AeA ai movimenti della Sardegna

Recentemente Autonomie e Ambiente (AeA) ha inviato un messaggio politico alle forze territoriali impegnate per il pieno autogoverno della Sardegna. Lo abbiamo fatto, insieme a ALE-EFA (European Free Alliance), inviando al VI Congresso di ProgReS, tenutosi il 10 luglio 2021, ad Aritzo, come osservatrice, Silvia Lidia Fancello (che è anche rappresentante personale in Sardegna della presidente EFA, Lorena López de Lacalle). Ne pubblichiamo una sintesi.

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Autonomie e Ambiente è  l’organismo politico che EFA, la nostra famiglia politica europea, ha scelto come interlocutore privilegiato nel sistema politico italiano. Coordina i movimenti autonomisti, indipendentisti, identitari, territorialisti, localisti, civici e ambientalisti attivi nella Repubblica Italiana.

AeA sta dialogando con diverse forze politiche sarde ed è aperta a tutte quelle che abbiano la volontà e le forze per partecipare a un cambiamento politico dello stato italiano in senso decentralista, oltre che per la piena attuazione dell'autonomia speciale sarda, in modo da porre le premesse per il pieno autogoverno della nazione sarda.

"Entrare in AeA ed EFA è un’opportunità che può permettere di essere protagonisti o quanto meno spettatori privilegiati in Europa, passando attraverso la porta principale e non come ruota di scorta dimenticata, dell’Italia"  - ha dichiarato, tra l'altro, Silvia Lidia Fancello ad Aritzo.

AeA lavora, non solo in Sardegna, per una feconda collaborazione fra indipendentisti, autonomisti, identitari, federalisti e più in generale fra tutti coloro che lottano per l'autogoverno dei propri territori.

L'autogoverno,  ha ricordato infine Silvia Lidia Fancello, va costruito attraverso una seria autocritica rispetto alle occasioni perse, con progetti innovativi, azioni concrete, partecipazione popolare, coalizioni larghe e durature.

A innantis.

 

 

Autodeterminazione e democrazia, una via d'uscita dalla crisi

Autore: Omar Onnis, attivista per l'autodeterminazione della Sardegna - 10 dicembre 2022

Autodeterminazione come ricerca di un autogoverno democratico pienamente inclusivo e capace di emancipazione. Un contributo ai lavori del Forum 2043 di Omar Onnis, attivista per l’autodeterminazione della Sardegna, scrittore, blogger di Sardegna Mondo (https://sardegnamondo.eu/).

Uno sguardo alla situazione globale

La dialettica tra autonomia e centralismo e tra autodeterminazione dei popoli e stati-nazione si dispiega oggi in uno scenario in transizione, assai diverso da quello del XX secolo. Lungo o breve che sia stato, il XX secolo è finito. Oggi ne scontiamo gli esiti e soprattutto paghiamo l’inerzia delle strutture politiche e socio-economiche che abbiamo ereditato, senza aver ancora a disposizione delle alternative pronte all’uso.

Lo stato-nazione di matrice europea ha avuto una parte significativa nella storia del mondo degli ultimi due secoli. Sia per chi l’ha vissuta da protagonista, sia per chi l’ha subita. Lo sviluppo del capitalismo, il colonialismo, la connessa divisione dell’umanità in razze poste in rapporto gerarchico tra di loro, i nazionalismi, i dogmatismi teorici e i fanatismi ideologici e religiosi: tutto questo è un retaggio che l’Europa e la cultura europea in senso lato hanno consegnato al mondo direttamente o indirettamente, e da cui il mondo, oggi è ancora pesantemente condizionato.

Le ripetute crisi di questi anni (finanziarie, pandemiche, belliche, climatiche) non sono una serie di sfortunati eventi. Si tratta invece dei sintomi macroscopici di una crisi generale e sistemica, a cui l’umanità riesce a rispondere a stento con misure emergenziali, senza affrontare il problema di fondo e anzi, spesso, contribuendo ad aggravarlo.

Assistiamo a una stretta oligarchica da parte dei ceti dominanti di ogni latitudine e longitudine, in concorrenza o in alleanza tra loro; assistiamo anche a una riproposizione di discorsi nazionalisti e particolaristi, comodi sia come diversivi, sia come dispositivi di consenso o di repressione, a seconda delle circostanze.

Negli anni si è consolidata anche una vasta rete distribuita su quasi tutti i continenti che potremmo definire una sorta di “Internazionale nera”: neo-fascisti, ultra-nazionalisti xenofobi, destra alternativa, reazionari legati a frange ultraconservatrici delle varie religioni. Questa galassia politica ha a disposizione molti mezzi, gode di ampie protezioni in diversi continenti, nonché di cospicui finanziamenti. È uno dei peggiori fattori di inquinamento del dibattito pubblico e delle dinamiche politiche, a vario grado di intensità e a più livelli.

Esistono anche movimenti globali di segno opposto: un vasto e non sempre coordinato movimento ambientalista; vari movimenti di indole sociale e politica volti a promuovere l’emancipazione di minoranze o a conquistare diritti sociali. Non esiste però una grande casa ideologica di riferimento, come potevano essere il socialismo e il comunismo, con le loro Internazionali, e si è affermata una certa diffidenza verso proposte ideali votate alla realizzazione di dogmatiche troppo stringenti. Il che è un bene. Ma è anche un limite pragmatico. Molte mobilitazioni popolari, emerse dopo la sconfitta del movimento No Global nei primi anni Duemila, stentano a strutturarsi e a diventare qualcosa di più di occasionali momenti di contestazione e/o di lotta, per di più dislocati in modo eterogeneo e quasi mai interconnessi tra loro. Non esiste una “Internazionale democratica”, al momento.

Nel frattempo l’umanità ha sfondato il tetto degli otto miliardi di persone. I danni prodotti dall’azione umana sul pianeta sono ormai evidenti, con effetti sensibili sulla vita delle comunità, ma le risposte che i governi propongono sono tremendamente inadeguate. Resta invece in campo la competizione geo-politica, con le sue storture e le sue aberrazioni.

L’era del dominio americano sta tramontando, ma gli USA restano comunque la maggiore potenza militare del pianeta. Il competitore principale è la Cina, a sua volta colosso problematico. All’orizzonte si profila anche l’India, secondo qualche statistica, oggi lo stato più popoloso al mondo, ma tutt’altro che coeso. Né si può escludere l’emersione di qualche altro concorrente.

Il conflitto più o meno freddo, giocato prevalentemente sul piano del soft power, dell’egemonia economica e culturale, degli accordi tra grandi potenze e le élite locali dei paesi da controllare e/o sfruttare, tende a riscaldarsi. I colpi di coda di potenze in fase di decadenza o l’aggressività di stati ambiziosi aumentano l’incertezza e moltiplicano e le possibilità di conflitto.

La situazione europea

L’Europa è ormai in una fase di lenta regressione. Il suo dominio sulle risorse e sulle popolazioni di altri continenti è ormai scemato, in gran parte sostituito da altri attori internazionali. La sua egemonia culturale è sempre più labile e va annacquandosi in un mondo sempre più meticcio (esito per altro non negativo, di suo). La decadenza demografica è già in corso. E tuttavia la presa delle élite “nazionali” è sempre salda, pronta a tutto pur di mantenere gli assetti di potere esistenti. La stessa Unione Europea risponde ormai prevalentemente a questa sorta di vago disegno conservatore, schiacciata tra una tecnocrazia sempre al comando e le pulsioni nazionaliste e oscurantiste che ne sono sia la principale fonte di legittimazione morale e politica, sia un comodo strumento di gestione delle istanze popolari e democratiche.

L’Unione Europea non si è rivelata uno strumento di democratizzazione e di emancipazione generale. Se tra le popolazioni sono cresciute la confidenza reciproca, la condivisione di orizzonti comuni, la facilità di interscambio culturale, gli establishment dei singoli stati hanno fatto di tutto per ostacolare l’emersione di questo processo a un livello istituzionale, per evitare una politicizzazione compiuta della solidarietà tra popoli e una proficua coesistenza tra spinte per l’autogoverno locale e un livello generale di valori fondamentali e scelte strategiche.

Benché l’Europa offra forse, ancora oggi, condizioni di vita migliori, dal punto di vista dei diritti e della tenuta sociale, rispetto ad altre aree del pianeta (se non altro in alcuni dei suoi stati membri), non si può certo affermare che questa situazione sia solida e destinata a perpetuarsi o addirittura a incrementarsi.

L’attuale “unione” fra i 27 stati membri della UE forse nasconde ma non redime la crisi politica e istituzionale in ciascuno di essi. In generale, è proprio lo stato-nazione a mostrare evidenti segni di inadeguatezza nel mondo di oggi. In risposta a questa crisi, in Europa non è auspicabile un irrigidimento dei nazionalismi statali e non è più desiderabile, nemmeno a livello di “meno peggio”, una non nuova pulsione “unificatrice”, il tentativo di creare uno stato-nazione europeo (che andrebbero messi invece in seria discussione, anche per i sinistri precedenti).

È un problema, tuttavia, dato che il mondo policentrico su cui ci stiamo affacciando sembra funzionare per confronto-scontro tra grandi blocchi di dimensione imperiale (e quasi sempre imperialista). L’Europa non può pensare di reagire a questa tendenza andando in ordine sparso, come ancora sembra possibile agli stati più grandi e ricchi, dotati di una propria proiezione internazionale semi-autonoma. Alla fine anche i più grossi stati europei si ritrovano a dover dipendere da orizzonti strategici altrui, principalmente targati USA, ma condizionati anche dalle politiche di altre entità politiche esterne (per esempio i paesi detentori di risorse energetiche e/o portatori di una robusta proiezione globale dei propri interessi). Tuttavia, non è nemmeno praticabile la centralizzazione tecnocratica e burocratica, desiderata e in qualche modo già praticata dall’establishment finanziario e produttivo del Vecchio Continente. I guasti e le contraddizioni, anche in questo caso, sono evidenti.

In Europa esistono al momento dei fattori di diversità politica e di potenziale alternativa: i movimenti ambientalisti e per la giustizia sociale, variamente declinati e articolati; i movimenti etno-regionalisti e di salvaguardia delle minoranze interne agli stati esistenti; i movimenti civici di rivendicazione di autonomia territoriale.

Non si tratta di un fronte compatto e coeso e anche dentro i rispettivi ambiti non esiste una reale forma di coordinamento e collaborazione. Eppure si tratta probabilmente delle sole risorse di cui disponiamo per lavorare a un’Europa – e, in proiezione, a un mondo – più giusto, più libero, più sano.

La proiezione fuori dai confini europei, però, non potrà più avvenire nei termini colonialisti del passato, bensì sotto forma di esempio e come centro di elaborazione politica, come rifugio per i perseguitati politici e come sede di una politica attiva di conciliazione dei conflitti internazionali. Sarebbe anche un modo per farsi perdonare i secoli di sfruttamento, razzismo e guerre che l’Europa ha sulla coscienza.

Nazione e identità, concetti problematici

I movimenti per l’autodeterminazione, presenti in molti stati europei, devono avere un ruolo decisivo, in questa partita. Per farlo, tuttavia, devono accogliere come punto centrale e dirimente del proprio orizzonte teorico e pragmatico il problema della democrazia. Non solo e non tanto nel senso della democrazia rappresentativa, di stampo liberale, ormai logorata dalle spinte storiche di questi ultimi decenni; ma piuttosto nel senso di lavorare per nuove forme di partecipazione popolare, di garanzia di diritti, di meccanismi decisionali consensuali e compiuti non da élite a vantaggio di se stesse ma da organismi realmente rappresentativi di tutte le componenti sociali.

Le istanze di autogoverno non hanno più bisogno di fondarsi su rivendicazioni etniche, schiettamente nazionaliste, a contrasto con i nazionalismi di stato, bensì dovrebbero puntare decise a un orizzonte di democratizzazione radicale di tutte le comunità, da quelle locali a quella più grande, su scala continentale.

Per dotarsi di una strumentazione teorica e ideale adeguata, su questo fronte, occorrerà rimettere in discussione il concetto stesso di nazione e di identità. Sul concetto di nazione, che è sempre “immaginata” ma non per questo “immaginaria”, rimandiamo all’enorme letteratura e al relativo dibattito. Suggeriamo, come punto di partenza, di confrontarsi con le tesi di Anthony D. Smith, di Eric Hobsbawm e di Benedict Anderson.

Le identità sono sempre multiple e non necessariamente in conflitto. Ci si può identificare in una cultura umana specifica, ma poi hanno un grande peso anche le appartenenze familiari, sociali, religiose, persino le fedi sportive.

Sicuramente è sempre più difficile immaginare la propria comunità di appartenenza come un continuum coerente, culturalmente omogeneo, dotato di un territorio esclusivo di riferimento. La stessa appartenenza a uno stato, che comunemente viene definito “nazionalità”, in realtà indica uno status giuridico che con la nazione ha poco a che fare. E infatti sarebbe più corretto definirla “cittadinanza”. Come sappiamo, le migrazioni umane, fenomeno costante della demografia planetaria, se ne sono sempre infischiate di confini e barriere formali. Oggi, gli stati cosiddetti occidentali sono pressoché prossimi allo zero termico demografico, con una popolazione in fase di rapido invecchiamento, eppure pretendono di ostacolare, se non proibire, l’ingresso di esseri umani di altra provenienza. Nonostante questo, non c’è comunità statale che non contenga consistenti comunità immigrate e le loro discendenze. Basterebbe dare un’occhiata alla composizione delle rappresentative sportive - con l’esempio più recente, il campionato mondiale di calcio, sotto gli occhi - per rendersi conto di quanto poco “nazionali” siano le rappresentative statali.

In molte parti del mondo, non solo il multiculturalismo, ma anche la mescolanza sono una regola, non un’eccezione. Per l’Europa è anche una forma di contrappasso, dato che molta immigrazione proviene da aree del pianeta in passato sfruttate e impoverite dalle potenze europee. Ma pensiamo anche agli stati del continente americano (Nord, Centro e Sud), così tipicamente eterogenei, sul piano etnico, tra popolazioni native, discendenti europei e asiatici di varie ondate migratorie e discendenti degli schiavi di origine africana. Il fatto che queste comunità si siano integrate spesso male tra loro e che le élite, di norma bianche e di origine europea, abbiano istituito gerarchie sociali su base razziale non ne cancella la diversità interna.

In definitiva, non sembra opportuno e nemmeno molto sensato fondare un orizzonte politico emancipativo, democratico e popolare su un’entità così controversa e comunque anacronistica come la “nazione”.

Ridiscutere lo “stato”

Della coppia stato-nazione, il membro che sembrerebbe godere di maggior salute è ancora lo stato. Si tratta a oggi della sola forma di ordinamento giuridico riconosciuta nel diritto internazionale, quella dotata delle prerogative di sovranità ed esclusività nell’ambito delle potestà normative e nel monopolio della forza legittima. Tuttavia è evidente come questo costrutto giuridico-politico sia sempre meno rispondente alle dinamiche in corso già in questa nostra epoca.

L’ordine di grandezza delle crisi attuali è planetario, sia in ambito economico-finanziario, sia in campo sanitario, sia in campo ambientale e climatico. La gestione e composizione dei conflitti e persino un’ampia gamma di reati superano, per tipologia, raggio d’azione ed effetti, il livello statale. La stessa economia funziona ormai su un piano diverso da quello su cui sono collocati i vecchi stati-nazione.

Alla fine, se della nazione si può serenamente fare a meno, è sullo stato che andrebbe centrata una nuova riflessione teorica e pragmatica, per cominciare a prospettare un’alternativa valida e praticabile.

Serve ancora, il vecchio stato-nazione? Chi non ne dispone fa bene a cercare di dotarsene? Come conciliare la lotta al centralismo e alle oligarchie, le battaglie contro il capitalismo estrattivo e neo-coloniale, le mobilitazioni contro le discriminazioni e le diseguaglianze con l’aspirazione alle forme giuridiche e politiche entro cui esse hanno prosperato fin qui?

Su questo terreno, le comunità senza stato e le minoranze linguistiche, i movimenti di emancipazione (sociale, di genere, ecc.), il movimento ambientalista, i movimenti civici territoriali, dovrebbero cercare un terreno comune di elaborazione e proposta. Intanto prendendo posizione su ciò che deve essere rifiutato dentro una nuova possibile prospettiva democratica:

- ogni forma di imperialismo e colonialismo;

- ogni imposizione culturale violenta;

- ogni dispositivo di esclusione dal godimento pieno dei diritti umani e civili di fasce sociali, di minoranze, di interi popoli;

- i modelli economici meramente estrattivi, basati sull’appropriazione privata di beni comuni e di risorse strategiche indispensabili nonché sulla distruzione della biodiversità e sull’incuria circa l’alterazione climatica;

- i rapporti di forza geo-politici come unica forma valida di regolazione delle relazioni tra popoli.

I movimenti etno-ragionalisti, autonomisti, autodeterminazionisti, pure presenti e attivi in molti stati europei, dovrebbero riconsiderare le proprie istanze più strettamente nazionaliste e identitarie alla luce di quanto precede.

Chiaramente, i nazionalismi oppressi sono ben diversi dai nazionalismi vincenti degli auttali stati. Questi ultimi sono ormai così penetrati nel senso comune che sono diventati invisibili, benché restino i più violenti e anti-democratici. Sappiamo però, anche per dolorosa esperienza, che ripagare la violenza di stato con la stessa moneta, oltre che eticamente problematico, è anche pragmaticamente fallimentare.

L’ipocrisia dei nazionalismi di stato e dei centralismi ottusi si può più efficacemente contrastare attivando processi radicali di democratizzazione, alimentando le lotte sociali e culturali per i diritti e la libertà sostanziale, imponendo strumenti decisionali partecipativi e rivendicando meccanismi politici di prossimità.

Il nucleo delle rivendicazioni diventa così la democrazia stessa, più che il riconoscimento di differenze culturali, linguistiche, o di determinate condizioni geografiche. Naturalmente, questi fattori hanno pur sempre il loro peso, specie dove non siano meri espedienti narrativi, usati per puri scopi politici, ma abbiano un fondamento storico. Nondimeno centrare il discorso e l’azione politica sulla democratizzazione mette in luce la natura profonda di queste rivendicazioni e smaschera l’ipocrisia e la cattiva coscienza delle controparti.

Ciò significa, tra le altre cose, concepire il principio giuridico della cittadinanza in senso più ampio. E significa anche riformulare l’intero impianto giuridico e operativo delle istituzioni politiche su una base confederale e solidale.

Il superamento dell’ordinamento statuale comporta un forte riconoscimento delle autonomie locali, ma anche una garanzia universale (generale) dei diritti fondamentali; impone la necessità di gestire l’ordinaria amministrazione al livello più prossimo ai destinatari delle norme e delle scelte, ma anche la necessità/capacità di affrontare le questioni di portata più ampia a un livello decisionale superiore a quello locale.

Nella costruzione di un simile ordinamento giuridico così articolato e stratificato andrebbero conciliati i regimi fiscali, la codificazione penale e civile, l’articolazione della giurisdizione, le forme e la gestione della pubblica sicurezza, tutta l’architettura del welfare e della sanità, e via dicendo.

Su alcuni di questi terreni, in realtà, un certo processo di armonizzazione e di convergenza si è in parte già avviato, gioco forza, almeno dentro i confini dell’UE. Caso mai, questa tendenza inevitabile è stata ed è costantemente sabotata proprio dagli stati-nazione, dalle loro classi dirigenti; allo scopo di preservare se stesse, non certo in nome di un interesse generalizzato dell’intera cittadinanza e soprattutto delle sue fasce più deboli. Ed è costantemente sabotata anche dai grandi centri di potere finanziario, interessati ad estrarre valore economico da ogni aspetto dell’esistenza, dunque radicalmente ostili a qualsiasi modello di convivenza basato su principi di cooperazione, di mutualismo, di gratuità.

Le entità economico-finanziarie si servono di forme di condizionamento indirette, agendo sui mercati e sulla comunicazione, e dirette, agendo sulle politiche statali (gli stati non ne sono un contraltare, bensì uno strumento). A loro volta le élite statali si servono facilmente di retoriche – appunto – nazionaliste, per garantirsi quel minimo di consenso indispensabile alle proprie scelte. Il dispositivo nazionalista, o del “nemico esterno”, è attivato costantemente, in vari modi, non solo dalle forze politiche dichiaratamente “sovraniste”, ma da tutte le principali forze politiche.

Le classi dirigenti statali, quale più quale meno, guardano tutte con sospetto il processo di integrazione da tempo avviato tra le popolazioni europee. Allo stesso modo in cui contrastano tutte le spinte autonomiste e autodeterminazioniste interne, tanto più quanto più sono democratiche e inclusive.

I compiti delle forze alternative in Europa (e non solo)

Qual è dunque il compito delle forze che si ispirano a una prospettiva di autogoverno locale, così come di quelle che si dedicano all’ambiente e alla giustizia sociale? Fondamentalmente, dentro la situazione attuale, dovrebbe essere almeno duplice: certamente il perseguimento degli obiettivi specifici di ciascuna lotta, ma anche una più generale attenzione ai processi di democratizzazione e di riappropriazione di diritti e spazi di libertà per tutta la cittadinanza.

Ogni lotta, presa per sé, ha le sue ragioni, i suoi limiti e le sue difficoltà, ma tutte le lotte emancipative, insieme, condividono un orizzonte di maggiore democrazia e di riequilibrio nei rapporti sociali e tra territori diversi. Non è un compito facile, perché ci sono ambiti nei quali le istanze particolari di questa o quella vertenza sembrano confliggere. Per esempio, la richiesta di lavoro con le tutele ambientali o il contrasto al militarismo; il diritto alla mobilità interna e alle possibilità migratorie con la lotta per le giuste retribuzioni e la salvaguardia del tenore di vita dei ceti meno abbienti.

In realtà, queste sono spesso dicotomie artificiosamente innescate allo scopo di indebolire le lotte. Chi gestisce la comunicazione e le leve decisionali, chi dispone di grandi risorse economiche e può mettere persone di fiducia dentro le istituzioni che contano, ha gioco facile ad ad alimentare una guerra tra poveri o un conflitto tra territori o tra categorie sociali. Su questo va sempre mantenuto un grado di lucidità e di lungimiranza molto alto.

Ogni conquista di un diritto non lede la sfera dei diritti già esistenti. La mia libertà non finisce dove inizia la tua, ma esattamente il contrario: la mia libertà inizia dove inizia la tua e finisce dove finisce la tua.

Per le autonomie e i processi di autodeterminazione vale lo stesso discorso. Se cadiamo nella trappola della competizione come regola fondamentale delle relazioni umane, allora non c’è scampo. Se invece rifiutiamo questo quadro, egemonicamente imposto a vantaggio delle classi dominanti, di colpo ci rendiamo conto che si può lottare per forme crescenti di autogoverno dentro un quadro solidale, cooperativo e culturalmente aperto, e al contempo condividere le battaglie ambientali e quelle per la giustizia sociale, senza perdere alcuna delle proprie ragioni né sacrificare i propri obiettivi.

È un discorso largamente inattuale, questo. Il mondo (ossia le élite globali) cospira per renderci sempre più ostili verso il prossimo, sempre più diffidenti verso l’altro da noi, sempre più relegati dentro le nostre “bolle” autoreferenziali. Cedere definitivamente a questo andazzo, però, ci porterà solo guai. Come del resto sta già avvenendo.

Conclusioni

Le forze conservatrici stanno già reagendo con i propri ingenti mezzi e nel proprio interesse particolare alla vasta crisi sistemica che stiamo attraversando. Le forze democratiche, in tutte le loro declinazioni e articolazioni, devono cominciare a rispondere a loro volta.

Il tema delle autonomie e delle forme di decentramento politico, le rivendicazioni delle minoranze e dei popoli senza stato devono necessariamente innestarsi dentro un grande processo di emancipazione collettiva e di democratizzazione, oppure rischiano di diventare ostaggio delle forze conservatrici o addirittura reazionarie e repressive, come capro espiatorio e bersaglio di comodo e/o come espediente per qualche forma di rivoluzione passiva.

È un rischio da tenere presente, insieme alle altre questioni a cui questo tempo ci chiama a rispondere. Sarà bene farlo con fantasia e generosità, dentro gli spazi e le condizioni in cui viviamo e si articolano le nostre relazioni, finché possiamo.

 

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Autonomie non giravolte

Grazie a una meritoria iniziativa dei RossoMori, in particolare della segretaria Lucia Chessa (nella foto insieme a Silvia Fancello), si è tenuto oggi, venerdì 3 marzo 2023, a Nuoro un convengo sulla cosiddetta "autonomia differenziata". Per coloro che credono nell'autogoverno dei territori, è stata una occasione positiva. Uno degli interventi più brillanti è stato quello sull'autogoverno dell'energia, del territorio, dell'ambiente, dell'ing. Fernando Codonesu. Una tema, l'autosufficienza energetica con le rinnovabili, che è una opportunità per tutti i territori e per le generazioni future, purtroppo messa in pericolo dal combinato disposto di eccessi tecnocratici europei, discutibili sentenze della Corte costituzionale, oltre che dal solito irredimibile centralismo italiano.

Preoccupante è stato, invece, sentire accenneare, quasi con una punta di dispiacere, che la presidente Meloni non sia abbastanza forte per fermare le iniziative dei salvinisti. Ora, sia chiaro, come dettagliatamente sostenuto dal Forum 2043, le iniziative in materia di autonomia differenziata sono cialtronesche, forse anche pericolose, soprattutto strumentali e senza futuro, ma attenzione a schierarsi con i centralisti, che intanto ci preparano la deriva del presidenzialismo.

La cosa più triste di tutte, poi, è stato assistere alle tradizionali giravolte, il peggio del peggio della politica di oggi, non solo in Sardegna. Si avvicinano le elezioni? Tutti diventano disposti a parlare di "autonomie". Una folla di amministratori locali, di ogni schieramento, si apprestano a mostrarsi disponibili a riprendere il mano di una delle autonomie più tradite della nostra Repubblica, quella della Sardegna.

Per noi era presente Silvia "Lidia" Fancello, osservatrice EFA e rappresentante AeA in Sardegna. Più sotto i punti essenziali del suo intervento.

2023 03 03 In Sardegna No autonomia e non solo differenziata purtroppo

L'intervento di Silvia "Lidia" Fancello

AUTONOMIE DIFFERENZIATE: in equilibrio fra la follia e la costituzione inattuata

Buongiorno a tutti e tutte. Sono Silvia Lidia Fancello e sono qui in doppia veste: come osservatrice EFA e come rappresentante di Autonomie e Ambiente. L’EFA ovvero European Free Alliance, cioè Alleanza Libera Europea, ALE.

EFA ha sede a Bruxelles, è rappresentata nel parlamento europeo e coordina i partiti che rappresentano i cosiddetti “popoli senza stato”. In EFA sono presenti oltre quaranta partiti provenienti dai più svariati territori europei. Fra i più noti i baschi di Eusko Alkartasuna, gli scozzesi dello lo Scottish National Party, i catalani diEsquerra Republicana, l’Union Valdotain, i friulani con il Patto per l’Autonomia, i corsi di Femu a Corsica, i fiamminghi, i frisoni e tante altre realtà territoriali. EFA dunque è naturalmente vocata a promuovere e difendere il diritto all’autodeterminazione e dunque di tutte le autonomie.

La seconda veste, direttamente collegata ad EFA è quella di rappresentante diAutonomie e Ambiente, il coordinamento di partiti territoriali e movimenti civici e ambientalisti, impegnati per il più ampio autogoverno dei loro territori,eattivi nello stato italiano. Inutile spiegare che Autonomie e Ambiente, con l’aiuto di EFA, aspira a una Repubblica delle Autonomie.Siamo per la sussidiarietà che è anche solidarietà fra territori, per autonomie responsabili, perché ogni territorio trovi le sue modalità di difendere l’ambiente e la salute. Siamo contro ogni centralismo e quindi in prima lineacontro ogni forma dipresidenzialismo.

Noi siamo convinti che le Autonomie differenziate, così come proposte dagli attuali ciarlatani al potere, siano impraticabili e sbagliate. Si tratta in sostanza di una “boutade” elettorale volta a fare rientrare nel recinto della Lega quei movimenti localisti che in essa non si riconoscono o che se ne sono distaccati.

Condividiamo alcune analisi fatte da costituzionalisti come il prof. Villone, almeno per ciò che riguarda le negative conseguenze delle Autonomie differenziate, tuttavia restiamodistanti dallaretorica dell’attentato alla cosiddetta “unità” dello stato. Agitare lo spauracchio di un’Italia frantumata in tante “repubblichette”, questa è la parola spesso usata, non è ciò che NOI veri autonomisti condividiamo, perché ha un sottofondo dispregiativo che schiaccia ogni anelito alla diversità dei territori che compongono la Repubblica italiana e la negano di fatto. In un’altra sede accetteremmo la sfida di spiegarvi perché dietro il velo della retorica dell’unità italiana, si nascondono vergogne e ingiustizie. Di certonon parteciperemo a iniziative volte a perpetuare il tragicocentralismo italiano. Ne’ ci metteremo affianco a coloro che con la lancia in resta difendonola Costituzione, la quale per noi non è “la più bella del mondo”, ma piuttosto la piùinattuata.

L’autonomia differenziata del DDL Calderoli è ingarbugliata? Lo è. È un pasticcio? Lo è. È pericolosa? Si, lo è,

Tuttavia èbene che in questo paese si continui alottare per attuare seriamente leAutonomie che invece sono state tradite a partire dalla nostra in Sardegna, senza inutili levate di scudi, senza retorica e senza pregiudizi, ma piuttosto in un sereno e civile confronto con chi aspira ad un sacrosanto diritto all’autodeterminazione.

Concludiamo con un pensiero di Alcide De Gasperi (che essendo vissuto nell’impero asburgico l’autonomia sapeva cos’era e difese quella della sua terra trentina, almeno quella): “il successo finale non mancherà di premiare chi avrà avuto il coraggio dell'utopia...”.

E se il pieno autogoverno di tutti i territori dello stato italiano per qualcuno è un pericolo, per noi è speranza

A Innantis e Fortza paris

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Nella foto sotto Silvia Fancello insieme a Danilo Lampis (Sardegna chiama Sardegna) al convegno dei RossoMori.

2023 03 03 Fancello Lampis

 

 

 

 

Fare rete in Sardegna e ben oltre

 

Olbia 20 novembre 2021

 

Gentilissimi e gentilissime partecipanti al convegno indetto dall’Assemblea Natzionale Sarda (ANS),

 

in occasione dell’incontro con la presidente dell’Assemblea Nacional Catalana (ANC), Elisenda Paluzie, vi scrivo, impossibilitata a presenziare, in qualità di osservatrice ALE-EFA e delegata di Autonomie e Ambiente.

Vi trasmetto i saluti e gli auguri di buon lavoro della presidente ALE-EFA Lorena Lopez De La Calle e del presidente di Autonomie e Ambiente Roberto Visentin, oltre ai miei personali.

La storia della Catalogna, come territorio autonomo che aspira e quindi lotta per il pieno autogoverno in una Europa confederale, è esemplare e dovrebbe essere d’ispirazione per la Regione Autonoma della Sardegna e per tutti gli altri territori della Repubblica Italiana che aspirano all’autodeterminazione.

La repressione anti-catalana deve essere approfondita e ben compresa da tutti noi. Noncisi può nascondere che tale repressione sia sostenuta in molti modi, espliciti o sotterranei, dalle forze del centralismo sia in Italia che in Europa.

La Repubblica Italiana e l’Unione Europea, come dimostrato una volta di più dall’uso del mandato di cattura europeo come armapoliticaimpropria contro gli esuli catalani, sono percorse da pulsioni autoritarie e centraliste, ma la nostra ammirazione per il percorso deiCatalani non deve fermarsi alla valutazione dei risultati da loro ottenuti, tralasciando l’analisi del metodo seguito per ottenerli.

È necessario capire le fasi del percorso, composto di dialogo, unità di intenti, piccole e grandi strategie e che ha portato la Catalogna a sfiorare il Sogno indipendentista.

Lo loro capacità di crescere, rinnovarsi, fare rete con le forze civiche, ambientaliste, territoriali e locali, spiega molti dei loro risultati.

Alla luce di questo oggi,anchein questa assemblea si possono gettare le basi per un nuovo percorso, che vada verso la maturità dell’autodeterminismo sardo,il qualedeve passare necessariamente dalla celebrazione delle altrui vittorie alla programmazione delle proprie,che sianovittorie a breve, a media, o a lunga scadenza.

La pluralità delle forze che aspirano all’autogoverno della Sardegna è una ricchezza che va incanalata nella capacità di fare squadra, rammentando che il nostro unico avversario storico è il centralismo.

Infine l’auspicio è che il mondo autodeterminista sardo volga lo sguardo anche a quei territori della penisola italiana che soffrono degli stessi mali della nostra terra, che aspirano a forme più o menoavanzatedi autogoverno, che come noi detengono un patrimonio culturale e linguistico oramai a rischio.

Non è da sottovalutareche un lavoro politico comune, tra forze delle diverse nazioni e territori,ci consentirebbe di esercitare maggiori pressioni sulla Repubblica Italiana,anche per una riscrittura della Costituzione in terminipiù avanzati nella direzione dell’autogoverno dei suoi popoli e territori.

Lo statuto della nostra regione è oramai obsoleto,dopo esser stato in gran parte tradito,mentre lo stato italiano sta riguadagnando terrenoin ogni materia.

Sono convinta che sia necessario ristabilire i termini dei rapporti fra stato e regione e sono altresì convinta che non si possa aspirare all’indipendenza se non si è capaci di praticare l’autonomia.

Con l’augurio di un proficuo lavoro vi saluto e vi abbraccio.

Silvia Lidia Fancello

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Incontri di AeA in Sardegna - Caminera Noa

Autonomie e Ambiene, insieme a Silvia Lidia Fancello, la rappresentante ALE/EFA in Sardegna, sta proseguendo i suoi incontri con le forze politiche territoriali sarde.

All'assemblea di Caminera Noa di oggi, domenica 23 gennaio 2022, a Bauladu, a nome sia di EFA che di AeA, Silvia Fancello ha inviato un messaggio in cui si ribadiscono alcune considerazioni politiche di interesse comune a tutte le forze territoriali attive nella Repubblica Italiana.

"Nell’ambito di EFA e in stretta connessione con essa, diverse forze decentraliste territoriali attive nella Repubblica Italiana agiscono insieme, in una sorellanza chiamata Autonomie e Ambiente (AeA) e della quale sono stata delegata a fare da portavoce - scrive la Fancello - Perché Autonomie e Ambiente? Per due ragioni precise: 1) AeA è stata assunta da EFA come osservatorio privilegiato sulla reale capacità dei movimenti politici identitari sardi di dialogare fra loro coagulandosi intorno a obbiettivi comuni e, partendo da questa collaborazione, iniziare a costruire un coordinamento politico che vada a rappresentare la nostra terra (la Sardegna, ndr) in Europa; 2) la seconda ragione è la necessità di un superamento di quel sentimento sciovinista e anti-italiano che tende a rifiutare in blocco senza distinzioni, tutto ciò che arriva dal suolo della penisola. Tale atteggiamento impedisce una riflessione profonda su quale sia, invece, il vero ed unico nemico, ovvero il centralismo del governo italiano.".

"In AeA ed EFA riescono a cooperare lo storico autonomismo antifascista della Val d’Aosta, gli autonomismi civici e ambientalisti del Friuli, della Toscana e della Romagna, gli indipendentisti anticolonialisti di Sicilia, gruppi più moderati e altri più progressisti. - continua Silvia Fancello - "Alleandoci si può operare una resistenza contro gli abusi dello stato d’emergenza, lo stato prefettizio, la scelta nucleare, il militarismo, il neocolonialismo interno e internazionale. È una battaglia collettiva, quella alla quale siamo chiamati e le forze politiche sarde, ciascuna nella sua autonomia e nel rispetto delle diversità e delle storie individuali e collettive, non possono sottrarsi. È tempo di una seria autocritica rispetto alle occasioni perse. Servono progetti innovativi, azioni concrete, nuove forme di partecipazione popolare e di organizzazione elettorale. Inoltre riteniamo che, lavorare con le forze decentraliste italiane ed europee non significa assolutamente deflettere dal nostro impegno per la fondazione di una repubblica sarda nel quadro di una confederazione europea. Al contrario, la rendiamo una prospettiva più concreta per le generazioni future.".

Autonomie e Ambiente, quindi, si mette a disposizione di coloro i quali vogliano costruire una proposta politica matura e alternativa,  aperta alle sfide contemporanee, civica, ambientalista, decentralista, capace di catturare il consenso elettorale moderato, capace soprattutto in prima battuta, di sdoganarsi e uscire da settarismo e dal minoritarismo.

La Fancello conclude il suo messaggio con una riflessione del catalano Carles Puigdemont: "Egli afferma che, per il suo popolo, l’indipendenza non sia l’unica soluzione, ma sicuramente l’ultima, perché quando falliscono le altre soluzioni, allora si ha diritto a essere indipendenti. Io umilmente mi permetto di aggiungere a questa riflessione, una piccola correzione, affermando che l’indipendenza è quella condizione ultima alla quale si deve arrivare non dopo i fallimenti di altre soluzioni, ma attraverso il loro pieno e riconosciuto successo. A innantis.".

Silvia Lidia Fancello è contattabile attreverso i suoi social personali, oppure attraverso la lista civica, ambientalista, identitaria e autodeterminista "Uniti per Olbia".

Autonomie e Ambiente è contattabile sulle più importanti reti sociali e alla mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. .

 

 

Scorie nucleari, un peso millenario da suddividere

Abbiamo ricevuto dal Comitato NoNucle-NoScorie della Sardegna (COMITADU CONTRA A SA ISCORIAS NUCLEARES IN SARDIGNA) una denuncia dei gravissimi problemi posti dal riaffacciarsi del dibattito sul nucleare nella Repubblica italiana. Esprimiamo la nostra solidarietà e lo pubblichiamo integralmente qui.

Ricordiamo, inoltre, alcune considerazioni maturate a margine dei lavori della nostra II Assemblea Generale del 2021, grazie al contributo delle forze politiche sarde che sono in dialogo con Autonomie e Ambiente (AeA) e con l'Alleanza Libera Europea (ALE-EFA), la nostra famiglia politica europea.

Le nostre forze territoriali sono contrarie al deposito nazionale unico delle scorie nucleari, un'opera faraonica la cui realizzazione e gestione, nei millenni, porrebbe molti più problemi di quanti pretenda di risolverne. Nell'opinione pubblica, peraltro, dilaga lo scetticismo nei confronti della SOGIN, la società incaricata del gravissimo problema, che da decenni dilapida risorse pubbliche senza produrre soluzioni sostenibili, un fallimento epocale del centralismo.

Tanto meno Autonomie e Ambiente (AeA) accetta che le scorie siano esportate in Sardegna, una terra che si vedrebbe così trattata, per l'ennesima volta, come una colonia interna dell'Italia.

Il problema delle scorie, che sarà sulle spalle delle generazioni future per millenni, è troppo grande per essere affidato a un solo grande sito di stoccaggio. Come decentralisti e territorialisti dobbiamo proporre con competenza e coraggio l'alternativa del decentramento. Occorrono più depositi, territoriali o interterritoriali, costruiti con il consenso delle popolazioni e delle amministrazioni locali, affidati a enti pubblici. Ogni regione produce piccole quantità di scorie radioattive, per esempio quelle della diagnostica ospedaliera, e dovrebbe farsene carico. Le scorie accumulate dal dismesso nucleare italiano dovranno essere anch'esse suddivise tra diversi siti nella penisola, non certo esportate in Sardegna, dove le centrali nucleari non sono mai esistite.

Ricordiamo anche, perché la politica europea e italiana sembrano averlo dimenticato, che il nucleare è stato rifiutato dai popoli e dai territori della nostra Repubblica in ogni sede, tra l'altro con il conforto di due referendum popolari (nel 1987 e ancora nel 2011). La Sardegna ha pronunciato un solenne no al nucleare, allo stoccaggio delle scorie, persino al loro transito, nell'importante referendum consultivo del 2011.

Si è tornati a discutere di nucleare in Europa, perché qualcuno lo ritiene necessario durante la transizione ecologica, arrivando a definirlo una fonte di energia più "verde" di altre. Pur non condividendo questa posizione, possiamo ritenerla comprensibile per chi, come la Francia di Macron, ha già sostenuto immensi investimenti nel nucleare. Sarebbe incomprensibile, invece, anche economicamente, avventurarsi in direzione del nucleare ripartendo oggi, da zero, con tecnologie superate che continuerebbero a ingigantire il problema millenario della conservazione delle scorie.

Nella nostra mentalità, quando un problema è troppo grande per essere gestito unitariamente e centralmente, è necessario suddividerne il peso ed affidarsi a soluzioni locali e differenziate, sotto il ravvicinato e ferreo controllo di poteri pubblici democratici locali. Ma non è solo una nostra convinzione, bensì solo una delle necessarie declinazioni della sussidiarietà, cioè di un principio fondamentale nella Costituzione, negli Statuti, nei trattati europei.

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Autonomie e Ambiente
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