solo dei consumi materiali - sono incompatibili con la democrazia e con il bene comune locale, europeo e globale.

2 Vogliamo impegnarci per restituire sovranità alle comunità locali e ai territori, a partire dal potere di organizzare e gestire in proprio servizi pubbliciuniversali eamministrazione dei beni comuni, che devono essere sottratti alle c.d. multiutility e alle concentrazioni di potere finanziario; in ogni bioregione vogliamo il maggior decentramento possibile e lo spezzettamento dei gestori dell’acqua pubblica e degli altri monopoli naturali in compagnie pubbliche locali, sotto il controllo dei cittadini residenti, che ne sono sovrani, non meri utenti o consumatori.

3 La parabola storica del risiko bancario è giunta, nella Repubblica italiana e nell’Unione Europea, alle estreme conseguenze, producendo posizioni dominanti incontrollabili, elite chiuse in bolle di lusso e di potere, non più al servizio delle persone, delle imprese, delle comunità: un fallimento epocale a cui dobbiamo porre urgentemente rimedio con norme severe anti-concentrazione, con la conservazione e quando necessario con il ripristino di una rete diffusa di banche locali noprofit, votate a consentire a tutti ciò che attualmente è possibile solo agli stati e ai potenti: ottenere prestiti a condizioni non solo favorevoli, ma soprattutto elastiche (si ricordano, a titolo di esempio, le lotte di Canio Trione e altri per consentire il pagamento d’interessi senza restituzione del capitale).

4 Il fallimento storico e ripetuto di ogni tentativo di semplificazione fiscale ha origine in una drammatica dissonanza cognitiva che impedisce di vedere la realtà con realismo ed equità: non si possono trattare con le stesse regole fiscali attività lavorative e imprenditoriali di scala diversa, in condizioni diverse, su territori diversi; nella dimensione piccola, limitata nello spazio e magari anche nel tempo, deve esistere la possibilità di iniziare una attività imprenditoriale o di fornire una prestazione lavorativa, senza commercialisti, senza consulenti del lavoro, senza adempimenti burocratici, senza richiesta di autorizzazioni preventive, senza obblighi di esercitare funzioni come il sostituto d’imposta; medie, piccole e piccolissime imprese, startup, attività temporanee o stagionali, botteghe e laboratori in zone marginali e spopolate, realtà noprofit, imprese sociali tese all'inclusione di fragili e diversamente abili, laboratori familiari, amicali, vicinali, hanno diritto a essere trattati in modo radicalmente diverso dalle grandi aziende; fermo restando che tutti devono rispettare norme ambientali e di sicurezza, è solo nel tempo e nell'incremento delle dimensioni, quando e se un’attività ha avuto successo, che possono trovare giustificazione maggiori oneri normativi e fiscali.

5 Quando le autorità del centralismo italiano ed europeo parlano di “Sud” come di una realtà unitaria, i popoli del Meridione e delle isole possono tranquillamente aspettarsi altre ingiustizie, quindi rifiutiamo radicalmente il nuovo vicereame ZES (Zona economica speciale unitaria per il Sud, la Sicilia, la Sardegna); non ci sono ricette centraliste, grandi progetti, opere faraoniche che possano risolvere i problemi dei nostri diversi territori; anzi, questi interventi di solito favoriscono le grandi imprese costruttrici del Nord, ulteriore penetrazione dei prodotti del Nord o delle multinazionali, orge di ferro e cemento come il Ponte di Messina, quindi ulteriori perdite di buona terra, paesaggio e identità; la ZES centralista sarà, nella migliore delle ipotesi una riedizione delle chiacchiere, dei luoghi comuni, dell’assistenzialismo, nella peggiore un meccanismo che finirà per impoverirci e spopolarci ancora di più.

6 Non ci sottraiamo al risalente e complesso dibattito sui difetti intrinseci e strutturali di un’area valutaria forte ma non ottimale come l’Eurozona, ma vogliamo soprattutto cominciare a introdurre dei sollievi concreti, a partire dal rendere possibile che in regioni diverse possano vigere tassi d’interesse diversi; l’economia di una regione più povera non può sopportare lo stesso tasso di una regione ricca (petizione europea 941/2018 primo firmatario Canio Trione); lo statuto BCE e le attuali norme europee vanno rispettate, ma riportando ragionevolezza perché senza articolare nei territori (non stato per stato, ma territorio per territorio) una azione mirata contro i diversi tassi di inflazione e disoccupazione, la sostenibilità dell’Euro verrà meno.

7 L’esperienza meridionale della brutale unificazione italiana, gli squilibri registrati nella creazione del mercato europeo unificato, il commercio globale di merci-spazzatura prodotte sfruttando le persone e l’ambiente, sono lezioni che dovrebbero essere state apprese: il futuro dei territori che appartengono a un mercato comune non può essere ridotto a una continua competizione, che genera inevitabilmente aree perdenti, che si spopolano e s’impoveriscono, a vantaggio di poche capitali economiche vincenti; si deve invece favorire in ogni territorio una economia locale che abbia una solidità intrinseca e duratura; continuare come oggi, con regole assurdamente uguali per tutti, porterà solo a forme sempre più grevi di centralismo autoritario per assicurare continue, sempre più copiose – e fortemente impopolari - richieste di trasferimenti dai territori più favoriti a quelli che invece restano marginali.

I disastri di Cutro, di Caivano e quello di Brandizzo - in cui vicino alla cara Chivasso sono morti dei fratelli meridionali - non si affrontano con la calata da Roma di presidenti, ministri, sottosegretari, commissari straordinari, prefetti; è tempo di coraggio e di rivolta contro centralisti, chiacchieroni ritinti di verde o rossoverde, populisti, nazionalisti, ciarlatani che si candidano come “sindaci d’Italia” con il retropensiero di poterne diventare “podestà”; ciò che siamo, il meglio di ciò che abbiamo ereditato, il nostro patrimonio ambientale e culturale, è nato dall’ardimento di comunità che si autogovernavano, che rischiavano e che, con sacrificio, qualche volta realizzavano; seguendo le orme dei nostri antenati, impegniamoci per far sorgere una nuova generazione di imprenditori e creativi, esperti e studiosi, leader locali affezionati alla propria terra, amministratori coraggiosi e indipendenti, legislatori audacemente innovatori.

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Per contatti e approfondimenti:

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Si può battere il presidenzialismo!

La Turchia al voto, domani 14 maggio 2023. Grazie all'alleanza di tutte le opposizioni, i popoli di Istanbul e dell'Anatolia possono battere il presidenzialismo, il centralismo, l'autoritarismo, con tutti i veleni che essi hanno liberato nella repubblica turca. La lunga marcia delle minoranze linguistiche, culturali, religiose, sociali, verso lo stato di diritto e per il ripristino delle autonomie personali, sociali, territoriali, domani farà un decisivo passo in avanti.

Al Partito Democratico dei Popoli (HDP), partito amico nostro e di tutta l'Alleanza Libera Europea (EFA), il partito dei Curdi e dei Turchi democratici e autonomisti, degli Armeni e delle altre minoranze, dei giovani e delle donne, delle comunità di cittadinanza attiva nelle maggiori città, riconosciamo di essere stato capace di disseminare cultura politica, valori civili, speranza di emancipazione per gli oppressi. A causa delle vessazioni subite dal blocco di potere del presidente Erdogan, l'HDP partecipa a queste elezioni con una nuova sigla: Partito della Sinistra Verde (YSP), ma la sostanza non cambia e tutto lascia pensare che sarà più decisivo che mai.

Riconosciamo al dott. Kemal Kılıçdaroğlu , il candidato unitario delle opposizioni alla presidenza della repubblica turca, presidente delPartito Popolare Repubblicano, di origine curda e di religione alevita, già protagonista della marcia per la giustizia del 2017, quando il potere di Erdogan era al massimo, di essere stato un umile e fermo portavoce di una svolta verso le libertà e la giustizia.

Dopo il pacifico rovesciamento di Erdogan, ci aspettiamo una transizione rapida: l'amnistia per tutti i prigionieri politici, l'abolizione del presidenzialismo, il ritorno in carica di tutti i sindaci deposti, la cancellazione delle leggi contro le diversità linguistiche e culturali, il ritorno degli esiliati, il reintegro dei professori e dei funzionari che furono licenziati con la grande caccia alle streghe seguita al tentato "golpe" del 2016.

E sarà solo l'inizio di una stagione nuova per quel grande e stupendo angolo del mondo, a cavallo fra Europa e Asia.

A cura della segreteria - Firenze, 13 maggio 2023

 

POST SCRIPTUM dopo due settimane - Firenze 28 maggio 2023

Selahattin Demirtaş, il leader del Partito Democratico dei Popoli (HDP), dalla prigione in cui è rinchiuso, ha offerto un commento a caldo dopo che si sono consolidati i risultati del ballottaggio in Turchia. Erdogan ha faticato ma ha vinto ancora, purtroppo.

Non sono state solo "elezioni", ma uno scontro fra coloro che sono fedeli al sistema Erdogan contro tutti gli altri. La relativa correttezza della raccolta dei voti non cancella la disparità mediatica, economica, di agibilità politica. Non si può dimenticare quante persone che hanno criticato questo ventennio sono in esilio, in prigione, o comunque perseguitate dai giudici del regime.

Demirtaş ha messo in luce la sostanziale disparità del campo di gioco, ma in cui comunque era necessario scendere, in modo intelligente, pragmatico, serio.

Demirtaş ha infine fatto appello alla perseveranza e alla resistenza. La lotta nonviolenta per una migliore repubblica per Istanbul, Smirne, l'Anatolia, i Curdi del Bakur, va avanti, con nonviolenza e amore.

Approfondimento:

https://medyanews.net/kurdish-politician-defies-defeat-calls-for-undeterred-fight-for-democracy/ 

 

Siciliani votate per Siciliani Liberi

 

 

 

The Siciliani Liberi (Free Sicilians) political movement, SL, represents a decent, ancient, profound anti-colonialism of the largest island in the Mediterranean.

SL is the voice of those who resist decades of internal colonialism, depopulation, resource extraction, a scary decline for which Italian State’s centralism is responsible.

SL is the choice of those who demand a return to the letter of the Statute, which established a full self-government status of Sicily.

SL is the political tent of those who intend to work, with competence, moderation, realism, for a local economy capable of full water, food and energy self-sufficiency, as well as for the protection of the Sicilian environment and culture for future generations.

SL is the political umbrella for all citizens who still believe in personal, social and territorial autonomies, after having rejected the excesses of authoritarian centralism and, in particular, the infamous “greenpass”
(a sinister foretaste of universal surveillance and discrimination).

Sicilians, do not let yourself be gaslighted either by long-time politicians or by void, populist, centralist slogans.

Do not waste your vote!

Now it is time to vote

 

Il movimento politico Siciliani Liberi, SL, rappresenta un dignitoso, antico, profondo anticolonialismo dell'isola più grande del Mediterraneo.

SL è la voce di chi resiste a decenni di colonialismo interno, spopolamento, estrazione di risorse, un pauroso declino di cui è responsabile il centralismo dello Stato italiano.

SL è la scelta di chi pretende un ritorno alla lettera dello Statuto, che sanciva un pieno status di autogoverno della Sicilia.

 SL è la tenda politica di chi intende operare, con competenza, moderazione, realismo, per un'economia locale capace di piena autosufficienza idrica, alimentare ed energetica, nonché per la tutela dell'ambiente e della cultura siciliana per le generazioni future.

SL è l'ombrello politico per tutti i cittadini che credono ancora nelle autonomie personali, sociali e territoriali, dopo aver rifiutato gli eccessi del centralismo autoritario e, in particolare, il famigerato “greenpass” (un sinistro assaggio di sorveglianza e discriminazione universali).


Siciliani, non fatevi abbagliare né da politici di lungo corso, né da slogan vuoti, populisti, centralisti.


Non sprecate il vostro voto!

Ora è tempo di votare

SICILIANI LIBERI

https://www.sicilianiliberi.org/
Candidata presidente: Eliana Esposito - https://twitter.com/ElianaEspositoS
Candidato vicepresidente: Massimo Costa - https://t.me/massimo_costa

Per sostenere la campagna di Siciliani Liberi per le elezioni regionali 25/09/2022
DONATE: IBAN IT19K0623004609000015386713

 

 

Solidarietà a Clara Ponsati e a tutti gli esiliati

Molti se n'erano dimenticati e qualcuno sperava che la questione tornasse d'attualità il più tardi possibile, ma le elezioni spagnole ed europee non sono più lontane e l'elefante è lì in cristalleria.

Clara Ponsati, già ministro del governo presieduto da Carles Puigdemont ai tempi del referendum dell'indipendenza catalana del 1 ottobre 2017, perseguitata da allora insieme allo stesso presidente e a molti altri, è stata arrestata, sia pure per poco, al suo primo ritorno in patria dopo cinque anni di esilio. Questi arresti di indipendentisti catalani, peraltro, non sono più una novità, grazie alle pesanti barbariche falle giuridiche del sistema dei mandati di arresto europeo.

La questione, nel suo caso, è ancora più grave, come lo è stata in passato per l'arresto o il tentato arresto di altri esponenti che, come lei sono eurodeputati.

La professoressa Clara Ponsati lavora all'università di St. Andrews come economista (l'università è la più antica e una delle più prestigiose della Scozia).

E' stata eletta nel 2019 come eurodeputata nella lista degli indipendentisti moderati, centristi e civici di https://it.wikipedia.org/wiki/Junts_per_Catalunya_(coalizione).

A lei e a tutti gli altri esiliati e perseguitati catalani la nostra totale solidarietà.

Il Regno di Spagna e l'Unione Europea, a nostro parere, dovrebbero affrontare la questione catalana in modo più energico di quanto è stato fatto finora, sia pure meritoriamente, attraverso il dialogo fra il governo di Madrid e il governo catalano.

Occorre il coraggio di pronunciare la parola AMNISTIA, per gli indipendentisti catalani e non solo per loro, in questo tempo in cui l'autoritarismo e il centralismo degli stati sono più pericolosi che mai.

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La solidarietà di EFA (la nostra Alleanza Libera Europea) con Clara Ponsati: https://twitter.com/EFAparty/status/1640782614746243083?s=20

Un precedente intervento di Autonomie e Ambiente sull'amnistia 

La foto di corredo al post è un ritaglio dalla prima pagina web di  https://www.publico.es/

 

Solidarietà con gli innamorati d'Iran

Udine, 16 novembre 2022 - Autonomie e Ambiente esprime la propria solidarietà con la protesta popolare nonviolenta che sta attraversando ormai da oltre due mesi lo stato dell'Iran, al grido di "donna, vita, libertà" (Zhen, Zhian, Azadi - in persiano; Jin, Jiyan, Azadi - in curdo). La rivolta dei giovani e delle donne di questo autunno è esplosa a seguito della terribile vicenda della giovane curda Mahsa Amini.

Esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per la scarsa eco che questa ribellione sta avendo nella politica e nei media italiani, con poche lodevoli eccezioni, fra le quali le iniziative del Partito Radicale Transnazionale.

Nel campo dell'informazione segnaliamo lo straordinario lavoro svolto dal giornalista Mariano Giustino, corrispondente da Istanbul di Radio Radicale.

Lo stato dell'Iran e lo stato italiano sono uniti da rapporti amichevoli di vecchia data, oltre che da importanti legami economici (come è stato dimostrato una volta di più dalla recente liberazione di una turista italiana che era stata arrestata in coincidenza con l'esplosione delle proteste), ma questo non dovrebbe impedire, ma piuttosto consentire più incisive azioni di solidarietà con le vittime della repressione e con le istanze popolari.

Lo stato dell'Iran deve tornare a essere una repubblica per tutti gli Iraniani, ai quali devono essere restituite più ampie autonomie personali, sociali e territoriali.

Tutti gli Iraniani sono stanchi degli aspetti più deteriori del regime. Noi, per il nostro impegno per l'autogoverno di tutti dappertutto, non possiamo dimenticare che la repressione degli ambienti clericali più retrivi e corrotti e delle loro squadracce paramilitari (i criminali Basiji delle cosiddette "Guardie Rivoluzionarie"), colpisce più duramente nel nord il popolo curdo del territorio del Rohilat (il Kurdistan d'Iran) e nel sud il popolo baluchi della provincia del Sistan-Baluchistan.

Come ha scritto Mariano Giustino, questa rivoluzione vincerà e cambierà il volto dello stato e, considerate le dimensioni, l'importanza e l'influenza dell'Iran, cambierà profondamente anche la storia del Medio Oriente, del Levante, dei rapporti fra Occidente e Persia, del mondo intero.

La rivolta potrebbe vincere, perché è fondata sull'amore: gli Iraniani si ribellano cantando, ballando, baciandosi per strada, non solo bruciando il velo (lo Hijab) o gridando slogan politici contro il dittatore Khamenei e gli aspetti più repressivi del regime d'ispirazione islamica scita conservatrice.

https://www.facebook.com/AutonomieeAmbienteUfficiale/posts/pfbid02owz62N831HEHfKs6q8NkNKmrjtMttwqYdvaVUn7jdAzmHxLmMgQ8KYxoQnaZxn6sl

 

 

 

Solidarietà con l'Artsakh

A poco più di un anno dalla tregua che ha congelato l'ultimo grave conflitto azero-armeno, dopo un lungo e disumano blocco dell'enclave armena dell'Artsakh nei territori contesi del Nagorno-Karabakh, il cessate il fuoco è stato violato da un pesante attacco azero contro la capitale della regione, Stepanakert.

Non ci è possibile qui entrare nella complessità e nell'antichità di questa contesa territoriale fra Armenia e Azerbaijan. Tuttavia, siamo fermi sulla nostra posizione di assoluto rifiuto di conquiste e riconquiste, che sono foriere di deportazioni, pulizie etniche, aggravementi e prolungamenti di inimicizie e crisi.

Esprimiamo solidarietà al piccolo popolo della Repubblica dell'Artsakh, che è rappresentato nella nostra Alleanza Libera Europea (European Free Alliance, EFA) dal Partito Democratico dell'Artsakh (http://www.dpa.am/).

Invochiamo l'intervento delle autorità europee e internazionali perché si torni al più presto al cessate il fuoco e si ponga fine al disumano blocco dell'Artsakh imposto dai rigurgiti nazionalisti azeri.

Roma, 19 settembre 2023 - a cura della segreteria interterritoriale

 

Un maestro occitano a Firenze

  • Autore: Alessandro Michelucci - Firenze, 9 maggio 2023

Grazie ad Alessandro Michelucci, un giornalista fiorentino che si occupa da una vita di popoli minacciati, culture a rischio di cancellazione, minoranze oppresse, recuperiamo la memoria di Robert Lafont, un maestro della cultura occitana e un ispiratore di una "rivoluzione regionalista" che riguarda tutti i territori che vivono in stati troppo grandi e troppo centralisti. L'articolo di Michelucci riprende una sua pagina pubblicata sul numero 484 del 18 marzo 2023 di "Cultura Commestibile", rivista fiorentina di Maschietto Editore, in occasione del centenario della nascita di Lafont. E' un'altra occasione per rafforzare le radici del nostro impegno contro il centralismo, in Francia, in Italia, in tutti gli stati, che noi, come Lafont, vediamo come un vero e proprio colonialismo interno. Il nostro impegno per restituire autogoverno a tutti i territori, come sosteneva il maestro occitano, non si esaurisce in un impegno per la "decentralizzazione". Semmai, la nostra, è una rivoluzione decentralista ed è per noi il modo migliore per celebrare l'odierna giornata dell'Europa.

Firenze, 9 maggio 2023

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Robert Lafont, maestro occitano

Secondo uno stereotipo radicato, la Francia sarebbe la patria dei diritti umani, della democrazia e della libertà. A nulla vale ricordare che questa repubblica è nata mettendo al bando le lingue diverse dal francese e annettendo un'isola vicina (la Corsica). A nulla vale ricordare che ha combattuto sette anni per non perdere l'ultima colonia importante (l'Algeria) e che pratica tuttora un centralismo anacronistico negando i diritti delle sue numerose minoranze linguistiche (Alsaziani, Baschi, Bretoni, Catalani, Corsi, Fiamminghi e Occitani). Chi si ostina a vedere nella Francia un faro di libertà, quindi, dovrebbe ascoltare la voce delle figure politiche e intellettuali che hanno toccato con mano una realtà molto diversa dagli stereotipi suddetti. Uno dei più lucidi è stato Robert Lafont, nato a Nîmes il 16 marzo di cento anni fa e deceduto a Firenze nel 2009. Qui aveva vissuto a partire dal 1984, pur dividendosi fra il capoluogo toscano e Montpellier.

Lafont è stato il più importante intellettuale che la cultura occitana abbia espresso nella seconda parte del ventesimo secolo. Ma dato che oggi il termineoccitano può generare un equivoco, è necessario un chiarimento.L'Occitania ammnistrativa, nata con la la riforma territoriale del 2016, si estende per 72000 kmq e include alcune città di rilievo della Francia meridionale, fra le quali Montpellier, Nîmes e Tolosa. Questa coincide solo in parte conla regione storico-linguistica dell'Occitania, grande quasi il triplo, che rappresenta un caso emblematico di nazione senza stato.Per molti questa cultura è legata a qualche pallido ricordo scolastico: la lingua d'oc, i trovatori provenzali, lo sterminio dei Catari. Ma esistono anche tappe più vicine a noi: basti pensare a Frédéric Mistral (1830-1914), il poeta provenzale che nel 1904 ricevette il Premio Nobel per la letteratura.

In questa storia si inserisce a pieno titoloRobert Lafont, poeta e romanziere, drammaturgo e linguista, anticipatore dei movimenti no-global (quelli che in Francia vengono chiamatialtermondialistes), lucido critico del centralismo francese e paladino di una Francia federale.

Nel 1945 Lafont è fra i fondatori dell'Institut d'estudis Occitans (IEO), che dirige a più riprese negli anni successivi. L'anno successivo, insieme ad altri, fondaL'ase negre (Il mulo), la prima rivista occitanista del dopoguerra.Quello che bisogna sottolineare con forza, comunque, è che l'attenzione alle questioni regionali non ha niente a che fare col passatismo o col ripiegamento folklorico: per lui l'area occitana non deve essere "riserva etnografica e linguistica, ma una terra viva e pulsante", scrive nel 1955 sulla rivistaOc. Lafont rifiuta senza mezzi termini il micronazionalismo difeso da altri esponenti del variegato movimento occitano. Propone invece un socialismo originale, basato sull'autogestione e sul decentramento.

In opere di rilievo centrale, comeLa révolution régionaliste (1967),Sur la France (Gallimard, 1968) eDécoloniser en France (Gallimard, 1971), espone il concetto di colonialismo interno:

"Per noi questa espressione, non colonialismotout court, ma colonialismo interno, non è né un facile vessillo di rivolta, né un modo per attirare l'attenzione mediatica. È l'espressione più adatta che abbiamo trovato per definire una serie di processi economici di cui il sottosviluppo regionale è l'involucro visibile" (La révolution régionaliste).

Questa teoria influenza fortemente le lotte nazionalitarie che si stanno sviluppando in altre regioni europee, come la Bretagna, la Catalogna e la Scozia. Una tesi che verrà ripresa da altri studiosi, fra i quali il fiorentino Sergio Salvi (Le nazioni proibite. Guida a dieci colonie "interne" dell'Europa occidentale,Vallecchi, 1973).

Parallelamente Lafont prosegue il forte impegno in difesa della cultura occitana, attestato da libri comeClefs pour l'Occitanie (Seghers, 1971),Lettre ouverte aux français d'un occitan (Albin Michel, 1973) e La revendication occitane (Flammarion, 1974).

Negli stessi anni partecipa alle imponenti proteste contadine del Larzac, un'area rurale minacciata dall'ampliamento di una base militare, che si risolvono positivamente.

Passano quindi molti anni segnati dall'impegno accademico (insegna all'Università Paul-Valéry di Montpellier) e dalla scrittura, con opere che spaziano dal romanzo alla poesia, dal teatro alla linguistica. Ma la fiamma dell'impegno politico non si spenge mai. Infatti torna a manifestarsi nel 2003, quando Lafont partecipa attivamente al convegnoGardarem la terra. In quella occasione lo studioso legge il manifesto politico che lui stesso ha redatto. Il convegno si richiama apertamente ai moti popolari degli anni Settanta (la grande protesta del Larzac) e ne attualizza lo spirito.

La vita di Robert Lafont è stata un meraviglioso mosaico di esperienze politiche e culturali che si sono intrecciate fra loro con la massima coerenza. Lo studioso occitano è stato un uomo di grande cultura, ma non è mai rimasto chiuso in una torre d'avorio. Radicale ma mai velletario, ci lascia un'eredità ideale di enorme valore, secondo la quale la difesa della diversità culturale non potrà mai accettare che la vita venga ridotta a merce.

Alessandro Michelucci

 

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