Autodeterminazione come ricerca di un autogoverno democratico pienamente inclusivo e capace di emancipazione. Un contributo ai lavori del Forum 2043 di Omar Onnis, attivista per l’autodeterminazione della Sardegna, scrittore, blogger di Sardegna Mondo (https://sardegnamondo.eu/).
Uno sguardo alla situazione globale
La dialettica tra autonomia e centralismo e tra autodeterminazione dei popoli e stati-nazione si dispiega oggi in uno scenario in transizione, assai diverso da quello del XX secolo. Lungo o breve che sia stato, il XX secolo è finito. Oggi ne scontiamo gli esiti e soprattutto paghiamo l’inerzia delle strutture politiche e socio-economiche che abbiamo ereditato, senza aver ancora a disposizione delle alternative pronte all’uso.
Lo stato-nazione di matrice europea ha avuto una parte significativa nella storia del mondo degli ultimi due secoli. Sia per chi l’ha vissuta da protagonista, sia per chi l’ha subita. Lo sviluppo del capitalismo, il colonialismo, la connessa divisione dell’umanità in razze poste in rapporto gerarchico tra di loro, i nazionalismi, i dogmatismi teorici e i fanatismi ideologici e religiosi: tutto questo è un retaggio che l’Europa e la cultura europea in senso lato hanno consegnato al mondo direttamente o indirettamente, e da cui il mondo, oggi è ancora pesantemente condizionato.
Le ripetute crisi di questi anni (finanziarie, pandemiche, belliche, climatiche) non sono una serie di sfortunati eventi. Si tratta invece dei sintomi macroscopici di una crisi generale e sistemica, a cui l’umanità riesce a rispondere a stento con misure emergenziali, senza affrontare il problema di fondo e anzi, spesso, contribuendo ad aggravarlo.
Assistiamo a una stretta oligarchica da parte dei ceti dominanti di ogni latitudine e longitudine, in concorrenza o in alleanza tra loro; assistiamo anche a una riproposizione di discorsi nazionalisti e particolaristi, comodi sia come diversivi, sia come dispositivi di consenso o di repressione, a seconda delle circostanze.
Negli anni si è consolidata anche una vasta rete distribuita su quasi tutti i continenti che potremmo definire una sorta di “Internazionale nera”: neo-fascisti, ultra-nazionalisti xenofobi, destra alternativa, reazionari legati a frange ultraconservatrici delle varie religioni. Questa galassia politica ha a disposizione molti mezzi, gode di ampie protezioni in diversi continenti, nonché di cospicui finanziamenti. È uno dei peggiori fattori di inquinamento del dibattito pubblico e delle dinamiche politiche, a vario grado di intensità e a più livelli.
Esistono anche movimenti globali di segno opposto: un vasto e non sempre coordinato movimento ambientalista; vari movimenti di indole sociale e politica volti a promuovere l’emancipazione di minoranze o a conquistare diritti sociali. Non esiste però una grande casa ideologica di riferimento, come potevano essere il socialismo e il comunismo, con le loro Internazionali, e si è affermata una certa diffidenza verso proposte ideali votate alla realizzazione di dogmatiche troppo stringenti. Il che è un bene. Ma è anche un limite pragmatico. Molte mobilitazioni popolari, emerse dopo la sconfitta del movimento No Global nei primi anni Duemila, stentano a strutturarsi e a diventare qualcosa di più di occasionali momenti di contestazione e/o di lotta, per di più dislocati in modo eterogeneo e quasi mai interconnessi tra loro. Non esiste una “Internazionale democratica”, al momento.
Nel frattempo l’umanità ha sfondato il tetto degli otto miliardi di persone. I danni prodotti dall’azione umana sul pianeta sono ormai evidenti, con effetti sensibili sulla vita delle comunità, ma le risposte che i governi propongono sono tremendamente inadeguate. Resta invece in campo la competizione geo-politica, con le sue storture e le sue aberrazioni.
L’era del dominio americano sta tramontando, ma gli USA restano comunque la maggiore potenza militare del pianeta. Il competitore principale è la Cina, a sua volta colosso problematico. All’orizzonte si profila anche l’India, secondo qualche statistica, oggi lo stato più popoloso al mondo, ma tutt’altro che coeso. Né si può escludere l’emersione di qualche altro concorrente.
Il conflitto più o meno freddo, giocato prevalentemente sul piano del soft power, dell’egemonia economica e culturale, degli accordi tra grandi potenze e le élite locali dei paesi da controllare e/o sfruttare, tende a riscaldarsi. I colpi di coda di potenze in fase di decadenza o l’aggressività di stati ambiziosi aumentano l’incertezza e moltiplicano e le possibilità di conflitto.
La situazione europea
L’Europa è ormai in una fase di lenta regressione. Il suo dominio sulle risorse e sulle popolazioni di altri continenti è ormai scemato, in gran parte sostituito da altri attori internazionali. La sua egemonia culturale è sempre più labile e va annacquandosi in un mondo sempre più meticcio (esito per altro non negativo, di suo). La decadenza demografica è già in corso. E tuttavia la presa delle élite “nazionali” è sempre salda, pronta a tutto pur di mantenere gli assetti di potere esistenti. La stessa Unione Europea risponde ormai prevalentemente a questa sorta di vago disegno conservatore, schiacciata tra una tecnocrazia sempre al comando e le pulsioni nazionaliste e oscurantiste che ne sono sia la principale fonte di legittimazione morale e politica, sia un comodo strumento di gestione delle istanze popolari e democratiche.
L’Unione Europea non si è rivelata uno strumento di democratizzazione e di emancipazione generale. Se tra le popolazioni sono cresciute la confidenza reciproca, la condivisione di orizzonti comuni, la facilità di interscambio culturale, gli establishment dei singoli stati hanno fatto di tutto per ostacolare l’emersione di questo processo a un livello istituzionale, per evitare una politicizzazione compiuta della solidarietà tra popoli e una proficua coesistenza tra spinte per l’autogoverno locale e un livello generale di valori fondamentali e scelte strategiche.
Benché l’Europa offra forse, ancora oggi, condizioni di vita migliori, dal punto di vista dei diritti e della tenuta sociale, rispetto ad altre aree del pianeta (se non altro in alcuni dei suoi stati membri), non si può certo affermare che questa situazione sia solida e destinata a perpetuarsi o addirittura a incrementarsi.
L’attuale “unione” fra i 27 stati membri della UE forse nasconde ma non redime la crisi politica e istituzionale in ciascuno di essi. In generale, è proprio lo stato-nazione a mostrare evidenti segni di inadeguatezza nel mondo di oggi. In risposta a questa crisi, in Europa non è auspicabile un irrigidimento dei nazionalismi statali e non è più desiderabile, nemmeno a livello di “meno peggio”, una non nuova pulsione “unificatrice”, il tentativo di creare uno stato-nazione europeo (che andrebbero messi invece in seria discussione, anche per i sinistri precedenti).
È un problema, tuttavia, dato che il mondo policentrico su cui ci stiamo affacciando sembra funzionare per confronto-scontro tra grandi blocchi di dimensione imperiale (e quasi sempre imperialista). L’Europa non può pensare di reagire a questa tendenza andando in ordine sparso, come ancora sembra possibile agli stati più grandi e ricchi, dotati di una propria proiezione internazionale semi-autonoma. Alla fine anche i più grossi stati europei si ritrovano a dover dipendere da orizzonti strategici altrui, principalmente targati USA, ma condizionati anche dalle politiche di altre entità politiche esterne (per esempio i paesi detentori di risorse energetiche e/o portatori di una robusta proiezione globale dei propri interessi). Tuttavia, non è nemmeno praticabile la centralizzazione tecnocratica e burocratica, desiderata e in qualche modo già praticata dall’establishment finanziario e produttivo del Vecchio Continente. I guasti e le contraddizioni, anche in questo caso, sono evidenti.
In Europa esistono al momento dei fattori di diversità politica e di potenziale alternativa: i movimenti ambientalisti e per la giustizia sociale, variamente declinati e articolati; i movimenti etno-regionalisti e di salvaguardia delle minoranze interne agli stati esistenti; i movimenti civici di rivendicazione di autonomia territoriale.
Non si tratta di un fronte compatto e coeso e anche dentro i rispettivi ambiti non esiste una reale forma di coordinamento e collaborazione. Eppure si tratta probabilmente delle sole risorse di cui disponiamo per lavorare a un’Europa – e, in proiezione, a un mondo – più giusto, più libero, più sano.
La proiezione fuori dai confini europei, però, non potrà più avvenire nei termini colonialisti del passato, bensì sotto forma di esempio e come centro di elaborazione politica, come rifugio per i perseguitati politici e come sede di una politica attiva di conciliazione dei conflitti internazionali. Sarebbe anche un modo per farsi perdonare i secoli di sfruttamento, razzismo e guerre che l’Europa ha sulla coscienza.
Nazione e identità, concetti problematici
I movimenti per l’autodeterminazione, presenti in molti stati europei, devono avere un ruolo decisivo, in questa partita. Per farlo, tuttavia, devono accogliere come punto centrale e dirimente del proprio orizzonte teorico e pragmatico il problema della democrazia. Non solo e non tanto nel senso della democrazia rappresentativa, di stampo liberale, ormai logorata dalle spinte storiche di questi ultimi decenni; ma piuttosto nel senso di lavorare per nuove forme di partecipazione popolare, di garanzia di diritti, di meccanismi decisionali consensuali e compiuti non da élite a vantaggio di se stesse ma da organismi realmente rappresentativi di tutte le componenti sociali.
Le istanze di autogoverno non hanno più bisogno di fondarsi su rivendicazioni etniche, schiettamente nazionaliste, a contrasto con i nazionalismi di stato, bensì dovrebbero puntare decise a un orizzonte di democratizzazione radicale di tutte le comunità, da quelle locali a quella più grande, su scala continentale.
Per dotarsi di una strumentazione teorica e ideale adeguata, su questo fronte, occorrerà rimettere in discussione il concetto stesso di nazione e di identità. Sul concetto di nazione, che è sempre “immaginata” ma non per questo “immaginaria”, rimandiamo all’enorme letteratura e al relativo dibattito. Suggeriamo, come punto di partenza, di confrontarsi con le tesi di Anthony D. Smith, di Eric Hobsbawm e di Benedict Anderson.
Le identità sono sempre multiple e non necessariamente in conflitto. Ci si può identificare in una cultura umana specifica, ma poi hanno un grande peso anche le appartenenze familiari, sociali, religiose, persino le fedi sportive.
Sicuramente è sempre più difficile immaginare la propria comunità di appartenenza come un continuum coerente, culturalmente omogeneo, dotato di un territorio esclusivo di riferimento. La stessa appartenenza a uno stato, che comunemente viene definito “nazionalità”, in realtà indica uno status giuridico che con la nazione ha poco a che fare. E infatti sarebbe più corretto definirla “cittadinanza”. Come sappiamo, le migrazioni umane, fenomeno costante della demografia planetaria, se ne sono sempre infischiate di confini e barriere formali. Oggi, gli stati cosiddetti occidentali sono pressoché prossimi allo zero termico demografico, con una popolazione in fase di rapido invecchiamento, eppure pretendono di ostacolare, se non proibire, l’ingresso di esseri umani di altra provenienza. Nonostante questo, non c’è comunità statale che non contenga consistenti comunità immigrate e le loro discendenze. Basterebbe dare un’occhiata alla composizione delle rappresentative sportive - con l’esempio più recente, il campionato mondiale di calcio, sotto gli occhi - per rendersi conto di quanto poco “nazionali” siano le rappresentative statali.
In molte parti del mondo, non solo il multiculturalismo, ma anche la mescolanza sono una regola, non un’eccezione. Per l’Europa è anche una forma di contrappasso, dato che molta immigrazione proviene da aree del pianeta in passato sfruttate e impoverite dalle potenze europee. Ma pensiamo anche agli stati del continente americano (Nord, Centro e Sud), così tipicamente eterogenei, sul piano etnico, tra popolazioni native, discendenti europei e asiatici di varie ondate migratorie e discendenti degli schiavi di origine africana. Il fatto che queste comunità si siano integrate spesso male tra loro e che le élite, di norma bianche e di origine europea, abbiano istituito gerarchie sociali su base razziale non ne cancella la diversità interna.
In definitiva, non sembra opportuno e nemmeno molto sensato fondare un orizzonte politico emancipativo, democratico e popolare su un’entità così controversa e comunque anacronistica come la “nazione”.
Ridiscutere lo “stato”
Della coppia stato-nazione, il membro che sembrerebbe godere di maggior salute è ancora lo stato. Si tratta a oggi della sola forma di ordinamento giuridico riconosciuta nel diritto internazionale, quella dotata delle prerogative di sovranità ed esclusività nell’ambito delle potestà normative e nel monopolio della forza legittima. Tuttavia è evidente come questo costrutto giuridico-politico sia sempre meno rispondente alle dinamiche in corso già in questa nostra epoca.
L’ordine di grandezza delle crisi attuali è planetario, sia in ambito economico-finanziario, sia in campo sanitario, sia in campo ambientale e climatico. La gestione e composizione dei conflitti e persino un’ampia gamma di reati superano, per tipologia, raggio d’azione ed effetti, il livello statale. La stessa economia funziona ormai su un piano diverso da quello su cui sono collocati i vecchi stati-nazione.
Alla fine, se della nazione si può serenamente fare a meno, è sullo stato che andrebbe centrata una nuova riflessione teorica e pragmatica, per cominciare a prospettare un’alternativa valida e praticabile.
Serve ancora, il vecchio stato-nazione? Chi non ne dispone fa bene a cercare di dotarsene? Come conciliare la lotta al centralismo e alle oligarchie, le battaglie contro il capitalismo estrattivo e neo-coloniale, le mobilitazioni contro le discriminazioni e le diseguaglianze con l’aspirazione alle forme giuridiche e politiche entro cui esse hanno prosperato fin qui?
Su questo terreno, le comunità senza stato e le minoranze linguistiche, i movimenti di emancipazione (sociale, di genere, ecc.), il movimento ambientalista, i movimenti civici territoriali, dovrebbero cercare un terreno comune di elaborazione e proposta. Intanto prendendo posizione su ciò che deve essere rifiutato dentro una nuova possibile prospettiva democratica:
- ogni forma di imperialismo e colonialismo;
- ogni imposizione culturale violenta;
- ogni dispositivo di esclusione dal godimento pieno dei diritti umani e civili di fasce sociali, di minoranze, di interi popoli;
- i modelli economici meramente estrattivi, basati sull’appropriazione privata di beni comuni e di risorse strategiche indispensabili nonché sulla distruzione della biodiversità e sull’incuria circa l’alterazione climatica;
- i rapporti di forza geo-politici come unica forma valida di regolazione delle relazioni tra popoli.
I movimenti etno-ragionalisti, autonomisti, autodeterminazionisti, pure presenti e attivi in molti stati europei, dovrebbero riconsiderare le proprie istanze più strettamente nazionaliste e identitarie alla luce di quanto precede.
Chiaramente, i nazionalismi oppressi sono ben diversi dai nazionalismi vincenti degli auttali stati. Questi ultimi sono ormai così penetrati nel senso comune che sono diventati invisibili, benché restino i più violenti e anti-democratici. Sappiamo però, anche per dolorosa esperienza, che ripagare la violenza di stato con la stessa moneta, oltre che eticamente problematico, è anche pragmaticamente fallimentare.
L’ipocrisia dei nazionalismi di stato e dei centralismi ottusi si può più efficacemente contrastare attivando processi radicali di democratizzazione, alimentando le lotte sociali e culturali per i diritti e la libertà sostanziale, imponendo strumenti decisionali partecipativi e rivendicando meccanismi politici di prossimità.
Il nucleo delle rivendicazioni diventa così la democrazia stessa, più che il riconoscimento di differenze culturali, linguistiche, o di determinate condizioni geografiche. Naturalmente, questi fattori hanno pur sempre il loro peso, specie dove non siano meri espedienti narrativi, usati per puri scopi politici, ma abbiano un fondamento storico. Nondimeno centrare il discorso e l’azione politica sulla democratizzazione mette in luce la natura profonda di queste rivendicazioni e smaschera l’ipocrisia e la cattiva coscienza delle controparti.
Ciò significa, tra le altre cose, concepire il principio giuridico della cittadinanza in senso più ampio. E significa anche riformulare l’intero impianto giuridico e operativo delle istituzioni politiche su una base confederale e solidale.
Il superamento dell’ordinamento statuale comporta un forte riconoscimento delle autonomie locali, ma anche una garanzia universale (generale) dei diritti fondamentali; impone la necessità di gestire l’ordinaria amministrazione al livello più prossimo ai destinatari delle norme e delle scelte, ma anche la necessità/capacità di affrontare le questioni di portata più ampia a un livello decisionale superiore a quello locale.
Nella costruzione di un simile ordinamento giuridico così articolato e stratificato andrebbero conciliati i regimi fiscali, la codificazione penale e civile, l’articolazione della giurisdizione, le forme e la gestione della pubblica sicurezza, tutta l’architettura del welfare e della sanità, e via dicendo.
Su alcuni di questi terreni, in realtà, un certo processo di armonizzazione e di convergenza si è in parte già avviato, gioco forza, almeno dentro i confini dell’UE. Caso mai, questa tendenza inevitabile è stata ed è costantemente sabotata proprio dagli stati-nazione, dalle loro classi dirigenti; allo scopo di preservare se stesse, non certo in nome di un interesse generalizzato dell’intera cittadinanza e soprattutto delle sue fasce più deboli. Ed è costantemente sabotata anche dai grandi centri di potere finanziario, interessati ad estrarre valore economico da ogni aspetto dell’esistenza, dunque radicalmente ostili a qualsiasi modello di convivenza basato su principi di cooperazione, di mutualismo, di gratuità.
Le entità economico-finanziarie si servono di forme di condizionamento indirette, agendo sui mercati e sulla comunicazione, e dirette, agendo sulle politiche statali (gli stati non ne sono un contraltare, bensì uno strumento). A loro volta le élite statali si servono facilmente di retoriche – appunto – nazionaliste, per garantirsi quel minimo di consenso indispensabile alle proprie scelte. Il dispositivo nazionalista, o del “nemico esterno”, è attivato costantemente, in vari modi, non solo dalle forze politiche dichiaratamente “sovraniste”, ma da tutte le principali forze politiche.
Le classi dirigenti statali, quale più quale meno, guardano tutte con sospetto il processo di integrazione da tempo avviato tra le popolazioni europee. Allo stesso modo in cui contrastano tutte le spinte autonomiste e autodeterminazioniste interne, tanto più quanto più sono democratiche e inclusive.
I compiti delle forze alternative in Europa (e non solo)
Qual è dunque il compito delle forze che si ispirano a una prospettiva di autogoverno locale, così come di quelle che si dedicano all’ambiente e alla giustizia sociale? Fondamentalmente, dentro la situazione attuale, dovrebbe essere almeno duplice: certamente il perseguimento degli obiettivi specifici di ciascuna lotta, ma anche una più generale attenzione ai processi di democratizzazione e di riappropriazione di diritti e spazi di libertà per tutta la cittadinanza.
Ogni lotta, presa per sé, ha le sue ragioni, i suoi limiti e le sue difficoltà, ma tutte le lotte emancipative, insieme, condividono un orizzonte di maggiore democrazia e di riequilibrio nei rapporti sociali e tra territori diversi. Non è un compito facile, perché ci sono ambiti nei quali le istanze particolari di questa o quella vertenza sembrano confliggere. Per esempio, la richiesta di lavoro con le tutele ambientali o il contrasto al militarismo; il diritto alla mobilità interna e alle possibilità migratorie con la lotta per le giuste retribuzioni e la salvaguardia del tenore di vita dei ceti meno abbienti.
In realtà, queste sono spesso dicotomie artificiosamente innescate allo scopo di indebolire le lotte. Chi gestisce la comunicazione e le leve decisionali, chi dispone di grandi risorse economiche e può mettere persone di fiducia dentro le istituzioni che contano, ha gioco facile ad ad alimentare una guerra tra poveri o un conflitto tra territori o tra categorie sociali. Su questo va sempre mantenuto un grado di lucidità e di lungimiranza molto alto.
Ogni conquista di un diritto non lede la sfera dei diritti già esistenti. La mia libertà non finisce dove inizia la tua, ma esattamente il contrario: la mia libertà inizia dove inizia la tua e finisce dove finisce la tua.
Per le autonomie e i processi di autodeterminazione vale lo stesso discorso. Se cadiamo nella trappola della competizione come regola fondamentale delle relazioni umane, allora non c’è scampo. Se invece rifiutiamo questo quadro, egemonicamente imposto a vantaggio delle classi dominanti, di colpo ci rendiamo conto che si può lottare per forme crescenti di autogoverno dentro un quadro solidale, cooperativo e culturalmente aperto, e al contempo condividere le battaglie ambientali e quelle per la giustizia sociale, senza perdere alcuna delle proprie ragioni né sacrificare i propri obiettivi.
È un discorso largamente inattuale, questo. Il mondo (ossia le élite globali) cospira per renderci sempre più ostili verso il prossimo, sempre più diffidenti verso l’altro da noi, sempre più relegati dentro le nostre “bolle” autoreferenziali. Cedere definitivamente a questo andazzo, però, ci porterà solo guai. Come del resto sta già avvenendo.
Conclusioni
Le forze conservatrici stanno già reagendo con i propri ingenti mezzi e nel proprio interesse particolare alla vasta crisi sistemica che stiamo attraversando. Le forze democratiche, in tutte le loro declinazioni e articolazioni, devono cominciare a rispondere a loro volta.
Il tema delle autonomie e delle forme di decentramento politico, le rivendicazioni delle minoranze e dei popoli senza stato devono necessariamente innestarsi dentro un grande processo di emancipazione collettiva e di democratizzazione, oppure rischiano di diventare ostaggio delle forze conservatrici o addirittura reazionarie e repressive, come capro espiatorio e bersaglio di comodo e/o come espediente per qualche forma di rivoluzione passiva.
È un rischio da tenere presente, insieme alle altre questioni a cui questo tempo ci chiama a rispondere. Sarà bene farlo con fantasia e generosità, dentro gli spazi e le condizioni in cui viviamo e si articolano le nostre relazioni, finché possiamo.
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