Sa die a pustis de "Sa Die"
- Autore: Omar Onnis - Cagliari, 29 aprile 2025
La Sardegna ha appena celebrato il 28 aprile 2025 il suo annuale "Sa Die", la propria festa "natzionale". Nonostante l'indifferenza, il fastidio, le banalizzazioni di cui è fatta oggetto dai ceti politici centralisti al potere, la giornata non perde di significato, anzi è fonte di speranza. I Sardi la vivono come momento di autonomia spirituale e culturale, che sono fondamento di ogni autogoverno, come ci ricorda la Carta di Chivasso. Omar Onnis, il giorno dopo "Il Giorno", ne scrive per il Forum 2043.
Sa Die de sa Sardigna: storia, significati, speranze
Il 28 aprile in Sardegna si celebra – o meglio, si dovrebbe celebrare – la festa nazionale sarda, sa Die de sa Sardigna (il Giorno della Sardegna). Nel 1993, con legge regionale, fu stabilito infatti che ogni anno, in tale data, si sarebbe dovuto rievocare il 28 aprile 1794, quando un moto popolare prese il controllo della città di Cagliari, esautorò il governo sabaudo, arrestò tutti i funzionari stranieri, viceré in testa, e dopo pochi giorni li rispedì oltremare. È la cosiddetta “di’ de s’aciapa” (il giorno della caccia), quando si frugavano case e strade della città in cerca di stranieri da destinare all’imbarco. Una sorta di 14 luglio sardo. In seguito alla “cacciata dei Piemontesi” il governo fu assunto nell’isola dalla massima magistratura del Regno, la Reale Udienza, e la gestione politica fu condivisa col parlamento dei tre stamenti (analogo al parlamento francese dei “tre Stati”), a sua volta autoconvocatosi sul principio dell’anno precedente, a quasi un secolo di distanza dall’ultima volta (anche qui, similmente al caso francese), per organizzare la difesa dell’isola dall’attacco della stessa Francia rivoluzionaria, data l’inerzia del viceré Vincenzo Balbiano.
Quel 28 aprile si inseriva dunque in una più articolata sequenza di eventi, che si concluderà, dopo varie fasi, solo nel 1812, l’anno “della fame” nella memoria popolare, allorché un ultimo tentativo di riaprire la partita rivoluzionaria contro il governo sabaudo e il regime feudale, ancora in vigore, fu stroncata dalla durissima repressione del viceré Carlo Felice.
Il nucleo principale del periodo rivoluzionario sardo di solito è indicato nel triennio tra il 1794 (cacciata del viceré e di tutti i funzionari stranieri) e il 1796 (fallito tentativo di prendere il potere da parte di Giovanni Maria Angioy), ma come detto i fermenti durarono ancora a lungo. Del resto siamo nel bel mezzo del periodo napoleonico, quando le armi francesi portavano con sé in tutta l’Europa promesse di grandi cambiamenti politici e sociali.
La peculiarità della rivoluzione sarda, rievocata e riassunta nella data del 28 aprile, è che essa nacque e si svolse su una base di rivendicazioni e di programmi tutta endogena. Certo, influenzata dalle idee nuove che da decenni circolavano nel Vecchio Continente, ma non maturata in conseguenza di un’occupazione straniera bensì, un po’ paradossalmente, esplosa proprio in seguito alla vittoriosa difesa contro il tentativo di occupazione francese. Alla Francia, dopo il 1796, i leader del movimento rivoluzionario sardo, quelli scampati alla prigione o alla forca, si rivolsero in cerca di rifugio e poi di aiuto per liberare la Sardegna dal giogo della monarchia sabauda e del feudalesimo. Diversi di loro moriranno in esilio, a cominciare da Giovanni Maria Angioy (nel 1808), considerato la figura principale di tutto questo periodo. Le loro aspettative rimarranno frustrate, soprattutto a causa dell’interferenza delle questioni internazionali e dei mutevoli piani napoleonici sulla vicenda sarda. I Savoia per altro si rifugiarono armi e bagagli in Sardegna nel 1799, quando il Piemonte fu occupato dalla Francia. Non mostrarono mai particolare gratitudine, per questa ospitalità, pure pagata dal bilancio del regno sardo a carissimo prezzo. La corte sabauda lascerà l’isola solo nel 1814.
La rivoluzione sarda fu sconfitta. Non la prima né l’ultima rivoluzione che mancò i suoi obiettivi. Ma, nonostante la sconfitta, quello rivoluzionario resta un momento nodale della storia dell’isola. Dalla reazione a quel tentativo di cambiamento politico radicale emergerà la Sardegna contemporanea, con molti dei suoi problemi strutturali già chiaramente delineati fin dal principio dell’Ottocento. Soprattutto la relazione tra la classe dirigente locale – quella rimasta fedele a Casa Savoia – e il centro del potere esterno da cui dipendevano le sorti della Sardegna sarà paradigmatica di un assetto politico che, mutatis mutandis, resterà sostanzialmente molto simile fino ai nostri giorni. Una classe dirigente locale votata a un ruolo di intermediazione tra gli interessi e i piani del centro del potere legittimo esterno e la realtà dell’isola, certamente con indubbi guadagni e privilegi per sé.
La Sardegna fu consegnata allora a un destino di subalternità e di impoverimento che scandalizzavano persino alcuni osservatori contemporanei, come il console francese nell’isola nella sua relazione del 1816 (riportata da Fernand Braudel: non ne troverete traccia in alcun libro di storia italiano o sardo). Una terra “al centro della civiltà europea” lasciata languire e ove possibile depredata. Alcune riforme furono decise negli anni della Restaurazione come misure calate dall’alto e come generose concessioni, senza alcun vero spirito innovatore. Una, nel 1820, fu l’editto “sopra le chiudende”, che stabiliva la possibilità di appropriarsi privatamente di qualsiasi porzione di territorio fosse stato “chiuso”, un po’ sulla scorta delle enclosure inglesi del XVII secolo. Tale misura, che fece sentire i suoi effetti soprattutto nel decennio successivo, comportò un profondo mutamento nel regime fondiario che si tradusse in una traumatica transizione economica a danno dei ceti popolari. Una delle prime “modernizzazioni” passive cui la Sardegna da allora è stata sottoposta, sempre con promesse di progresso e benessere seguite da clamorose delusioni. Nel 1827 fu abrogata la Carta de Logu, raccolta legislativa varata nel 1392 da Eleonora d’Arborea e rimasta in vigore nei secoli del Regno di Sardegna spagnolo e poi sabaudo, con la promulgazione del nuovo codice civile. Tra 1836 e 1839, con diversi editti, fu abolito il regime feudale, facendone pagare il prezzo, sotto forma di indennizzi ai baroni, alle stesse popolazioni che lo avevano subito fino allora.
Il malcontento delle classi popolari verso i Piemontesi restò sempre vivo, emergendo a fasi alterne. Ancora a distanza di mezzo secolo dal triennio rivoluzionario, quando la Sardegna fu di nuovo in fermento per l’aspettativa di riforme, tra 1847 e 1848, la preoccupazione dell’amministrazione sabauda fu che potesse esplodere un “nuovo novantaquattro”, come scrisse in una sua relazione al governo Carlo Baudi di Vesme (intellettuale ed erudito, direttore delle miniere di Iglesias). La diffidenza dei Savoia e in generale della classe dirigente piemontese verso i sardi non venne mai meno. Una parte della classe dirigente isolana negli stessi mesi richiese la “fusione” politica e giuridica tra la Sardegna e i possedimenti sabaudi di terraferma. Fino a questo momento il Regno di Sardegna propriamente detto era appunto la Sardegna. I Savoia ne detenevano la corona, ma avevano tenuto ben distinti giuridicamente e amministrativamente dall’isola i propri possedimenti dinastici sulla terraferma. La “fusione” fu un passaggio irrituale e senza alcuna copertura legale, che tuttavia il re Carlo Alberto approvò proprio per tacitare i movimenti di protesta diffusi nell’isola. Le proteste tuttavia non cessarono, tanto che il re dovette nominare un commissario militare straordinario per sedare il movimento popolare e riportare l’ordine. Lo stesso gruppo sociale che aveva richiesto la fusione si accorse ben presto di aver fatto un pessimo affare.
La fine del plurisecolare Regno di Sardegna, delle sue leggi, delle sue istituzioni, sancito ulteriormente con la concessione dello Statuto albertino nel 1848, non comportò alcun vantaggio. Anzi, l’estensione del catasto e del regime fiscale piemontese all’isola provocò conseguenze drammatiche a livello socio-economico. L’unificazione italiana, di lì a pochi anni, consacrò la definitiva riduzione della Sardegna a porzione oltremarina, marginale e periferica del nuovo stato. Da qui in poi inizierà la “questione sarda” e nasceranno e si svilupperanno nel tempo il pensiero autonomista e quello indipendentista.
La vicenda rivoluzionaria sarda ha sempre rappresentato un problema, per la classe dirigente sarda, compresa quella intellettuale. Poche le voci che la rievocheranno, nel corso dei decenni tra Otto e Novecento. Due in particolare: il poeta Sebastiano Satta e Antonio Gramsci. Resteranno eccezioni.
Dopo l’unificazione italiana, a parte qualche raro esempio e qualche pubblicazione occasionale, per avere una trattazione storiografica organica ed esaustiva sul periodo sabaudo e sulla rivoluzione sarda bisognerà attendere il 1984, a quasi due secoli dai fatti. In particolare sarà lo storico Girolamo Sotgiu, nel suo Storia della Sardegna sabauda, a ricostruire nei dettagli e chiarire nei suoi aspetti fattuali e nei suoi contorni politici, l’intera vicenda. Non senza l’ammonimento sul possibile uso politico della conoscenza di quei fatti. Uno strano ammonimento, in un testo storico. Non deve stupire. Ancora oggi, a leggere i documenti e le testimonianze dell’epoca (come l’inno Su patriota sardu a sos feudatàrios, la “marsigliese” sarda), la rivoluzione sarda, rievocata nella giornata del 28 aprile, ci chiama in causa e ci pone domande. Troppe cose di quel tempo suonano ancora oggi troppo familiari, per non indurre riflessioni critiche sul nostro passato recente e sul nostro presente. Per questo la ricorrenza del 28 aprile, dopo i primissimi anni di celebrazioni pubbliche, con grande concorso di folla e notevole partecipazione emotiva (ne esistono in rete testimonianze video), è stata ridimensionata e oscurata dalle stesse istituzioni autonomiste.
Gli studi in proposito, dopo l’insuperato lavoro di Girolamo Sotgiu, sono stati limitati e la narrazione su quel periodo stereotipata e riduttiva. Non è solo un fatto di sciatteria culturale e politica. È del tutto comprensibile che per la classe dirigente sarda di oggi suoni minaccioso l’esempio di una classe dirigente diversa, di un ceto politico e intellettuale che non perseguì il proprio esclusivo interesse egoistico né si limitò a elaborare astrattamente principi e obiettivi virtuosi, ma se ne fece portatore attivo presso i ceti popolari, mettendosi in gioco nel tentativo coraggioso, anche a costo della vita, di mutare in meglio le sorti della Sardegna.
Ultimamente l’associazione ANS (Assemblea Natzionale Sarda), che ha come obiettivo la crescita culturale, civile e democratica dell’isola, ha assunto il compito di rilanciare la celebrazione di Sa Die e lo fa ormai da alcuni anni, senza alcun finanziamento pubblico e contando solo sul lavoro volontario dei propri associati e sul sostegno di alcuni sponsor privati. I risultati sono buoni e in crescendo. La sensibilità su questi temi e la sete di conoscenza storica sono molto forti in Sardegna, trasversalmente alle condizioni anagrafiche e sociali, a dispetto della noncuranza delle istituzioni e delle difficoltà a far entrare la storia e la cultura della Sardegna nella scuola italiana.
Il rilancio della festa del 28 aprile non è solo una questione nostalgica, una rivendicazione revanscista. È invece la doverosa riappropriazione di un momento storico decisivo, della cui conoscenza l’opinione pubblica sarda e internazionale è stata a lungo privata, ed è un momento di riflessione politica democratica ed emancipativa, di cui l’isola ha assoluto bisogno.
Intervento di Omar Onnis (scrittore, studioso, autore di https://sardegnamondo.eu/) per il Forum 2043 - Cagliari, 29 aprile 2025
Note
L'immagine a corredo dell'intervento è tratta da https://www.regione.sardegna.it/notizie/sa-die-de-sa-sardigna-il-28-aprile-spettacolo-a-cagliari
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