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Autonomismo

80 anni di resistenza, autonomia, libertà

Oggi 7 settembre 2024, la Valle d’Aosta celebra l’ottantesimo anniversario della propria Resistenza, dell’avvio del progetto dell'Autonomia, della rivolta dei propri "maquisards" che la condusse alla Liberazione, una vicenda storica ispirata dai valori della Carta di Chivasso.

E' in valle anche il presidente della Repubblica, il prof. Sergio Mattarella, che nei suoi interventi di oggi ha sottolineato il valore dell'autonomia della Valle nella cornice della Repubblica delle Autonomie e dell'unità europea.

Per approfondire questa importantissima celebrazione:

https://www.regione.vda.it/autonomia_istituzioni/origini/autonomismo_i.asp

https://www.80-autonomie-vda.eu/

https://www.lepeuplevaldotain.it/blog/la-valle-daosta-celebra-lottantesimo-anniversario-della-resistenza-alla-presenza-del-presidente-mattarella/

Aosta, 7 settembre 2024 - a cura della segreteria interterritoriale

 

Autonomie e Ambiente in tutti i territori - Incontro con la segreteria

A seguito del notevole interesse riscosso dal contributo di OraToscana al Forum 2043 sulla dignità e i poteri del consigliere comunale, Mauro Vaiani, membro della segreteria interterritoriale, ha accettato di commentarlo, affrontando anche altri temi d'attualità, nella nostra resistenza al centralismo autoritario e, nell'attualità politica, al presidenzialismo. La sintesi della conversazione, rivolta a tutti gli amministratori locali civici, ambientalisti, autonomisti, è una occasione per uno sguardo d'insieme sulla rete Autonomie e Ambiente. La sorellanza è uno strumento politico ed anche elettorale (per combattere le leggi elettorali ingiuste, che impediscono alle comunità di eleggere i loro leader locali). Sotto la guida del Patto per l'Autonomia, vogliamo incidere, non in solitudine ma insieme ad altre forze civiche, ambientaliste, localiste, riformiste, sul futuro della Repubblica delle Autonomie e, ancora di più, per una nuova Europa delle autonomie personali, sociali, territoriali, a partire dalle elezioni europee del maggio 2024. Undici minuti di ascolto.

 

Per contattare la rete Autonomie e Ambiente: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

Autonomie e sussidiarietà, speranze e realtà

  • Autore: Mario Ascheri - Siena, 2 febbraio 2025, Festa della Candelora

Mario Ascheri è nato a Ventimiglia nel 1944. Si è laureato in Giurisprudenza a Siena, come borsista del Collegio Mario Bracci nella Certosa di Pontignano e nella città ha messo radici. Già docente di storia del diritto e delle istituzioni a Sassari, Siena, Roma 3 e membro del Beirat del Max-Planck-Institut di Frankfurt/Main, è nel Consiglio dell’Istituto storico italiano per il Medioevo. E' un antico amico delle autonomie e in particolare degli autonomisti che nei primi vent'anni del XXI secolo si sono tenuti in contatto con la newsletter Toscana Insieme. Pubblichiamo alcune sue riflessioni sulle autonomie, risalenti al 2022 e già in gran parte diffuse attraverso la rivesta "Libro Aperto" e in altri interventi. Nonostante lo scarto evidente fra le speranze e la realtà delle autonomie delle regioni italiane, la sussidiarietà non perde attualità, come principio cardine della nostra storia e nella nostra Costituzione. Le autonomie personali, sociali e territoriali fioriscono solo nella sussidiarietà, come processo dal basso verso l’alto. Nessuno più dei lettori del Forum 2043 e di coloro che sono ancorati ai principi della Carta di Chivasso, ne comprende l’importanza.

* * *

Tra le speranze costituzionali e le eredità di questi lunghi decenni repubblicani, qualche riflessione recente può essere utile all’importante dibattito in corso.

Un libro del 1976, che si può a ragione ritenere un ‘classico’ per gli specialisti, tracciava «un bilancio obiettivo e disincantato» della prima legislatura regionale, del 1970-1975, cogliendo le nuove istituzioni in un momento di transizione, destinato a riproporsi ancora una volta oggi. Già allora da parte di Franco Bassanini1 si poteva ammettere che quella legislatura «non ha, a ben vedere, né realizzato né definitivamente distrutto le speranze di chi ha visto nell’istituzione delle Regioni l’innesco di un grande movimento di rinnovamento e riforma del nostro assetto istituzionale, capace di investire contemporaneamente l’amministrazione centrale ed il governo locale». Quali i problemi e le speranze? l’Autore ne proponeva questa acuta sintesi2:

“Avviata cinque anni fa tra grandi speranze e grandi timori, la riforma regionale è giunta oggi ad una svolta decisiva. Il modello di Regione ‘politica’ delineato nella Costituzione e negli statuti regionali – come essenziale punto di snodo tra Stato e comunità locali – implica importanti riforme istituzionali: dal trasferimento alle Regioni e agli enti locali di rilevanti poteri e di ingenti risorse finanziarie ancora gestiti dalle burocrazie ministeriali, alla soppressione di gran parte degli enti pubblici funzionali che costituiscono la trama del pluralismo perverso e del clientelismo a sfondo corporativo su cui sono costruite, in buona misura, le fortune del sottogoverno nazionale: da una generale riforma del governo locale, ancora regolato da leggi fasciste o prefasciste, ad una radicale riorganizzazione delle amministrazioni centrali dello Stato, che si trasformi da organi di gestione burocratica e routinière di poteri di amministrazione attiva in strumenti efficienti di programmazione, indirizzo e coordinamento. Se queste riforme non saranno attuate o almeno avviate nel corso della seconda legislatura, finirà per consolidarsi il modello della ‘Regione amministrativa’ rendendo inevitabile la burocratizzazione degli apparati regionali e irresistibile la tendenza a ridurre il ruolo delle Regioni alla distribuzione di sovvenzioni contributi ed incentivi ed alla gestione di servizi locali in concorrenza con comuni e province (…)”.

La citazione è lunga, ma a distanza di quasi 50 anni quella riflessione, anche tenuto doverosamente conto di quanto sta emergendo dal dibattito in corso, il trend risultato prevalente, naturalmente con luci ed ombre, è per lo più quello che Bassanini paventava. I motivi sono molto complessi e ben noti ai giuspubblicisti e ai politici più attenti, tanto che i media hanno difficoltà a comunicarli al pubblico più largo senza semplificarli seguendo gli slogan degli schieramenti politici. E già questo è un problema se ci si vuole dare, come doveroso, una nuova prospettiva: positiva.

La riforma del 2001, come si sa, all’art. 118 ultimo comma proclamava che

“Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”.

Si sa bene, anche, che tra i promotori culturali - per così dire - della riforma ci fu la onlus Cittadinanza Attiva fondata nel 19783 e radicata com’è naturale in modo diversificato nel Paese, ma con buona capacità di aggregare anche altri gruppi di partecipazione politica non inquadrati nei partiti.

Il suo animatore Antonio Gaudioso ha lasciato la segretaria generale a marzo del 2021, dopo aver assunto incarichi presso l’Istituto superiore di sanità e in commissioni governative (come la LEA, per i Livelli Essenziali di Assistenza) grazie alla fiducia del ministro Roberto Speranza4. Gli è succeduto Anna Lisa Mandorino, che nel suo discorso di insediamento (caricato nel web5) ha parlato molto dei problemi sanitari, ovviamente, ma anche dei temi tradizionali della partecipazione civica, del terzo settore, dei beni comuni, delle disuguaglianze cui porre argine ecc. ecc. Non però della sussidiarietà del 2001, pur essendo essa ben presente nell’utile sito dell’associazione. Il quale interpretava in modo articolato la riforma. Da un lato infatti ricordava

“che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni necessarie per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività (corsivi miei, n.d.a.). L'intervento dell'entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l'autonomia d'azione all'entità di livello inferiore”.

Insomma, qui il potere pubblico è auspicato sussidiario rispetto al privato, che come potere operativo può essere momentaneamente in difficoltà. Dall’altro lato si vedeva sussidiarietà, come

“un elevato potenziale di modernizzazione delle amministrazioni pubbliche, in quanto la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva può concorrere a migliorare la capacità delle istituzioni di dare risposte più efficaci ai bisogni delle persone e alla soddisfazione dei diritti sociali”

per cui sussidiario diviene il

“cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi intermedi, (che) deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine”.

Si esemplificava con la

“cura dei beni comuni. Entrambi, volontari e cittadini attivi, sono ‘disinteressati’, in quanto entrambi esercitano una nuova forma di libertà, solidale e responsabile, che ha come obiettivo la realizzazione non di interessi privati, per quanto assolutamente rispettabili e legittimi, bensì dell'interesse generale incrociandosi nella propria opera, s’intende, per irrobustire l’intervento pubblico”.

Sussidiarietà biunivoca per così dire, perché l’uno sussidia l’altro in situazioni diverse: i cittadini per essere più liberi; le istituzioni pubbliche per realizzare meglio gli interventi socialmente più rilevanti. Sono posizioni coerenti da un lato con la crisi dei partiti e con il variegato e disperso associazionismo civico che i partiti sussidiano (ecco altra situazione ancora di sussidiarietà) fino al punto di surrogarli addirittura. Quanto sembra avvenuto con il Movimento 5 stelle, che inevitabilmente ha assunto i connotati del partito più o meno ‘tradizionale’ - se pur ancora esso esiste, altrimenti il Movimento fu, come sempre ho pensato, partito sin dall’esordio, mutato nomine pour cause. Dall’altro lato la coerenza è con la crescente difficoltà delle istituzioni pubbliche di soddisfare le aspettative dei cittadini, anche per contrastare una spesa crescente ma inefficiente.

Tuttavia se andiamo a un testo accreditato come la Treccani leggiamo:

“principio di s., il concetto per cui un’autorità centrale avrebbe una funzione essenzialmente sussidiaria, essendo ad essa attribuiti quei soli compiti che le autorità locali non siano in grado di svolgere da sé. Con interpretazione più recente, con riferimento alla Comunità europea e, in particolare, alla successiva Unione degli Stati europei, il principio secondo il quale dovrebbe essere riservata alla Comunità, come organismo centrale, l’esecuzione di quei compiti che, per le loro dimensioni, per l’importanza degli effetti, o per l’efficacia a livello di attuazione, possono essere realizzati in modo più soddisfacente dalle istituzioni comunitarie che non dai singoli Stati membri“ (corsivi miei).

Qui i cittadini sono solo destinatari indiretti della sussidiarietà, che riguarda il rapporto migliore possibile tra il potere centrale e le articolazioni periferiche, per così dire. Ed è alla sussidiarietà che secondo un principio di astratta razionalità istituzionale dovrebbe attenersi lo Stato nazionale nel rapportarsi alle Regioni e agli enti locali. Tutto quel che è possibile, in altre parole, si dovrebbe poter fare a livello locale in coerenza con l’art. 5 Cost. per cui

“La Repubblica (…) riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei suoi servizi il più ampio decentramento amministrativo e adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

Sennonché, com’è ovvio, quelle comunità sono riconosciute come originarie, ma è tutt’altro che esplicitato cosa debba intendersi per esigenze delle autonomie e del decentramento, trovandoci di fronte a uno di quegli articoli che per la loro genericità sollecitarono la critica inesorabile di Arturo Carlo Jemolo6.

Peraltro, la vicenda sanitaria in corso ha mostrato la inevitabile elasticità interpretativa e applicativa della Costituzione (anche quando è chiara) in base a criteri lato sensu politici, i quali erano ovviamente ispiratori della riforma del 2001 e della proposta cui Matteo Renzi ha affidato il suo nome.

Già, ma la polisemia di sussidiarietà, dal significato inter-istituzionale a quello partecipativo civico di Cittadinanza attiva, mette in guardia sulla sua inevitabile storicità. Non esiste una sussidiarietà atemporale, ma solo quella nell’ hic et nunc della contingenza politica più o meno lunga e stressante, com’è la nostra.

Pertanto l’esperienza storica, non solo nostra, sembra indicare che la sussidiarietà risponda a un giudizio descrittivo di una realtà complessa cui si vuole dare ordine. Di fronte al pullulare più o meno pre-ordinato e/o sovraordinato di poteri, si cerca di dare loro una coesistenza ordinata ricorrendo a quella specie di mantra che è la sussidiarietà.

Con l’indebolirsi dei servizi pubblici, l’organizzazione privata dei cittadini legata a problemi specifici, e non politici generali, ha reso utile la recezione della sussidiarietà e ha motivato dall’alto livello costituzionale le normative ad essa ispirata a favore del terzo settore e del volontariato.

Che poi la soluzione più razionale sia quella così rafforzata dal superiore livello normativo, non sembra quesito astrattamente risolvibile. Un tempo si diceva per altre questioni entia non sunt multiplicanda al di là del necessario e il rasoio di Occam era uno strumento idoneo nel suo mondo. Oggi non solo si può parlare ancora di ‘enti inutili’ (per lo più intangibili, però), ma non sembra che si faccia nulla per evitarne la creazione di nuovi.

Un qualsiasi bisogno legittima un ente se supportato dalla giusta pressione politica e mediatica.

L’oratoria politica e la sua pervasività grazie a media compiacenti è fortissima a tutti i livelli.

Basta usare il mantra giusto. Le novità e la pluralità istituzionale concorrenziale in senso positivo che le Regioni dovevano attivare, nei propositi dei più ad esse favorevoli, non sembrano aver avuto luogo nel loro complesso. I vari livelli di potere, come avvenuto di regola nella storia delle istituzioni, si ritagliano spazi di potere che curano di salvaguardare con grande attenzione e nel nostro caso le molte cause motivate dai conflitti Stato-Regioni discusse dalla Consulta l’attestano chiaramente.

Quella riforma politica e amministrativa che si era largamente condivisa si deve purtroppo riconoscere che è rimasta per lo più non realizzata nei termini largamente auspicati, mentre anche l’Unione europea ha dato prove assai deludenti contro ogni aspettativa. Nel caso italiano, la nostra cultura giuridica ha costruito come sempre belle dottrine, ma la loro applicazione ha lasciato desiderare, affidata inevitabilmente a un ceto dirigente in larga misura inaffidabile o inconcludente.

Il problema è grave perché è profondamente radicato nella nostra storia: codici e Costituzione non bastano a evitare intrecci perversi come quelli che si sono manifestati palesemente ad esempio nella magistratura.

Il più grande giurista italiano nel Seicento, il card. Giovanbattista De Luca, inutilmente fautore di riforme nello Stato pontificio, sintetizzò il nostro DNA in poche parole:

“Theoricae generales idealiter ac in abstracto sunt verae, sed difficultas est in earum reductione ad praxim7”.

Sono tornato a lui – un grande “pratico”, che non fu mai professore - non a caso. Perché il vituperato tardo medioevo e l’età d’antico regime non ebbero in generale solo meno enti e livelli decisionali. Ci fu qualcosa di più: erano spesso anche meglio collegati tra loro, con la “rete” cui taluni oggi pensano. E proprio grazie al principio di sussidiarietà di cui nessuno parlava perché non concettualizzato.

Eppure, senza per ovvi motivi proporsi i grandi mantra partecipativi con la pervasività attuale, allora i poteri eminenti, principe o città dominante o signore feudale, si riservavano i poteri politico-militari dell’ente, la giustizia maggiore, le strutture portuali e viarie fondamentali e lasciavano per lo più ai poteri comunali locali la gestione dei beni pubblici, della sanità, dell’istruzione, delle strutture essenziali dai mulini ai pozzi e alle fonti, alla polizia campestre, alla tutela di ospedali, ospizi e chiese locali. Chi poteva permettersele, chiamava addirittura delle super-star da fuori (come s. Bernardino, ad esempio) per la predicazione della Quaresima e creava un “evento” di grande risonanza.

Quello che viene bollato come particolarismo e frammentazione giuridico-politica pre-codicistica si resse in gran parte sulla abnegazione delle comunità grandi e piccole prive di libertà politica e sottoposte a balzelli più o meno gravi, ma per il resto dotati di una libertà (vigilata, s’intende) di autorganizzazione talora impressionante.

Quel livello di governo locale, senza libertà politica sia chiaro, consentì però il radicamento di pratiche di partecipazione anche larga al governo della cosa pubblica con ampia rotazione nelle cariche e la loro sostanziale gratuità: nelle comunità minori demograficamente furono non infrequenti consigli comunali con un membro partecipante per nucleo famigliare. Quando non formalmente contrattuale, come pure avveniva per le realtà più importanti e da ‘coccolare’ con attenzione perché poste sui confini (e quindi esposte alle lusinghe dello Stato confinante), il rapporto del potere centrale con le comunità locali era per lo più prudente.

Non era solo questione di sempre possibili ribellioni dei residenti locali con devastazione delle proprietà cittadine in loco, ma di riserve reclutabili per i servizi militari e di forza lavoro da utilizzare nel capoluogo.

La separatezza centro-periferia fu sicuramente dura, per lo più, ma la sussidiarietà era imposta dalla mancanza pressoché totale di burocrazia e dalla comodità di fare affidamento sulle forze locali fortemente interessate al buon funzionamento di una serie di servizi che avrebbero altrimenti richiesto un impegno pesantissimo per il potere centrale.

L’inefficienza se non l’egoismo e il semplice disinteresse del centro facilitò la sussidiarietà, sempre diversa nel tempo qua e là, ma prassi radicata, operante senza tanti proclami formali. La sudditanza non era servitù e le comunità più cospicue seppero conservare molte delle libertà di governo originarie.

Pensiamo alla identità delle città venete sotto Venezia, o a quelle pontificie da Bologna a Perugia a Orvieto, o lombarde sotto Milano, alle piemontesi, alle toscane, o alle stesse città demaniali e feudali del sud.

Non c’era uniformità di disciplina, è ben vero, ma c’era la stessa tradizione di autogoverno che educava un ceto dirigente più o meno aperto ai bisogni della cittadinanza, e comunque dedito ad essi, in pura osservanza nei fatti della sussidiarietà. E il suo peso per i ceti locali poteva anche essere fatta valere con forza, come avvenne nei parlamenti dello Stato pontificio o in quelli più potenti: siciliani e sardi soprattutto8.

La differenza delle normative locali significava disuguaglianza, non c’è dubbio. Ma aveva dei risvolti soggettivi, di formazione e rafforzamento dell’autocoscienza identitaria, e risvolti oggettivi di relativa semplicità amministrativa, tanto lontani dalla complessa gestione centralistica studiata per il reddito di cittadinanza. Possibile che non si sia pensato di ricorrere a sistemi d’assistenza diretta locale come quella un tempo assicurata da enti comunali come quelli denominati Eca? Non potevano ora essere potenziati? Perché ricorrere a strane categorie di intermediari risultati poi inutili – come era prevedibile?

Per tornare a quel passato dimenticato, è vero che non c’era un governo centrale solidale sul quale poter contare nelle emergenze. Bisognava imparare a far da sé per lo più, sapendo imparare e creando comunità credibili. Ad esempio, favorire un’immigrazione qualificata era importante. La concorrenza dei centri locali non c’era proclamata apertis verbis, ancora una volta, ma c’era nei fatti, com’era nei fatti – anche con pesanti risvolti violenti tra vicini – la tutela dei confini per le proprie bestie, i coltivi, i frutti del bosco ecc.

E quella concorrenza inespressa era stimolo fortissimo al buongoverno locale.

Le cento e più città d’Italia, grandi e piccole, che tutti ammiriamo e sul cui passato costruiamo la nostra eccezionale realtà e potenzialità turistica, hanno secoli di autogoverno variegato alle spalle9. E persino regole deprecate poi, come il fedecommesso nobiliare, che poté però garantire la conservazione di strutture immobiliari importanti attraverso i secoli…

La discontinuità con quel mondo c’è eccome oggi, ma non sempre basta a connotare in modo positivo quello attuale10.

 

Dedicato a Gian Maria Varanini,
studioso molto attento alla storia dei rapporti tra i capoluoghi e i territori dipendenti,
che continuerà il suo impegno di ricerca
anche se ha ora terminato la sua docenza presso l’Università di Verona.

 

Autonomie e sussidiarietà, speranze e realtà
di Mario Ascheri

Siena, 2 febbraio 2025, Festa della Candelora

 

Note

1 Nel suo Le Regioni fra Stato e comunità locali, Bologna 1976, p. 5. Entro la abbondante bibliografia recente si veda Autonomie speciali e regionalismo in Italia, a cura di L. Blanco, Bologna 2020. Utile tra i periodici “Le Carte & la Storia”.

2 Nella pagina quarta di copertina, laddove concentrava il progetto-motivazione del libro.

3 Si veda al link https://www.cittadinanzattiva.it/chi-siamo.html (consultato il 10 settembre 2021).

4 Desumo dal link https://www.fortuneita.com/2021/03/28/nuovi-vertici-per-cittadinanzattiva/.

5 http://congresso2021.cittadinanzattiva.it/candidature-nazionali/segretario-nazionale.html.

6 Nel suo classico Che cos’è la Costituzione, ora con Introduzione di G. Zagrebelsky, Donzelli, Roma 1996, in cui la IV di copertina sintetizza efficacemente: «È bene che gli italiani tutti discutano appassionatamente i problemi costituzionali, ciascuno quelli che più sente… Come in tutti gli albori di nuovi assetti politici liberi, vi è una inclinazione al vago, alle formule che possono coprire le soluzioni più diverse. Bisogna, per quanto è possibile, che ciascuno cerchi di precisare le sue idee».

7 G.B. De Luca, Theatrum veritatis et justitiae, Venetiis, Apud Paulum Balleonium, 1716, tomus V, pars I: De usuris et interesse, adnotatio ad disc. 1, p. 10, n. 2.

8 Un rapido sguardo d’assieme nelle mie Istituzioni medievali, il Mulino, Bologna 1999, pp. 327-353. Sul problema discusso delle città-Stato ho messo una nota storiografica in https://ilpensierostorico.com/a-feud-on-italian-city-states-again-on-lorenzettis-buongoverno/.

9 Si veda ad esempio A. Dani, Cittadinanze e appartenenze comunitarie. Appunti sui territori toscani e pontifici di Antico regime, Historia et ius, Roma 2021 (con rinvii a precedenti lavori analitici).

10 Oggi molto discusso e incentrato, per aprire prospettive positive, sulla categoria delle ‘reti’, che dovrebbero appunto avviare alla soluzione dei problemi della complessità istituzionale; ricordo ad esempio il lavoro recente molto denso di L. Casini, Lo Stato nell’era di Google. Frontiere e sfide globali, Mondadori, Milano 2020.

 

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Autonomie non giravolte

Grazie a una meritoria iniziativa dei RossoMori, in particolare della segretaria Lucia Chessa (nella foto insieme a Silvia Fancello), si è tenuto oggi, venerdì 3 marzo 2023, a Nuoro un convengo sulla cosiddetta "autonomia differenziata". Per coloro che credono nell'autogoverno dei territori, è stata una occasione positiva. Uno degli interventi più brillanti è stato quello sull'autogoverno dell'energia, del territorio, dell'ambiente, dell'ing. Fernando Codonesu. Una tema, l'autosufficienza energetica con le rinnovabili, che è una opportunità per tutti i territori e per le generazioni future, purtroppo messa in pericolo dal combinato disposto di eccessi tecnocratici europei, discutibili sentenze della Corte costituzionale, oltre che dal solito irredimibile centralismo italiano.

Preoccupante è stato, invece, sentire accenneare, quasi con una punta di dispiacere, che la presidente Meloni non sia abbastanza forte per fermare le iniziative dei salvinisti. Ora, sia chiaro, come dettagliatamente sostenuto dal Forum 2043, le iniziative in materia di autonomia differenziata sono cialtronesche, forse anche pericolose, soprattutto strumentali e senza futuro, ma attenzione a schierarsi con i centralisti, che intanto ci preparano la deriva del presidenzialismo.

La cosa più triste di tutte, poi, è stato assistere alle tradizionali giravolte, il peggio del peggio della politica di oggi, non solo in Sardegna. Si avvicinano le elezioni? Tutti diventano disposti a parlare di "autonomie". Una folla di amministratori locali, di ogni schieramento, si apprestano a mostrarsi disponibili a riprendere il mano di una delle autonomie più tradite della nostra Repubblica, quella della Sardegna.

Per noi era presente Silvia "Lidia" Fancello, osservatrice EFA e rappresentante AeA in Sardegna. Più sotto i punti essenziali del suo intervento.

2023 03 03 In Sardegna No autonomia e non solo differenziata purtroppo

L'intervento di Silvia "Lidia" Fancello

AUTONOMIE DIFFERENZIATE: in equilibrio fra la follia e la costituzione inattuata

Buongiorno a tutti e tutte. Sono Silvia Lidia Fancello e sono qui in doppia veste: come osservatrice EFA e come rappresentante di Autonomie e Ambiente. L’EFA ovvero European Free Alliance, cioè Alleanza Libera Europea, ALE.

EFA ha sede a Bruxelles, è rappresentata nel parlamento europeo e coordina i partiti che rappresentano i cosiddetti “popoli senza stato”. In EFA sono presenti oltre quaranta partiti provenienti dai più svariati territori europei. Fra i più noti i baschi di Eusko Alkartasuna, gli scozzesi dello lo Scottish National Party, i catalani diEsquerra Republicana, l’Union Valdotain, i friulani con il Patto per l’Autonomia, i corsi di Femu a Corsica, i fiamminghi, i frisoni e tante altre realtà territoriali. EFA dunque è naturalmente vocata a promuovere e difendere il diritto all’autodeterminazione e dunque di tutte le autonomie.

La seconda veste, direttamente collegata ad EFA è quella di rappresentante diAutonomie e Ambiente, il coordinamento di partiti territoriali e movimenti civici e ambientalisti, impegnati per il più ampio autogoverno dei loro territori,eattivi nello stato italiano. Inutile spiegare che Autonomie e Ambiente, con l’aiuto di EFA, aspira a una Repubblica delle Autonomie.Siamo per la sussidiarietà che è anche solidarietà fra territori, per autonomie responsabili, perché ogni territorio trovi le sue modalità di difendere l’ambiente e la salute. Siamo contro ogni centralismo e quindi in prima lineacontro ogni forma dipresidenzialismo.

Noi siamo convinti che le Autonomie differenziate, così come proposte dagli attuali ciarlatani al potere, siano impraticabili e sbagliate. Si tratta in sostanza di una “boutade” elettorale volta a fare rientrare nel recinto della Lega quei movimenti localisti che in essa non si riconoscono o che se ne sono distaccati.

Condividiamo alcune analisi fatte da costituzionalisti come il prof. Villone, almeno per ciò che riguarda le negative conseguenze delle Autonomie differenziate, tuttavia restiamodistanti dallaretorica dell’attentato alla cosiddetta “unità” dello stato. Agitare lo spauracchio di un’Italia frantumata in tante “repubblichette”, questa è la parola spesso usata, non è ciò che NOI veri autonomisti condividiamo, perché ha un sottofondo dispregiativo che schiaccia ogni anelito alla diversità dei territori che compongono la Repubblica italiana e la negano di fatto. In un’altra sede accetteremmo la sfida di spiegarvi perché dietro il velo della retorica dell’unità italiana, si nascondono vergogne e ingiustizie. Di certonon parteciperemo a iniziative volte a perpetuare il tragicocentralismo italiano. Ne’ ci metteremo affianco a coloro che con la lancia in resta difendonola Costituzione, la quale per noi non è “la più bella del mondo”, ma piuttosto la piùinattuata.

L’autonomia differenziata del DDL Calderoli è ingarbugliata? Lo è. È un pasticcio? Lo è. È pericolosa? Si, lo è,

Tuttavia èbene che in questo paese si continui alottare per attuare seriamente leAutonomie che invece sono state tradite a partire dalla nostra in Sardegna, senza inutili levate di scudi, senza retorica e senza pregiudizi, ma piuttosto in un sereno e civile confronto con chi aspira ad un sacrosanto diritto all’autodeterminazione.

Concludiamo con un pensiero di Alcide De Gasperi (che essendo vissuto nell’impero asburgico l’autonomia sapeva cos’era e difese quella della sua terra trentina, almeno quella): “il successo finale non mancherà di premiare chi avrà avuto il coraggio dell'utopia...”.

E se il pieno autogoverno di tutti i territori dello stato italiano per qualcuno è un pericolo, per noi è speranza

A Innantis e Fortza paris

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Nella foto sotto Silvia Fancello insieme a Danilo Lampis (Sardegna chiama Sardegna) al convegno dei RossoMori.

2023 03 03 Fancello Lampis

 

 

 

 

Autonomisti in rinnovamento, unico argine al centralismo

  • Autore: Erik Lavévaz, Union Valdôtaine (già presidente della Valle d'Aosta) - Aosta-Trento, 12 aprile 2023

Il Nuovo Trentino ha pubblicato stamane un altro importante contributo dalla nostra rete per la Repubblica delle Autonomie, l'intervento di Erik Lavévaz, esponente della Union Valdôtaine e già presidente della Valle d'Aosta. D'accordo con il direttore Paolo Mantovan pubblichiamo qui, in serata, l'intervento integrale (titolo originale: Autonomie storiche al lavoro per il futuro).

L'autonomia speciale Valdostana ha, come quella Trentina, una lunga e articolata storia che si è sviluppata nel corso dei decenni e che ha portato ai nostri territori delle grandi opportunità, non sempre colte appieno. L'Autonomia è uno strumento da sfruttare a pieno per il vero obbiettivo, che è il benessere dei nostri territori.

Viviamo anche nell'estremo Nordovest della Repubblica un momento particolare della politica. Per molto tempo le dinamiche della politica nazionale hanno solo lambito, spesso in maniera quasi impercettibile, la politica della nostra piccola regione, quasi come se le nostre alte vette fossero un limite invalicabile per le sirene della politica romana. Oggi, ahimè, questa dinamica si è drasticamente modificata e anche le nostre montagne sono diventate più permeabili alle ondate di politiche populiste e nazionaliste.

Da un lato sicuramente questo è dovuto alla crescente circolazione, facilitata dalle reti sociali, di messaggi sempre più demagogici, più che alla bontà e alla credibilità delle proposte politiche provenienti da lontano, ma dall'altro, come scriveva in queste pagine poche settimane fa l'amico friulano Roberto Visentin, spesso il risultato politico negativo di una compagine autonomista è da attribuirsi più a demeriti propri che a meriti altrui.

La storia dei movimenti autonomisti valdostani nasce sulle orme della Carta di Chivasso, con una storia che quindi si avvicina agli ottanta anni. Decenni in cui la politica è cambiata molto e nei quali naturalmente anche le vicende umane e personali, che naturalmente sono tanto più incisive quanto più piccole sono le dimensioni della realtà di riferimento, hanno influito in maniera pesante. Il mio movimento, il partito storico autonomista Union Valdôtaine, ha subito scissioni e diaspore, in una progressiva polverizzazione di movimenti autonomisti che ha naturalmente facilitato l'attecchimento di partiti, movimenti e leader della scena politica statale.

Il grande sforzo per invertire questa dinamica divisiva e autolesiva che abbiamo portato avanti in questi ultimi anni si concretizzerà nel corso del 2023 in un evento organizzato in una data simbolica per il mondo autonomista, non solo valdostano: il 18 maggio, data della morte per mano dei nazi-fascisti del martire e padre dell'autonomia valdostana Émile Chanoux. In quella occasione formalizzeremo un percorso di ricomposizione del mondo autonomista, unico vero antidoto alla deriva nazionalista e passaggio necessario per il futuro dell'autonomismo della nostra piccola regione.

Come si dice spesso, l'autonomia richiede sforzi e sacrifici per essere difesa e mantenuta e questo è forse vero oggi più che mai nella storia repubblicana.

Nel nostro piccolo abbiamo portato avanti questi sforzi negli ultimi anni proprio per giungere oggi a poter raccogliere qualche frutto e poter immaginare un futuro per il nostro particolarismo.

Nelle ultime elezioni regionali del 2020 la Lega ha ottenuto la maggioranza relativa con 11 seggi sui 35 disponibili, con un ampio distacco sul secondo partito, l'Union Valdotaine, con 7 seggi. Nonostante questo siamo riusciti a formare una maggioranza con soli movimenti autonomisti e progressisti.

Alle scorse elezioni politiche, storicamente il momento in cui la permeabilità alla politica nazionale è più evidente, nei nostri collegi siamo riusciti ad eleggere con ampio margine il nostro deputato autonomista. La Lega ha invece eletto il senatore per poco più di duecento voti, a causa di una candidatura autonomista parallela, che ha di fatto vanificato gli sforzi degli altri movimenti autonomisti.

Ancora in queste ultime settimane abbiamo avuto una crisi politica all'interno del consiglio regionale. Il dibattitto è stato molto acceso e si è protratto per diversi mesi. Il motivo? Una tensione “filo-governativa-romana” all'interno dei movimenti autonomisti, una visione che nella logica di qualcuno avrebbe visto come una panacea per la stabilità politica regionale un accordo con la Lega Salvini, anche in una logica di facilità di rapporti con il governo romano. Un’idea semplice e pragmatica, apparentemente, ma in realtà una pietra tombale sul percorso, assolutamente vitale, di ricomposizione dei movimenti autonomisti.

Non sempre la soluzione più semplice è la soluzione migliore: l'autonomia e in prospettiva l'autogoverno richiedono impegno e sforzi più importanti, ma che sono ampiamente ripagati dalla prospettiva di essere liberi e responsabili del proprio futuro.

Erik Lavévaz

consigliere regionale Union Valdôtaine e già presidente della Valle d’Aosta

Aosta-Trento, 12 aprile 2023

2023 04 12 Erik Lavevaz fonte RTS

 

 

 

 

 

 

(fonte dell'immagine: https://www.rts.ch/audio-podcast/2020/audio/l-invite-de-la-matinale-erik-lavevaz-president-de-la-vallee-d-aoste-25169059.html)

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Centenario di Pruner

Omaggio a Heinrich (Enrico) Pruner, nel centernario della nascita

Ripubblichiamo qui, pressoché integralmente, un omaggio a Heinrich (Enrico) Pruner che fu scritto l'anno scorso dal figlio Walter Pruner, in preparazione del centenario della nascita: 24/01/1922 - 24/01/2021.  Ringraziamo Piercesare Moreni e Walter Pruner per la segnalazione.

Omaggio a Heinrich (Enrico) Pruner

La lunga marcia di avvicinamento verso l’Autonomia passa oggi attraverso il ricordo di un uomo che questa marcia iniziò, il 25 luglio 1948, con la fondazione del Partito Popolare Trentino Tirolese, e condusse fino alla sua scomparsa.

Enrico Pruner nacque a Frassilongo il 24 gennaio 1922: la comunità politica trentina, non solo quella autonomista, rimase l’8 settembre 1989 orfana di un politico che mise al centro della sua narrazione politica la persona, l’ Autonomia, l’Europa. Il suo orizzonte politico fu il benessere del singolo in un contesto di Autonomia diffusa ai territori e in un quadro di Europa dei popoli. Visione europeista ante litteram, azione politica tra la gente e per la gente, lettura di contesto e capacità di rapido cambio di passo ma non di rotta, lesse anche da sognatore l’attualità di allora in chiave di visione virtuosa di Trentino autonomista, orgoglioso e solidale.

Una eredità politica coerente ma complessa, quella lasciata dal leader mocheno, al quale una intera Comunità può guardare con gli occhi di chi l’Autonomia intese quale forma autentica e sincera di autogoverno, oltre ogni interesse di parrocchia.

La parte biografica del suo poliedrico impegno, che lo ha visto più che calcare, interpretare il proscenio della politica regionale per otto legislature, dalla 2^ alla 9^, è ampiamente nota.

Forse lo sono meno alcuni tratti di contorno che in ognuno di noi performano il nostro essere uomo e donna sociali. Non c’è persona senza una dimensione politica che non sia influenzata da quella personale. Portati di esperienze individuali sociali, culturali, familiari, fanno parte del bagaglio anche politico del singolo ad ogni livello, dal semplice elettore allo statista internazionale.

La nascita di Enrico nel cuore della Valle dei Mocheni è un dato determinante per comprenderne il carattere e la sua cultura interetnica. Alcuni semplici spunti. La povertà, la estrema arretratezza economica, l’insistenza di un dato linguistico diverso rispetto alla comunità trentina cui apparteneva, con un idioma identitario totalmente differente e che induceva nella migliore delle ipotesi la comunità altra ad un sospetto, ad una diffidenza preventiva, indussero la gens mochena a vivere, obtorto collo, da un lato il disagio di dover difendere una propria evidente peculiarità per nulla capita dalla mentalità nazionalista e post fascista del dopoguerra; dall’altra ad obbligarsi all’ adozione di adeguati contrappesi alla ricerca di un proprio riscatto sociale ed economico indurito, in questa gara della grande ricostruzione post bellica, da una indigenza e limitatezza di partenza senz’altro molto più grave che altrove.

All’interno di questo panorama il giovane Heinrich Pruner, come veniva chiamato fin da bambino, conclusi gli studi obbligatori, a soli 14 anni venne inviato al Liceo in lingua tedesca di Bolzano, con i soldi faticosamente accantonati dal papà Stephan, kromer come tantissimi capifamiglia mocheni, una sorta di venditore porta a porta che a piedi raggiungeva i masi dell’Alto Adige per vendere di ogni bene, rientrando due volte all’anno con i parchissimi guadagni ottenuti.

La bicicletta per raggiungere da Frassilongo la stazione di Pergine Valsugana, per qualche mese mimetizzata tra la vegetazione circostante, alla volta di Bolzano, il giovane quindicenne l’avrebbe poi ripresa da lì a molto tempo a Natale e Pasqua per rientrare nella sua Frassilongo solo per le pause scolastiche.

Ultimo di cinque figli, ancora adolescente rimase orfano di madre. L’unica donna di famiglia, la sorella maggiore Irma, entrò nel ruolo di madre e come accadeva normalmente in Valle, privata nella stragrande maggioranza dei casi della presenza del padre lavoratore fuori sede, ne diventò anche mater familias.

Conclusi gli studi liceali in lingua tedesca, passò a quelli universitari laureandosi a Bologna in Agraria. Convolerà a nozze il 2 maggio 1956 con Emma Pallaoro, con cui avrà quattro figli, Cristina, Sonia, Walter e Nadia.

E’ in questo connubio forte tra cultura rurale vissuta in prima persona, cultura universitaria fuori il proprio piccolo cortile di valle, e la curiosità insita nell’indole di Heinrich, che si formò l’approccio popolare alla politica. Quell’approccio che lo rese robusto e forgiato. Capace di rapportarsi empaticamente con l’ultimo dei contadini come con il primo dei funzionari. Con l’ultimo dei diseredati come con il capo di Partito. Storici i suoi comizi e le disfide con avversari sempre rispettati ma mai destinati di regalie o cortigianerie. Il cambio di passo, lo sguardo istrionico, la scelta dei tempi scenici e della metafora adatta lo hanno reso comprensibile ad ogni latitudine e longitudine sociale.

Quattro probabilmente le fasi politiche fondamentali, tra loro comunicanti, che si possono azzardare:
- Il periodo asarino formativo con la nascita del PPTT (Partito Popolare Trentino Tirolese) e la sua candidatura ed elezione a consigliere regionale nel 1952.
- Il periodo del governo regionale con l’assessorato alle Foreste e Agricoltura (1960/64) e il sanguinoso periodo delle bombe degli anni ‘60. Periodi di schedature, censure, informative e pedinamenti di cui fu vittima lo stesso Pruner.
- Gli anni ’70 e il secondo Statuto. Le grandi intuizioni della seconda metà degli anni ‘70 con le battaglie sugli espropri, la Pirubi, i terreni ex Sloi, le Asuc, la lingua tedesca nelle scuole elementari, la Samatec, le acciaierie di Borgo Valsugana, l’uranio in Val Rendena, contro il confino in domicilio coatto dei malavitosi e le manifestazioni di Sant’Orsola e Trento.
- La spaccatura del Partito dei primi anni ‘80 e la ricomposizione lenta e dolorosa con il Congresso di unificazione del gennaio 1988.

Un forte vento europeista lo sospinse agli inizi degli anni ‘80 sul fronte “estero” con accelerazioni politiche di illuminata intuizione, originalità e modernità. Oltre ai rapporti stretti con la Baviera di Strauss, quelli con Jacques Chirac in Francia, i Catalani ed i Baschi in Spagna, alimentò l’impegno per l’Europa delle Regioni e dei popoli, con lo sguardo verso la Mitteleuropa ed il Tirolo quale approdo naturale.

La rete di contatti coi partiti federalisti europei lo fecero un antesignano delle successive e postume declinazioni euroregionali. Ma è anche all’interno dei confini nazionali che coltivò ambizioni di stretta collaborazione coi partiti autonomisti dello Stivale, da quello friulano alla Unione Piemonteisa, dalla Sardegna alla Valle D’Aosta, dai movimenti siciliani a quelli veneti.

In una dimensione di grande apertura, purtroppo da pochi in quella fase storica compresa, incarnò il destino di chi guarda avanti, oltre le turbolenze del presente, per immaginare il futuro e prefigurarne orizzonti, scenari e risposte. Volando oltre i gas di scarico del compromesso elettorale al ribasso o del populistico tornaconto di maniera.

A fianco della gente, mai sopra la gente.

Buon compleanno giovane Enrico Pruner.

(lo scritto di Walter Pruner è stato reso noto attraverso le reti sociali per il 99° compleanno di Heinrich Pruner, il 24/1/2021 - AeA lo recepisce pressoché integralmente per il centenario della nascita, il 21/1/2022 - ndr)

Fonte dello scritto:

https://www.facebook.com/100005963704891/posts/1842842682591171/?d=n

 

Congratulazioni al prof. De Toni nuovo sindaco di Udine

Congratulazioni vivissime al prof. Alberto Felice De Toni, che ha vinto il ballottaggio ed è da ieri il nuovo sindaco di Udine. La sua candidatura civica è stata fortemente voluta dal Patto per l'Autonomia Friuli-Venezia Giulia. La lista civica De Toni Sindaco, con il sostegno del nostro mondo autonomista, civico, ambientalista, ha raggiunto al primo turno il 12%. Al ballottaggio De Toni ha avuto l'appoggio di un campo di forze di sinistra, centro e indipendenti ancora più ampio di quelle che lo sostenevano al primo turno.

Al prof. De Toni sono giunte congratulazioni da tutta la sorellanza di Autonomie e Ambiente e dai responsabili di EFA, la nostra famiglia politica europea.

Per approfondire:

https://twitter.com/lorenalacalleA/status/1648014887962943497?s=20

https://www.facebook.com/AutonomieeAmbienteUfficiale/posts/pfbid02QmutvXGvb7CNWETEtXFMqbhuzzjV667r84umA2LXH7kGq1dtah8hv19K5Yy3xvUEl

 

Congresso di Lombardia Civica a Vigevano

Domenica 26 maggio 2024 a Vigevano, alle 10, al Castello Sforzesco nella sala del Duca, si riunisce il primo congresso di Lombardia Civica - Alleanza per il territorio e il federalismo. L'assemblea sarà presieduta da Giuseppe Oliviero, presidente, e da Enrico Chiapparoli, segretario. Sarà presente il vicepresidente europeo degli autonomisti di EFA e presidente della rete Autonomie e Ambiente, Roberto Visentin.

E' gradita una registrazione alla mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. .

Lombardia Civica è associata ad Autonomie e Ambiente ed è fra le principali protagoniste nel suo territorio del risveglio di un civismo naturalmente autonomista, indipendente dalle piramidi nazionali, votato al buongoverno delle comunità locali.

Saranno presenti i candidati delle liste civiche già confederate in Lombardia Civica (nella grafica sotto).

2024 05 13 liste lombardia civica

Milano, 22 maggio 2024 - a cura della segreteria interterritoriale

Conoscere le narcomafie e combatterle territorio per territorio

  • Autore: riflessioni ispirate da Rocco Chinnici, nel quarantesimo del suo martirio e nel trentesimo della Strage di Via dei Georgofili - Palermo-Firenze, 25 maggio 2023

Il trentesimo anniversario della strage di Via dei Georgofili, avvenuta a Firenze nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, ci dà l’occasione per ricordare tutte le vittime dello stragismo mafioso.

Quest’anno ricorrono anche i quarant’anni dell’assassinio del magistrato Rocco Chinnici, ucciso nel tragico attentato di Palermo del 29 luglio 1983. Saranno le sue parole il cuore di questa riflessione, perché egli fu lungimirante non solo come organizzatore della repressione, ma anche profondo come indagatore della natura della contemporanea criminalità organizzata in mafie e cosche.

Il dott. Rocco Chinnici era un limpido funzionario di una magistratura centrale. Era privo di cultura autonomista, ma aveva ben compreso che l’enorme potere delle narcomafie aveva potuto accumularsi all’interno dello stato italiano unitario, del mercato comune europeo, di quelli che erano già allora ai suoi tempi, in molti settori, mercati mondiali aperti.

Anche le narcomafie, come tutti i fenomeni della modernità, risentono dei fattori di scala: lasciandole operare su spazi più ampi, esse non crescono solo quantitativamente, ma cambiano qualitativamente e accrescono geometricamente la propria pericolosità.

Il potere delle narcomafie non è una fatale condanna biblica. Non è fondato sul mero familismo amorale di alcune popolazioni arretrate, sulla mancanza di senso civico o su un qualche malcostume che affliggerebbe una comunità piuttosto che un’altra. Non si combatte con un generico moralismo. Esso è fondato su rapporti di forza economici, sociali, politici e geopolitici, che la nostra tradizione anticolonialista e anticentralista, più di altre, può incrinare. Noi commemoriamo, ma intendiamo soprattutto lottare.

Gli stralci del magistero del dott. Rocco Chinnici che pubblichiamo e commentiamo sono tratti da una sua ben nota Relazione al Consiglio superiore della magistratura (CSM) del 3 luglio 1978, che è disponibile integralmente presso il sito del Consiglio stesso e anche in altre fonti come l'interessante Progetto San Francesco. Ci rifaremo anche a un altro importante documento, intitolato “La mafia oggi e sua collocazione nel più vasto fenomeno della criminalità organizzata”, scritto dallo stesso Rocco Chinnici e dal suo collega Saverio Mannino, presentato a un incontro del CSM del 4-5-6 giugno 1982, pubblicato in un supplemento alla rassegna “Il CSM” del maggio-giugno 1982, e anch’esso messo a disposizione dal Progetto San Francesco.

La pubblicazione dei testi del dott. Chinnici non ha pretese filologiche. Eventuali errori o imprecisioni nella trascrizione sono esclusivamente responsabilità dei coordinatori del nostro Forum 2043.

LA MAFIA: ASPETTI STORICI E SOCIOLOGICI E SUA EVOLUZIONE COME FENOMENO CRIMINOSO

di Rocco Chinnici – 3 luglio 1978

PREMESSA

Per chi voglia condurre un discorso serio sulla mafia, un discorso che miri a comprendere e a far comprendere il fenomeno quale è stato nel passato e quale è oggi, a penetrarne le implicazioni di ordine sociale, economico, criminale, é necessario andare indietro nel tempo per stabilire l’epoca in cui esso incomincia a manifestarsi, le cause e le condizioni che ne consentirono e favorirono lo sviluppo.

Sulla mafia si è detto e scritto molto da italiani e stranieri a partire dalla fine del secolo scorso, quando, dopo l'unificazione del Regno d'Italia, il fenomeno, a causa della sua incidenza nella vita socio-economica e politica di buona parte dell'Isola, assunse dimensioni gravi ed allarmanti. Sono del 1876 "Le inchieste in Sicilia" di Leopoldo Franchetti e di Sidney Sonnino, e quelle della "Giunta Parlamentare". Si tentò, fin da allora, di studiare il fenomeno mafioso, di colpirlo nelle manifestazioni criminali; si compirono indagini e ricerche sia da parte di privati, cultori di studi storici ed etnologici, che dei pubblici poteri; si tentò di dare una spiegazione ed un volto alla misteriosa organizzazione che, indubbiamente, esercitava notevole influenza sulle strutture della societa isolana dell'epoca. E' stato, però, dopo la seconda guerra mondiale - durante il ventennio, sulla mafia, ove si eccettuino il libro di Cesare Mori "Con la mafia ai ferri corti", e gli accenni che ebbe a far Mussolini in qualche suo discorso, si scrisse poco in quanto il regime ritenne di avere definitivamente debellato il fenomeno - che si è avuto, sul fenomeno mafioso, un vero e proprio ritorno degli studiosi, che hanno condotto ricerche, pervenendo, a volte, a risultati apprezzabili; il rinnovato interesse per una migliore e più realistica visione del fenomeno, si spiega col fatto che la mafia, dopo la caduta del fascismo e la ripresa democratica, ha avuto la possibilita di riorganizzare le proprie fila, di potenziare la propria organizzazione, di esercitare un ruolo - specie nei primi anni del dopoguerra - non secondario se non addirittura da protagonista nella vita di alcune provincie dell'Isola. Il non siciliano, che ascolta, potra stupirsi di, questa affermazione o potrà ritenerla esagerata.

Noi diciamo che la mafia, tra il luglio 1943 e gli anni '60, con la costituzione del movimento separatista di Andrea Finocchiaro Aprile prima, e annidandosi, nelle forme più svariate, subito dopo, nei partiti politici di centro destra che ebbero il governo dell'Isola dopo il raggiungimento dell’autonomia, esercitò, nelle provincie della Sicilia Occidentale un dominio, contrastato soltanto dalle forze politiche progressiste. E' questa, storia recente, forse non sufficientemente conosciuta dalle nuove leve dei giovani siciliani ed ancor meno da quelli del resto d'Italia; una accurata indagine sul periodo storico, soprarichiamato, cosa che cercheremo di fare più avanti, servirà a chiarire l’influenza della mafia nella vita dell'Isola e il perché dei mali che hanno afflitto le quattro provincie della Sicilia Occidentale e che continuano a pesare e ad incidere negativamente sullo sviluppo socio-economico e culturale delle stesse.

Nota di contesto: Il dott. Chinnici, in questo passaggio e anche in un altro che leggeremo più avanti, ci appare sbrigativo nel suo giudizio sul sicilianismo e sulle correnti autonomiste. Il che non ci deve meravigliare, per una persona della sua generazione, della sua cultura e del suo status professionale. Non è dai magistrati del secolo scorso che ci si deve aspettare adesione a progetti di decentralismo. Va anche compreso che questo documento è del 1978, quando le narcomafie non hanno ancora iniziato a sterminare coloro che stanno tentando di avviare delle riforme del sistema politico siciliano (e italiano): Michele Reina (ucciso il 9 marzo 1979 – scrive su di lui Wikipedia: il primo politico di rilievo ucciso da Cosa Nostra dai lontani tempi di Emanuele Notarbartolo, ex sindaco di Palermo ed ex direttore generale del Banco di Sicilia, nel 1893); Piersanti Mattarella (ucciso il 6 gennaio 1980); Pio La Torre (30 aprile 1982); Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982).

ORIGINE E SIGNIFICATO DELLE ESPRESSIONI "MAFIA E MAFIOSO"

Ogni studioso del fenomeno mafioso che si rispetti, non può non incominciare a parlare della mafia, se non partendo dalla ricerca etimologica. Noi riteniamo che l’indagine sia puramente esercitativa, convinti come siamo che la mafia é una realta viva ed operante sul tessuto sociale della Sicilia Occidentale, con un'organizzazione e collegamenti concreti, con analoghe organizzazioni operanti altrove, nel territorio nazionale, negli U.S.A., nel Canada e, per lo meno in passato, anche nella Francia Sud-Occidentale. Tuttavia, per completezza, anche noi risaliremo alle origini ed al significato della parola mafia. Si ritiene che il termine mafia sia di derivazione araba e stia a significare, forza e coraggio; protezione; secondo tale teoria si tratterebbe di una parola composta dalla radice tematica "mu" che significa forza e dal verbo “afa" che significa proteggere; sarebbe stato usato per la prima volta all'epoca dei Vespri Siciliani (1282) per indicare gruppi di cittadini coraggiosi che avrebbero preso concrete iniziative per proteggere il popolo dai soprusi dei francesi e che avrebbero avuto un ruolo determinante, sulla espulsione degli stessi dall’Isola.

La parola mafia avrebbe assunto significato di "associazione" di “organizzazione fuori-legge" nel 1863 quando, per la prima volta a Palermo, andò di scena il lavoro di Giuseppe Rizzoto e di Mosca dal titolo "I mafiusi della Vicaria" nel quale si portavano a conoscenza del pubblico "le attivita svolte, in base ad un particolare tipo rudimentale di ordinamento giuridico a sé stante, da un gruppo di delinquenti associati al nuovo carcere di Palermo Ucciardone"; secondo alcuni, però, il termine "Mafioso" nel significato di “associato" sarebbe stato usato, per la prima volta, attorno al 1860, dai patrioti di Marsala i quali tenevano le loro segrete riunioni, prima dello sbarco dei Mille, nelle "mafie", cave di tufo, una volta coltivate e sfruttate, e poi abbandonate.

Quest'ultima tesi appare suggestiva, perché, forse per la prima volta, allora, alla parola mafia venne,attribuito il significato di associazione, organizzazione, avente carattere di segretezza, di mistero; si vollero, cosi assimilare i mafiosi, agli affiliati a quella setta misteriosa soprannominata "Beati Paoli" che avrebbe operato nel capoluogo dell'Isola ai tempi del dominio spagnolo per opporsi alle angherie e alle ingiustizie dei dominatori. I mafiosi, cosi, sarebbero stati uomini coraggiosi, forti, giusti, che avrebbero agito per finalità sociali, per il raggiungimento di un assetto civile ordinato nel quale, al popolo o "popolino", come è chiamata in Sicilia la classe dei non abbienti e del sottoproletario, sarebbero stati rispamiati i soprusi e le prepotenze dei nobili, dei ricchi, dell’alto clero, di latifondisti etc.. Quanto testè esposto potrebbe avere fondamento se si considera che non pochi mafiosi, in un primo tempo, accolsero Garibaldi come liberatore ed assertore di un nuovo ordine sociale e se ancora, oggi, il mafioso si ritiene, ed è considerato in determinati ambienti, "uomo d’ordine" ed "uomo d’onore",

La tesi di coloro che vorrebbero attribuire alla parola mafia il significato di forza, prestanza fisica, bellezza argomentando il fatto che in qualche rione popolare di Palermo per attribuire qualità eccellenti ai propri familiari e alle proprie cose si usa il termine “mafiuso", sembra del tutto fantasiosa; a meno che non voglia ammettersi che il termine venga usato, in simili casi, non nel significato originario bensi in quello translato.

Rimandando, per un approfondimento della questione, ai numerosi autori che di essa si sono ampliamente occupati, a giudicare dal significato che il termine “mafioso" assunse verso la fine del secolo scorso, riteniamo attendibile la tesi di coloro i quali ritengono la parola mafia di origine araba col significato di associazione di uomini con finalità di protezione dei poveri e degli umili; siffatta tesi si concilia, da un punto di vista contenutistico, con quella di coloro i quali, partendo dalla considerazione che nelle cave abbandonate di Marsala si davano convegno segreto i patrioti, attribuiscono alla parola il valore di organizzazione segreta, accentuando l'aspetto della segretezza. Diciamo, anzi, che le due tesi si integrano. Il connotato particolare della segretezza, - in proposito mi piace riportare, in gergo, due delle espressioni usate dai mafiosi alla fine del secolo che bene indicano il modo di pensare mafioso: "Nun fari Sangiuvanni cu li sbirri, nun dari cunfirenza a li mugghieri (non stringere rapporti di companatico con appartenenti alla polizia, non fare confidenze alla moglie)" "le troffi hannu l’occhi, li mura hannu l’aricchi (i cespugli hanno gli occhi e le mura hanno le orecchie)", assieme a quello del mutuo soccorso, della solidarietà attiva fra gli associati, costituisce la nota principale che caratterizza e qualifica la associazione nei primi tempi del suo apparire.

Nota di contesto: attenzione, qui il dott. Chinnici ha appena terminato di spiegare che ciò che di mafioso si trova nella storia e nella cultura popolare antica è in fondo parte dell’eterna lotta degli umili contro i potenti, ma ciò che era in antico non corrisponde assolutamente alla realtà di oggi, come si capirà andando più avanti nella lettura.

MAFIA - COMPORTAMENTO O ASSOCIAZIONE CRIMINOSA?

A nostro modo di. vedere, per meglio comprendere il fenomeno mafioso, è necessario che l'esame su di esso sia condotto con riferimento a tre distinti periodi. Un primo che va dalla Unificazione del Regno d'Italia all’avvento del fascismo, un secondo dal 1922 al 1943, un terzo dal 1943, cioè dalla fine della guerra in Sicilia, ai nostri giorni.

(...)

...come si può parlare di inesistenza della mafia come associazione se si sono avuti casi, oltre che da noi anche negli U.S.A., nei quali la Polizia ha sorpreso capimafia riuniti in convegno per prendere decisioni che investono interessi di tutta l'organizzazione?

E ancora, se la mafia non fosse associazione con strutture e gerarchie proprie, con proprie norme che regolano la vita interna, quale spiegazione si potrebbe dare alla serie interminabile di omicidi e di gravissime altri reati contro il patrimonio che per modalita di esecuzione e per il fatto che gli autori rimangono ignoti o impuniti denunciano la chiara matrice mafiosa? Come spiegare le lotte spietate, con diecine e diecine di morti, tra gruppi di mafiosi in contrasto tra loro? Non riteniamo di dire cose nuove sulla mafia. La nostra venticinquennale esperienza giudiziaria nel corso della quale ci siamo occupati di numerosi e talvolta gravi processi contro imputati di associazione a delinquere di tipo mafioso, ci autorizza ad affermare che non è né modo di sentire atavico né modo di comportamento tipico dei siciliani. In Sicilia non esiste una popolazione con lo spirito tipico del mafioso; non esiste una particolare realtà etnica e climatologica che abbia potuto determinare o favorire la insorgenza del fenomeno (enfasi nostra, ndr). Nelle provincie siciliane nelle quali tale fenomeno esiste, si riscontra, sì, un atteggiamento mafioso, ma è atteggiamento tipico e caratteristico di chi è affiliato alla mafia; non esiste nelle stesse provincie un comportamento mafioso generalizzato. Se per comportamento intendiamo un modo diffuso, naturale, quasi inconsapevole di agire nella società, laddove per atteggiamento, scelta volontaria ed individuale di azione nella societa stessa, considerato che la mafia esiste soltanto nella Sicilia Occidentale, che il numero dei mafiosi è piuttosto ristretto, parlare di mafia come "modo di essere o di comportarsi dei siciliani" è grave errore; errore frutto di superficialità e, a volte, di disinformazione.

Nota: E' importantissimo questo passaggio perché il dott. Rocco Chinnici dimostra di aver chiari gli errori dei pregiudizi etnicisti e culturalisti, dietro i quali si nascondono alcune delle peggiori trappole di autogiustificazione dello sfruttamento e dello spopolamento di tutti i territori marginali, sottoposti a processi di colonialismo.Mafiosi non si nasceribadisce in conclusione di questo paragrafo il dott. Chinnici.

(...)

LA MAFIA DAL 1860 ALL'AVVENTO DEL FASCISMO

Riprendendo le fila del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall'unificazione del Regno d'Italia alla prima guerra mondiale e all'avvento del fascismo, dobbiamo, brevemente, ma necessariamente, premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell'unificazione, non era mai esistita in Sicilia.

Qualche studioso ritiene di poter ritrovare dei precedenti ad essa riferibili, nei cosiddetti "familiares" al servizio del tribunale dell’inquisizione che godevano di particolari privilegi, primo e più importante fra tutti quello del Foro privilegiato. In concreto i "familiares" «baroni, gente de casato e persone da lui dipendenti» vivevano fuori dallo stato del quale non accettavano, né riconoscevano, l’autorità; avevano una loro giustizia e una loro amministrazione. Dubitiamo che sul piano storico possa, fondatamente, parlarsi di un collegamento tra la mafia e, anzitutto, non costituivano costoro setta segreta, Inoltre, dal tempo dell'inquisizione al 1860, di tempo ne era trascorso; si erano verificati, anche nel nostro paese, avvenimenti che avevano determinato mutamenti nelle strutture della societa. L'unificazione era stata preceduta da moti e fermenti rivoluzionari ai quali la Sicilia non era rimasta indifferente. Per noi l’associazione criminosa e criminogena denominata "mafia", con le caratteristiche peculiari che man mano saranno messe in evidenza, nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d'Italia; nasce come struttura portante dell'economia agraria dell'epoca, come forza occulta che contrasta il potere dello stato che - se pure largamente rappresentato dalla classe conservatrice - con la sinistra laica e liberale, incomincia, anche sotto la spinta delle masse e del sottoproletariato, a propugnare riforme in diversi settori della vita socio-politica ed economica.

E' fuori dubbio, comunque, che il periodo in esame rivesta, per lo studioso, una importanza notevole. Cadute le vecchie strutture politiche, e amministrative dei diversi piccoli stati nei quali l’Italia era divisa; con l'espropriazione dei beni ecclesiastici, con il timido avvio alle costruzioni di opere pubbliche, con i moti di ribellione del 1866, con l’inizio dell'industrialiazzazione si determina nel nostro stato un clima di incertezza, di instabilità, di contrasti, soprattutto di contrasti.

Il meridione è afflitto dal brigantaggio (fenomeno che ha poco o nulla in comune con la mafia) alimentato, specie in Calabria e nelle Puglie, dalla reazione che spera in un ritorno al passato. Sono gli anni della miseria più nera, gli anni in cui le genti del sud incominciano ad emigrare in massa nei paesi delle due Americhe; in Sicilia, malgrado l’emigrazione imponente, non c’è pane per chi rimane. Il contadino, l'eterno sfruttato, lavora dall’alba al tramonto per un salario che consente di nutrirsi soltanto di pane e cipolla e la sera, di un piatto di legumi per quattordici ore al giorno, sia che zappi la vigna, che mieta il grano, stremato dalla fatica e dalla malaria, dice, in un canto popolare, oggi scomparso, che a causa del lavoro massacrante "li rini si li manciano li cani"; non possiede nulla, soltanto i pantaloni e la camicia e la "bussaca" indumenti nei quali, a seguito dei rattoppi, della stoffa originaria rimane ben poco.

La terra, ed il bestiame, sono del barone o del cavaiiere, cosi come la stamberga costruita con “pietra, e taio (fango)" e col pavimento in terra battuta, composta di unico vano, senza l’ombra di quelli che oggi noi chiamiamo servizi, nella quale.vive con la moglie ed i figli…

(...)

Miseria ed analfabetismo regnano anche nella città. Le industrie, che già nel nord Italia cominciano a nascere e a cambiare il volto della societa, nel meridione e nell'Isola appaiono come una chimera; si vive con i proventi dell’artigianato, del piccolo commercio, e nelle borgate, di agricoltura. In questa società, cosi depressa, cosi inumana, cosa fa la mafia, cosa fanno i mafiosi? La mafia, in questo periodo, assume nella vita della Sicilia Occidentale, un ruolo ben preciso; diventa incontrastata dominatrice delle campagne; protegge ed è protetta dai baroni e dai cavalieri, i quali, sono i proprietari di quasi tutte le terre coltivate e dei pascoli. Prende parte attiva alla vita politica ed amministrativa…

(…)

E’ in questa fase iniziale dello Stato unitario che la mafia assume la caratteristica di associazione criminosa e criminoggena. Il primo illecito che essa commette è quello di costituirsi in potere in contrasto con quello statale. Quale associazione segreta, al servizio della grande proprietà, non tollera fatti nuovi che possano turbare il dominio dei latifondisti. Se il contadino e l'affittuario reclamano condizioni più umane e più giuste, risponde col fucile caricato a lupara ma ha anche interessi propri da tutelare. Il mafioso di spicco è spesso gabellato (gestore per contodel grande proprietario, ndr), che cede a mezzadria o in subaffitto il fondo del barone. L’equilibrio cosi estaurato che gli procura ricchezza e prestigio, non può né deve essere turbato; chi osa paga con la vita. In questo momento storico la mafia incomincia ad interessare lo studioso - sociologo o criminologo - e lo stato, perché è proprio tra gli anni '70 e '80 (dell’Ottocento, ndr) che essa si afferma come associazione con incidenza notevole nel tessuto sociale di buona parte dell'Isola. Legata, come abbiamo visto, ai ricchi proprietari terrieri e ai signori, dei quali tutela gli interessi, diventa indispensabile strumento di costoro anche in occasione delle elezioni politiche e amministrative e se in taluni centri non si raggiungono determinati equilibri si verificano, allora, all'interno di essa delle spaccature: conseguono danneggiamenti di viti e di alberi da frutta e non di rado omicidi; nelle elezioni comunali impone candidati propri; gli eletti saranno gli amministratiri del comune.

Abbiamo detto che il mafioso, in questo periodo storico, è il vero padrone della terra. Sorgono, sul finire del secolo, le prime cooperative di lavoratori della terra; nascono i fasci di rinnovamento per il riscatto dei contadini, per una più giusta e più umana condizione di vita.

Il mafioso, sulle prime, appare indeciso; qualcuno, ma sempre per libidine di potere e solo per poco tempo, aderisce ai fasci di rinnovamento. Subito, però, prevale la vocazione conservatrice e reazionaria. Entra in azione il fucile a canne mozze, caricato a lupara: cadono così sotto i colpi dell’arma terribile, che diventerà poi simbolo della mafia, decine e decine di contadini che, affamati di terra e di giustizia, hanno il torto di organizzarsi, per affermare, al cospetto di una classe privilegiata e di uno stato che di essa è espressione, il diritto ad una maggiore giustizia sociale. I fasci hanno ‘breve durata. Mafia e potere centrale riescono a soffocare, laddove sono sorti, i movimenti di ribellione. La pace, quella voluta dalla classe privilegiata, ritorna nelle campagne.

(...)

Nota: Qui il dott. Chinnici ci descrive in modo vivace quanto accade in tutti i territori che si ritrovano sotto una dominazione alta, lontana, estranea. Le elite dominanti vengonorapidamente cooptateall’interno del nuovo potere politico. Sotto di loro un ceto di ascari violenti tiene a bada gli umili. Attenzione, però, si sta parlandoancoradi squadracce che assumono il controllo di porzioni di territori rurali e periferici. Non si sta ancora parlando della mafia contemporanea.

LA MAFIA DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Il regime fascista, fondato sulla violenza, non poteva tollerare la mafia; due galli nel pollaio della Sicilia Occidentale non potevano stare. E non rimasero a lungo.

(...)

Nota: in questo paragrafo il dott. Chinnici riassume come le mafie partecipino prima alla repressione dei moti sociali dopo la tragedia della Grande guerra, poi si posizionino, come tutti i ceti dominanti, a sostegno del fascismo. Infine, con l’arrivo in Sicilia del prefetto Mori, il regime si sbarazza della manovalanza mafiosa, con i metodi spicci dello stato di polizia fascista. E’ una vittoria effimera, ovviamente, perché tutti i privilegiati conservano le loro posizioni, sostituendo la violenza mafiosa con quella fascista. Questo non toglie che un certo numero di persone della mafia si rifiuti di aderire al regime.

Mori é stato definito "il prefetto di ferro". - annota non senza amarezza il dott. Chinnici in questo paragrafo - Senza volere togliere meriti a nessuno, riteniamo che qualsiasi funzionario di P.S. o ufficiale dei C.C. con quei poteri, con quei mezzi, con quei sistemi e nel clima di terrore che seguì alle prime retate, avrebbe raggiunto gli stessi risultati del Mori. Non possiamo andare oltre senza dare una risposta a quanti potrebbero chiederci se, prima o dopo le retate, ci furono mafiosi che aderirono al fascismo. Premesso che la mafia, come associazione, non ha mai fatto scelte politiche definitive, essa, necessariamente, sta dalla parte di chi detiene il potere.

(...)

LA MAFIA DOPO LA CADUTA DEL FASCISMO

Arriviamo al luglio 1943. Le truppe alleate incominciano l’occupazione del territorio nazionale partendo dalla Sicilia dove sbarcano, dopo terrificanti attacchi aerei e navali. In poco tempo tutta l'Isola é "liberata". L’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territories,ndr), nei comuni della Sicilia occidentale, pone a capo delle amministrazioni mafiosi rientrati da poco dal confino o loro familiari che diventano campioni dell'anti-fascismo. Andrea Finocchiaro Aprile, che per tutto il ventennio nessuno aveva visto in Sicilia, essendo egli rimasto nella capitale ove esercitava la libera professione forense, agita la bandiera giallo rossa del separatismo. La mafia delle quattro provincie della Sicilia occidentale, o gran parte di essa, è con lui; crede nelle sue affermazioni e nelle sue promesse.

Nota: In questo passaggio il dott. Chinnici, come abbiamo detto molto distante dalla parabola del sicilianismo, parla di ciò che resta della manovalanza mafiosa che era stata anch’essa perseguitata dal fascismo e di quella mafia che aveva cooperato con gli Alleati. A questo punto della storia siciliana, questo è la mafia, non quella che sarà dopo.

Nelle file del separatismo occidentale militano i familiari del bandito Giuliano; questi autodenominatosi colonnello dell 'EVIS (Esercito Volontario per l'Indipendenza Siciliana) si schiera assieme ai componenti la banda accanto a quel pugno di giovani idealisti che nulla hanno a che fare con la mafia e col banditismo e che cadranno, poi, in conflitto con le forze dell'ordine o finiranno in galera. Lentamente incominciano ad organizzarsi i partiti politici che oggi chiamiamo dell'arco costituzionale; previa autorizzazione dell'AMGOT ogni partito incomincia a pubblicare il proprio giornale. Noi, allora diciottenni, scopriamo un mondo fino allora sconosciuto: ci avevano detto che bisognava “credere obbedire combattere", ci avevano insegnato che il duce aveva sempre ragione. Per la prima volta ci fu dato di scoprire la libertà e provammo lo stesso stupore di Ciaula quando vide la luna. La satira pungente del "Becco giallo", gli attacchi anche sul piano personale che uomini politici di primo piano si muovevano reciprocamente nei giornali di partito, rimasero a lungo impressi nella nostra memoria.

E’ il grande momento della mafia (ritorna l’ordine sociale garantito dallo stato, ci permettiamo di commentare, ndr). Ritorna nei feudi e nei giardini estromettendo con la forza gli affittuari e i mezzadri. Qualcuno tenta di resistere, ma viene inesorabilmente eliminato. Non esercita vendetta nei confronti degli ex fascisti che pure avevano avuto un ruolo non secondario nelle "retate" del prefetto Mori; in alcuni centri del Palermitano, nei giorni che seguirono l'ingresso delle truppe alleate, si limita a spingere al saccheggio delle dimore degli ex gerarchi la folla; non ricordiamo casi di ex podesta o segretari del partito uccisi dai mafiosi dopo la liberazione dell’Isola; forse - ma la notizia dovrebbe essere controllata - un caso si ebbe in un comune del trapanese.

(...)

Incomincia, tra difficoltà di ogni genere, l'opera di ricostruzione. Come è noto, durante il periodo bellico, le distruzioni:maggiori si ebbero sulle città; è qui che si profilano possibilità di grossi guadagni. La mafia lo intuisce. Non abbandona ancora le:campagne dove, contrastando le lotte dei contadini, organizzate e guidate da esponenti politici di primissimo piano, riesce a mantenere il predominio; si prepara, però, ad inserirsi nelle citta. Elezioni regionali del 1947, affermazione del "Blocco del Popolo", che raggruppa partiti laici e di sinistra. La mafia ha compreso che il movimento separatista ha perduto la sua battaglia (del resto nessun siciliano aveva mai pensato al successo di un movimento i cui aderenti predicavano odio "contro i tiranni italici" ed aggredivano che non era con loro). Voluta dalla Democrazia Cristiana e dai partiti laici era nata frattanto la Regione.

E’ il momento storico più-importante della mafia che entra nelle file di quasi tutti i partiti che hanno rappresentanti al parlamento regionale.

(...)

Nota: In queste righe si comprende che il dott. Chinnici aveva i suoi pregiudizi contro il regionalismo, anche quello più moderato, ma questo non toglie nulla allo spessore delle sue riflessioni sulla criminalità organizzata. Più avanti rievoca come la mafia contribuisca alla liquidazione del bandito Giuliano e chiosa:La leggenda che vuole i mafiosi uomini rispettosi dell'ordine costituito trova conferma.

Incomincia, intanto, la ricostruzione del paese. Palermo, capoluogo dell'Isola, sede del parlamento e del governo regionale, subì negli anni della guerra bombardamenti a tappeto che distrussero tutta la zona portuale e cagionarono danni notevoli in quasi tutti i quartieri.

Si arriva agli anni cinquanta. Il potere della mafia si é manifestato, come abbiamo visto, fino a quegli anni, nelle campagne. Rizzotto, Miraglia, sono nomi di sindacalisti caduti assieme a decine di contadini sotto i colpi della mafia, che vede, come nel passato, nelle lotte dei sindacalisti e dei partiti che li sostengono, un attacco alle proprie istituzioni. La fame di terra dei contadini rimane come sempre inappagata. La riforma agraria, che nelle previsioni del legislatore avrebbe [qui nel testo c’è una lacuna, ndr] consentiranno mai ai contadini di poter trarre da essi i mezzi di vita; quelli rimasti ai grossi proprietari terrieri o al mafioso di spicco, essendo i migliori sotto ogni aspetto, diventano aziende agricole modello sulle quali la presenza del mafioso é ancora oggi attiva.

Nelle città incomincia - disordinata e caotica - la ricostruzione e l’espansione edilizia. La mafia delle città e delle borgate comprende che ha dinanzi a sé nuove e inesauribili fonti di ricchezza; su questa fase - ci avviamo agli anni sessanta - la sua azione si svolge in diverse direzioni: commercio e mediazione delle aree fabbricabili, interventi presso le amministrazioni e gli uffici per la concessione delle licenze e degli appalti, imposizioni di tangenti agli imprenditori, gestione diretta di imprese di costruzione. Cosi come era avvenuto per le campagne, nessun ostacolo essa incontra nella sua attività; ha raggiunto attraverso il ruolo svolto nelle elezioni amministrative regionali e politiche, tali risultati che può accedere presso tutti gli uffici pubblici e ottenere tutto quello che chiede. Del resto non sono pochi i pubblici dipendenti ad essa legati per rapporti di parentela o di interessi. Cosi, con costruzioni sorte senza licenza o con licenza, che violano apertamente gli strumenti edilizi, vengono messi "a sacco" Palermo e i vicini comuni. Incominciano, in questo periodo di tempo, a Palermo, a delinearsi ed esplodere i contrasti fra due gruppi di mafia che fino agli anni sessanta avevano avuto modo di rafforzare le loro sfere di influenza. Sono i gruppi Greco e Torretta di Palermo che hanno trasferito i loro centri di interessi dagli agrumeti alle aree edificabili. Fallita la opera di mediazione e di pacificazione di mafiosi di prestigio, è il momento degli omicidi, delle stragi, delle terribili vendette. I morti per le vie di Palermo e nelle vicine borgate si contano a decine. Si sviluppano contrasti per il dominio nella zona dei Cantieri Navali e dei Mercati Ortofrutticoli. Strage di Ciaculli. Si reclama l’intervento dello Stato. La mafia ha cambiato volto, Fino agli anni sessanta essa ha avuto nelle quattro provincie della Sicilia occidentale due precisi obiettivi: 1) l’arricchimento, con qualsiasi mezzo, degli associati; 2) il mantenimento, nelle campagne, di strutture che potessero consentirle il controllo sulla economia agraria, ai danni dei contadini a vantaggio del latifondista, ma, sopratutto, proprio. Fino agli anni sessanta, in conecreto, essa fu un potere che agì in modo rilevante nella societa agricola in contrapposizione a quello statale. Ciò sulla scia di una tradizione che voleva la mafia “elemento di ordine”.

A partire dal 1960 le aumentate fonti di arricchimento - sempre e comunque illecite - i collegamenti con le analoghe organizzazioni di oltre oceano, fanno di essa un’associazione criminosa di tipo gangsteristico.

(...)

Nota: Stavolta è arrivata davvero, spiega il dott. Chinnici, una “nuova mafia”.

...la mafia siciliana, dopo gli anni sessanta, sullo esempio di quella americana oltre ad allargare la sfera delle attivita illecite, ispirandosi ad essa, compie una penetrazione più incisiva nell’apparato e nelle amministrazioni pubbliche. E’ questa una azione necessaria se si considera che essa oramai, come copertura delle attività delinquenziali, altre ne svolge. che hanno il crisma apparente della legalità. Appalti per costruzione di opere pubbliche vengono quasi sempre aggiudicati ad imprenditori mafiosi o ad imprese che corrispondono alla mafia tangenti consistenti. Le imprese del Nord, quelle locali che non vogliono sottostare al ricatto, subiscono gravi atti intimidatori cui seguono dannggiamenti.

Il rapporto mafia - pubblica amministrazione assume aspetti emblematici ed inquietanti. Enti pubblici sono permeati dal potere mafioso; le opere pubbliche costano al contribuente molto più di quanto dovrebbero. Laddove il potere mafioso non riesce a penetrare con i metodi tradizionali - clientelari o.violenti – riesce a volte corrompendo. "Cosa Nostra" fa scuola.

(…)

La mafia con le caratteristiche nuove che abbiamo visto sposta il campo di azione nelle zone della Italia industrializzata. Sequestri di persona che rendono miliardi. Collegamenti con la "ndrangheta" calabrese, cosi come anni prima, per ragioni di contrabbando, c'erano stati con la camorra napoletana. E’ la nuova mafia, spregiudicata, spietata, assetata di potenza e di ricchezza, che non conosce più confini alle proprie azioni e non riconosce vecchi canoni e vecchi schemi. La lotta per il predominio pur continuando a permanere nel capoluogo dell'Isola si sposta anche nel Nord. A Milano cadono sotto i colpi delle micidiali "Colt Cobra", che sembra l'arma corta preferita dai giovani della nuova mafia, mafiosi di "rispetto". Continua ai giorni d’oggi nella carenza ed insufficienza dello Stato, l’azione pluridirezionale della mafia. I morti, nella Sicilia occidentale, si.contano a diecine e diecine. All'assemblea regionale, così come in passato, forze politiche tradizionalmente democratiche che da sempre combattono le associazione mafiose, hanno, in questi giorni, chiesto al Governo centrale di dare attuazione ai rimedi ed ai suggerimenti proposti dalla Commissione Antimefia. Il delicato momento politico ci induce a ritenere che il fenomeno mafioso non sarà affrontato con l'adozione di quelle misure – non soltanto restrittive – che da anni si invocano. E la Sicilia occidentale continua a rimanere vittima di situazioni che suonano offesa alla civiltà.

Nota: Qui si chiude la relazione del 1978 e già è chiaro che le mafie sono diventate concentrazioni di potere che si dilatano quanto si dilatano gli stati e i mercati. Passiamo ad ascoltare alcune delle considerazioni dalla relazione Chinnici-Mannino del 1983.

LA MAFIA OGGI E SUA COLLOCAZIONE NEL PIÙ VASTO FENOMENO DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA

di Rocco Chinnici e Saverio Mannino – giugno 1983

PREMESSA

(…)

Le forme associative ricordate hanno in comune lo scopo di arricchimenti personali con mezzi illeciti (di regola rispondenti al fine, ma non esclusivi dello stesso omicidio) per cui assumono una metodologia di tipo parassitario, che si esprime nella tendenza all’infiltrazione nell’ambiente sociale e nelle istituzioni dello Stato per distorcerne l’azione dai fini pubblici a loro proprio vantaggio.

Questo elemento è certamente presente anche nella camora (…) come gli avvenimenti odierni (caso Cirillo) dimostrano con l’inquietante costatazione e dei contatti fra camorra e terrorismo e della compromissione dei pubblici poteri nell’utilizzazione dell’azione intermediatrice della camorra per trattare col terrorismo.

(…)

LA MAFIA SICILIANA

(…)

Nota: Il documento ricorda come si fosse rintuzzata la violenza mafiosa, con azioni di repressione e iniziative politiche e sociali, nel primo dopoguerra, ma poi la mafia torna a dilagare quando diventa narcomafia. Il proibizionismo è un terreno scivoloso, di grande arricchimento e corruzione. La narcomafia fa un salto di qualità.

...Già agli inizi e a metà degli anni sessanta (…) la mafia pur continuando a gestire il contrabbando di tabacchi lavorati esteri, a controllare il mercato delle aree edificabili e delle acque per uso irriguo, a ricattare commercianti, imprenditori, agricoltori, pur facendo avvertire pesantemente la sua presenza nella vita politica ed amministrativa attraverso collegamenti con il potere, aveva iniziato una attività nuova, il commercio di cocaina, eroina e di altri stupefacenti.

(…)

…I processi (…) provano, in modo inequivocabile, che esistono strettissimi legami tra le organizzazioni mafiose delle tre regioni: dimostrano, anche, che tali organizzazioni, nella produzione e nel commercio dell’eroina, sono in rapporti con le organizzazioni internazionali, segnatamente con le famiglie mafiose d’origine siculo-calabrese-napoletana, destinatarie dell’eroina prodotta in Sicilia e in Calabria ed operanti negli USA e nel Canadà.

(…)

Nota: Il documento descrive un potere economico che però non ha affatto rinunciato a condizionare fortemente la politica e gli organi dello stato (o meglio degli stati).

L’omicidio del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, caduto nel tentativo generoso di dare un volto nuovo alle pubbliche istituzioni e nel momento in cui, predisponendo le necessarie riforme, stava per passare [d]alla enunciazione di linee programmatiche dirette ad estromettere mafia e sistemi mafiosi dai gangli vitali della Regione, alla realizzazione delle stesse, costituisce la drammatica riprova della validità della tesi… (…) …la mafia, oggi come nel passato, non può mantenere posizioni di rilievo… se, forte della potenza economico-finanziaria raggiunta, allenta i vincoli che la legano al potere.

(…)

...oggi le associazioni mafiose (camorra e ‘ndrangheta comprese) hanno assunto un ruolo assai importante anche nell’ambito della criminalità organizzata internazionale… (…) “La multinazionale della droga” non è espressione giornalistica, né è priva di significato.

Nota: Continuano poi con riflessioni sulla globalizzazione di questo potere, con la sua capacità di inquinare la vita non solo finanziaria ma anche politica, fin negli Stati Uniti e in Sudamerica.

(…)

La lotta alla mafia deve partire dagli aspetti morfologici del fenomeno: contro l’infiltrazione mafiosa è necessario l’avvio di un processo di disinquinamento seguendo i principi di una bonifica sociale… (…)...la mafia non recluta solo nelle carceri, ma dovunque si ponga ai giovani la scelta fra l’emarginazione e il prestigio, il ruolo sociale, il denaro facile, la carriera ed il successo – pur con gli enormi rischi connessi – del mafioso.

Nota: Pur entro i limiti della loro posizione come amministratori di giustizia, gli autori proseguono facendo cenno alla necessità di riforme contro il notabilito elettorale, gli abusi di posizione dominante nei media e nel finanziamento della politica, l’infiltrazione mafiosa nei corpi e nei poteri dello stato, i subappalti, le esternalizzazioni, le confische degli arricchimenti improvvisi e potenzialmente illeciti. Tutte battaglie che ad oggi restano incompiute e che devono essere che al centro dell’azione politica di noi decentralisti, che siamo ostili a tutte le concentrazioni di potere politico ed economico. Concentrazioni che sono, intrinsecamente, congeniali e funzionali al continuo riformarsi di centrali di potere mafioso.

Vorremmo chiudere sommessamente, ma non senza durezza: noi decentralisti dobbiamo fare ciò che le persone che hanno una mentalità centralista, sicuritaria, autoritaria, non riusciranno mai a fare. Tocca a noi aprire nei nostri territori un’approfondita riflessione su quanto le narcomafie e gli stati centralisti e autoritari si compenetrano, s’inquinano e, in definitiva, si rafforzano a vicenda, aprendo dibattiti seri sui proibizionismi (su ciò che è permesso a tutti e ciò che invece è permesso solo ai criminali). Tocca a noi impedire che i beni comuni, in particolare ambiente, cultura, alimentazione, salute, siano messi sul mercato, perché nella globalizzazione qualcuno che ha abbastanza fondi – legali o illegali – per impadronirsene e controllarli, purtroppo, si troverà sempre. Tocca a noi impedire che il potere politico si concentri in così poche mani, che sia sufficiente la corruzione di un solo vertice o di un solo ufficio, per condurre in rovina interi territori.

L’immenso dolore delle vittime di mafia potrà trovare consolazione solo in seno alla Provvidenza, ma il qui e l’ora della giustizia, se vogliamo onorare Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Rocco Chinnici e tutti gli altri martiri delle narcomafie in tutto il mondo, fanno parte del nostro compito autonomista.

* * *

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Contro i seminatori di discordia

Solo uno scatto di chi crede in qualcosa di profondamente umano e storicamente vincente, cioè le autonomie, potrà tramandare alle generazioni future un mondo a misura di persona umana.

Noi che crediamo nelle autonomie personali, sociali, territoriali, siamo oggi non solo minoranze, ma anche schiacciati da furiose ondate di conformismo, ma l'ultima parola nella storia del mondo, dell'Europa e dell'Italia, non la diranno i centralisti seminatori di discordia. Tutte le loro idee sono sbagliate e per quanto ossessivamente e testardamente essi le ripetano a reti unificate, esse non diventano "giuste".

Stiamo affrontando le conseguenze di una manovra politica messa in campo da chi, essendo ormai da trent'anni al potere, si è ormai convinto di poter praticare ogni sorta di furbizia. Le elite dei "nominati" dal Rosatellum sono ben salde, ma questo non trasforma i loro torti in ragione.

Appena giunte al potere, le destre hanno messo in atto una sorta di scambio fra tre iniziative: il premierato elettivo, l'elezione diretta del "podestà" d'Italia, a favore dei presidenzialisti di Fratelli d'Italia; un simulacro di riforma della giustizia a favore dei benpensanti di Forza Italia; la legge Calderoli, per tener buoni quei leghisti di periferia che non hanno ancora compreso cosa sia diventato il movimento neonazionalista di Salvini (o peggio di Vannacci).

Calderoli si è dimostrato, ancora una volta, il ciarlatano in capo. Ha scritto una legge di attuazione della cosiddetta "autonomia differenziata", che rende assolutamente irrealizzabili ulteriori autonomie nella Repubblica, ma allo stesso tempo viene venduta ai semplici militanti del Veneto e delle province lombarde come una norma di "attuazione". Tanto, oltre le semplificazioni mediatiche, nessuno avrà mai le capacità, o quanto meno il tempo, di approfondire.

La legge Calderoli (legge 26 giugno 2024, n. 86) viene presentata come "attuativa" dell'attribuzione di "ulteriori forme di autonomia" alle regioni, secondo le previsioni della riforma del Titolo V del 2001. Peccato che queste "ulteriori autonomie" siano semplicemente impossibili, in ogni materia, senza la piena attuazione di quanto disposto dall'art. 119 della Costituzione (entrate proprie, fondo perequativo). Sempre che questo basti, perché con la metastasi legislativa messa in atto dall'Unione Europea, l'intero impianto della sussidiarietà è completamente saltato.

Senza riforme profonde, a livello europeo e non solo italiano, i territori e le regioni ordinarie (e in misura diversa anche le regioni a statuto speciale) restano sotto il ricatto di vecchi e nuovi centralismi. Se ciò non bastasse, la legge Calderoli attribuisce addirittura al potere centrale la possibilità di dare "autonomie" a tempo, che possono essere revocate (art. 7 - durata delle "intese" non maggiore di dieci anni). Se possono essere revocate, che autonomie sarebbero?

Nessun vero autonomista potrà quindi mai difendere le norme Calderoli, che sono solo fumo negli occhi. Non è del resto una sorpresa, per chi ha un pochino di familiarità con la politica politicante: se la legge Calderoli non fosse stata inapplicabile o, al più, applicabile solo dietro stretto controllo del potere centrale, essa non sarebbe mai stata approvata dai centralisti che sono la maggioranza assoluta delle destre.

Dall'altra parte dello spettro politico stiamo assistendo a una mobilitazione contro la legge Calderoli in odio al leghismo e al salvinismo. La comprendiamo e nessun autonomista spenderà un solo attimo del suo tempo in difesa dell'imbroglio, ma è altrettanto chiaro che, alla guida dello schieramento di centinaia di migliaia di persone che hanno firmato la proposta di referendum abrogativo della legge Calderoli, ci sono vertici che sono centralisti tanto quanto le destre.

Siamo insomma stretti fra una destra centralista che ha saputo alzare una nebbia propagandistica per tenere buoni un po' di autonomisti moderati che ancora sono in area leghista, e un neocentralismo di sinistra che rincorre una facile vittoria cavalcando facili slogan contro l'egoismo delle tre regioni "ricche" - Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna - accusate di immaginare una "secessione dei ricchi".

Sta diventando una guerra fra due narrazioni entrambe propagandistiche. Finirà male, molto male, forse addirittura in un ennesimo e ancor più feroce scontro fra Nord e Sud della Repubblica, se il primo sarà egemonizzato dalle destre veterocentraliste e il secondo dalle sinistre neocentraliste.

Autonomie e Ambiente non può che invitare ogni autonomista, territorialista, localista, anticentralista, a tenere una distanza critica dalla nebbia di questa guerra fra centralisti.

Non abbiamo le forze per impedire questo scontro fra tifoserie di un bipolarismo coatto, ma dobbiamo trovare il coraggio di prepararci a ricostruire, dopo che questi due eserciti avranno ricoperto di rovine l'Italia e l'Europa.

Contro coloro che spaccano, insultano, imbrogliano, riscattiamo le parole che il leghismo e il neocentralismo hanno infangato: autogoverno per tutti dappertutto; autonomie personali, sociali, territoriali; federalismo; confederalismo; sussidiarietà, a livello europeo non solo italiano.

La nostra proposta di autonomia è differente, è radicata nelle migliori tradizioni democratiche a partire dai valori di Chivasso, è capace di emancipare chi è rimasto indietro nella globalizzazione, è la cura alle divisioni e alle disumanizzazioni del nostro tempo, resterà in campo per il bene di tutti e dell'intero creato.

Per chi ha interesse ad approfondire altri rilievi critici, rispetto al conformismo da cui siamo bombardati:

 

Prato, 15 settembre 2024

Mauro Vaiani Ph.D.*

* Garante di OraToscana - Vicepresidente segretario di Autonomie e Ambiente

  

Cresce nell'esagono l'aspirazione all'autogoverno dei territori

Anche in Francia, l'esagono, lo stato modello di ogni centralismo giacobino e napoleonico, ci sono aspirazioni al decentramento, all'autonomia, al pieno autogoverno delle colonie interne e dei territori d'oltremare.

Nell'Assemblea  nazionale appena rieletta queste istanze saranno rappresentate dal gruppo "Libertés Indépendants Outre-mer et Territoires" (LIOT), composto da 16 deputati (un numero destinato a crescere).

Non meraviglia la collaborazione fra anticolonialisti e moderati esponenti del regionalismo, per chi conosce la storia e la cultura politica francese.

Nella storia del socialismo liberale e moderato francese spicca l'esperienza della « deuxième gauche » di Michel Rocard e del rapporto del 1966 "Décoloniser la province : la vie régionale en France", erede di una tradizione che qualcuno si spinge a ricollegare fino al pensiero girondino nel periodo rivoluzionario.

Fra i moderati nessuno può dimenticare che lo stesso generale Charles De Gaulle tentò la regionalizzazione della Repubblica, per liberarla dalle catene del centralismo burocratico.

Più recentemente, la rete dei decentralisti e localisti francesi, la federazione Régions et Peuples Solidaires ha saputo allargare la propria capacità di dialogo politico e collaborazione sia fra i politici locali delle province, che fra gli ecologisti, che fra i nuovi movimenti civici.

Ricordiamo anche che gli eletti del gruppo LIOT sono tutti eletti in collegi uninominali, quindi sono persone fortemente radicate nei loro territori, esperte, provate e stimate.

Qui alcuni articoli di approfondimento di questa originale e felice esperienza di collaborazione fra decentralisti di diversa origine, storia, cultura:

https://france3-regions.francetvinfo.fr/corse/assemblee-nationale-creation-du-groupe-libertes-independants-outre-mer-et-territoires-2572132.html

https://fr.wikipedia.org/wiki/Groupe_Libert%C3%A9s,_ind%C3%A9pendants,_outre-mer_et_territoires

 

 

Fare rete in Sardegna e ben oltre

 

Olbia 20 novembre 2021

 

Gentilissimi e gentilissime partecipanti al convegno indetto dall’Assemblea Natzionale Sarda (ANS),

 

in occasione dell’incontro con la presidente dell’Assemblea Nacional Catalana (ANC), Elisenda Paluzie, vi scrivo, impossibilitata a presenziare, in qualità di osservatrice ALE-EFA e delegata di Autonomie e Ambiente.

Vi trasmetto i saluti e gli auguri di buon lavoro della presidente ALE-EFA Lorena Lopez De La Calle e del presidente di Autonomie e Ambiente Roberto Visentin, oltre ai miei personali.

La storia della Catalogna, come territorio autonomo che aspira e quindi lotta per il pieno autogoverno in una Europa confederale, è esemplare e dovrebbe essere d’ispirazione per la Regione Autonoma della Sardegna e per tutti gli altri territori della Repubblica Italiana che aspirano all’autodeterminazione.

La repressione anti-catalana deve essere approfondita e ben compresa da tutti noi. Noncisi può nascondere che tale repressione sia sostenuta in molti modi, espliciti o sotterranei, dalle forze del centralismo sia in Italia che in Europa.

La Repubblica Italiana e l’Unione Europea, come dimostrato una volta di più dall’uso del mandato di cattura europeo come armapoliticaimpropria contro gli esuli catalani, sono percorse da pulsioni autoritarie e centraliste, ma la nostra ammirazione per il percorso deiCatalani non deve fermarsi alla valutazione dei risultati da loro ottenuti, tralasciando l’analisi del metodo seguito per ottenerli.

È necessario capire le fasi del percorso, composto di dialogo, unità di intenti, piccole e grandi strategie e che ha portato la Catalogna a sfiorare il Sogno indipendentista.

Lo loro capacità di crescere, rinnovarsi, fare rete con le forze civiche, ambientaliste, territoriali e locali, spiega molti dei loro risultati.

Alla luce di questo oggi,anchein questa assemblea si possono gettare le basi per un nuovo percorso, che vada verso la maturità dell’autodeterminismo sardo,il qualedeve passare necessariamente dalla celebrazione delle altrui vittorie alla programmazione delle proprie,che sianovittorie a breve, a media, o a lunga scadenza.

La pluralità delle forze che aspirano all’autogoverno della Sardegna è una ricchezza che va incanalata nella capacità di fare squadra, rammentando che il nostro unico avversario storico è il centralismo.

Infine l’auspicio è che il mondo autodeterminista sardo volga lo sguardo anche a quei territori della penisola italiana che soffrono degli stessi mali della nostra terra, che aspirano a forme più o menoavanzatedi autogoverno, che come noi detengono un patrimonio culturale e linguistico oramai a rischio.

Non è da sottovalutareche un lavoro politico comune, tra forze delle diverse nazioni e territori,ci consentirebbe di esercitare maggiori pressioni sulla Repubblica Italiana,anche per una riscrittura della Costituzione in terminipiù avanzati nella direzione dell’autogoverno dei suoi popoli e territori.

Lo statuto della nostra regione è oramai obsoleto,dopo esser stato in gran parte tradito,mentre lo stato italiano sta riguadagnando terrenoin ogni materia.

Sono convinta che sia necessario ristabilire i termini dei rapporti fra stato e regione e sono altresì convinta che non si possa aspirare all’indipendenza se non si è capaci di praticare l’autonomia.

Con l’augurio di un proficuo lavoro vi saluto e vi abbraccio.

Silvia Lidia Fancello

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Festa dell'autogoverno a Montecopiolo

Ieri, sabato 7 agosto 2021, siamo stati invitati a una bella festa a Villagrande di Montecopiolo. Siamo stati ospiti del Comitato per Montecopiolo e Sassofeltrio in E.-Romagna, che hanno raggiunto quest'anno, dopo 14 anni di lotte, il risultato di essere spostati, a norma dell'art. 132 della Costituzione, dalla regione Marche alla regione Emilia-Romagna.

Tutte le forze di Autonomie e Ambiente, insieme al senatore Albert Lanièce della Union Valdôtaine, hanno contribuito negli ultimi due anni, a questa battaglia per il rispetto della Costituzione e dell'autogoverno delle popolazioni locali.

La forza sorella Movimento per l'Autonomia della Romagna (MAR), in particolare, è stata al fianco di queste comunità romagnole che hanno dovuto aspettare così tanto per riunirsi alla loro terra.

Nel corso del pranzo, ha tenuto un piccolo ma denso discorso uno storico dirigente del MAR, il dottor Riccardo Chiesa, che ha ricordato come quella di Montecopiolo e Sassofeltrio sia stata una battaglia di autodeterminazione. E' stata l'espressione di storica e potente tendenza delle popolazioni, tutte e dappertutto, a pretendere l'ultima parola non solo su chi le governa e come, ma anche dove si è governati e quanto distanti, o piuttosto vicini, debbano essere quelli che ci governano. Evocando la poesia di Aldo Spallucci, il dottor Chiesa, ha ricordato che è stata una lotta ma anche un momento di gioia e di unità popolare. Proprio in una terra che è stata divisa da pulsioni ideologiche vigorose, è tempo per i Romagnoli di abbassare i vessilli che dividono e di innalzare insieme la bandiera unitaria e gioiosa dell'autodeterminazione, per il bene delle generazioni future.

Era presente come ospite alla festa l'architetto Francesco Frattolin, friulano di San Michele al Tagliamento, che è stato uno dei pionieri dell'attivismo delle comunità locali per poter correggere i confini inappropriati, che non rispettano la storia o non sono più confacenti alla situazione sociale ed economica contemporanea. Francolin si è meritato, per il suo apporto alla causa del passaggio in Romagna dei comuni della Vamarecchia, la cittadinanza onoraria di Sant'Agata Feltria. Ci ripromettiamo di fare insieme a lui degli approfondimenti sulla situazione di almeno un'altra ventina di territori che, in questa Repubblica, attendono una risposta alle loro richieste di aggiornamento dei confini amministrativi.

Nelle foto che alleghiamo per documentare il gioioso evento potete riconoscere, tra gli altri, Antonio D'Agostino e Davide Severini (attivisti di punta della lotta che ha riportato Montecopiolo e Sassofeltrio in Romagna), (Serafina Lorenzi (presidente del Comitato che ha riportato in Romagna i due comuni), Samuele Albonetti (coordinatore del MAR), Giovanni Poggiali (vicepresidente del MAR), Mauro Vaiani (dirigente del Comitato Libertà Toscana e segretario dell'assemblea di Autonomie e Ambiente).

20210807 img Montecopiolo Serafina WA0042

20210807 img Montecopiolo Allegria WA0044

 Approfondimenti:

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Friuli paese antico e nuovo d'Europa

  • Autore: Clape di culture Patrie dal Friûl - 17 marzo 2023

La storia del Friuli è stata condizionata dalla sua posizione, all’intersezione tra il punto più settentrionale del Mediterraneo e la porta d’ingresso da Oriente alla penisola italiana. In corrispondenza di tale crocevia sono fiorite le tre grandi città portuali che hanno segnato la storia del Friuli: Aquileia, Trieste e la vicina Venezia.

La formazione del Friuli come entità storico-politico-culturale si può far risalire all’epoca longobarda (sec. VI-VIII). A Occidente il confine del Friuli lungo la valle del Piave e il corso del Livenza si è stabilizzato da secoli, mentre ad Oriente vi sono sempre state più incertezze, a causa della non coincidenza tra confini geografici, etnici, socio-economici e politico-militari.

Sulla formazione della lingua friulanavi sono teorie diverse. Secondo quella più tradizionale, essa sarebbe il risultato dell’influenza del sostrato celtico sul latino qui portato dai coloni romani, e quindi avrebbe oltre duemila anni; mentre, secondo altre, essa si sarebbe formata mille anni più tardi, nel contesto di relativo isolamento dal resto d’Italia della realtà politica autonoma del Principato patriarcale di Aquileia.

L’identità e le istituzioni friulano sopravvissero in parte anche sotto la dominazione veneziana, iniziata nel 1420. La grandissima maggioranza della popolazione ha continuato a il friulano, ed esistono anche fin dal XIV secolo documenti letterari scritti in tale lingua, anche se, come è avvenuto per molte altre nazioni, è solo nell’Ottocento che si avvia una robusta tradizione letteraria e la lingua diviene la base principale dell’identità territoriale.

Dopo le tragedie delle guerre mondiali e del regime fascista, nella nuova Repubblica si avviano i movimenti per il riconoscimento dei Friulani come comunità con pieno diritto all’autonomia politico-amministrativa e alla tutela della propria lingua.

Quest’istanza è divenuta più impellente a partire dagli anni ’70 e ha trovato una debole accoglienza da parte delle istituzioni solo alla fine dello scorso secolo.

La lingua è certamente uno dei fondamenti dell’identità friulana, ma si deve anche ribadire che per secoli il senso di appartenenza al Friuli ha avuto un carattere piuttosto politico-territoriale che linguistico. L’identità collettiva è un fenomeno complesso, multidimensionale. Accanto alla lingua, al territorio, all’organizzazione politica, giocano anche fattori più latamente culturali: costumi, riti, tradizioni, senso della storia e del destino comune, coscienza e volontà.

È ancora vivo, e prevalente in certi ambienti, un ‘idealtipo’ di friulano elaborato nel corso dell’Ottocento, che ha avuto nell’ ‘ideologia’ della Società Filologica Friulana la sua codificazione: il tipo (o stereotipo) del friulano «salt, onest, lavoradôr», essenzialmente modellato sulla figura archetipa del felix agricola, del ‘buon contadino’, con in più un’enfasi sul ruolo di queste terre di bastione della civiltà romana contro il mondo tedesco e slavo che preme dai confini.

Dall’ampia produzione letteraria, ideologica e saggistica sul carattere dei Friulani, fiorita in quest’ultimo secolo, ad opera sia dei Friulani stessi che di osservatori esterni, sembra di poter inferire un modello a cinque dimensioni. Il popolo friulano si caratterizzerebbe quindi per essere:

1. un popolo contadino, e quindi attaccato alla terra, vicino alla natura; organizzato in salde strutture familiari e in piccole comunità di paese; laborioso, ma anche dotato di capacità imprenditoriali; tradizionalista e fedele alla parola data;

2. un popolo cristiano, e quindi credente, inserito nella grande tradizione cattolica, dotato delle virtù della semplicità, dell’umiltà, dell’austerità, della capacità di sopportare con pazienza e fermezza le prove della vita;

3. un popolo nordico, quindi forte, grave, lento, taciturno, disciplinato, con senso dell’organizzazione e della collettività, ma con un sottofondo di tristezza esistenziale che trova conforto, oltre che nella laboriosità, anche nel vino, ed espressione nel canto corale;

4. un popolo di frontiera, collocato in una posizione esposta a rischi, temprato da una lunghissima storia di invasioni, saccheggi e battaglie; ma anche con la possibilità di aprirsi e relazionarsi positivamente con i vicini di altre culture, di mescolarsi con essi, di accoglierli ed esserne accolto;

5. un popolo migrante, perché nella modernità lo squilibrio tra popolazione e risorse costringe una quota di persone ad allontanarsi dalla patria, per cercare lavoro e sopravvivenza in altri paesi.

Nel dolore della partenza si rafforza l’amore, e nei disagi della lontananza si consolida un’immagine idealizzata del proprio paese. Nelle comunità di arrivo si ricreano ifogolârs e si mantengono la lingua e le tradizioni.

Tuttavia è da sottolineare che questo modello riflette, prevalentemente, una realtà storico-sociale abbastanza circoscritta: quella del Friuli grosso modo tra il 1870 e il 1970.

Ben poco possiamo dire della realtà più antica, medievale, perché la documentazione storico-archeologica sulla vita del popolo minuto è scarsissima, quasi inesistente. Le masse contadine sono ‘senza storia’, per definizione.

L’immagine dei Friulani che invece ci viene comunicata dalla documentazione storica dell’Evo moderno (secc. XV-XIX) è invece abbastanza diversa da quella tardo ottocentesca: il popolo friulano (cioè, in grandissima parte, i contadini) ci viene descritto spesso come riottoso, violento, neghittoso, indisciplinato. È certo l’immagine che ne hanno i padroni e i tutori dell’ordine, tendenti a enfatizzare questi aspetti negativi (lo stereotipo del villain, cioè del ‘cattivo’) più che quelli di segno opposto. Ma vi sono anche molte prove inoppugnabili di questo lato del carattere friulano di qualche secolo fa: storie di liti, banditismo, delitti, tumulti e insurrezioni. Per tutte, basti menzionare la «crudel zobia grassa» del 1511, la più violenta, prolungata ed estesa rivolta contadina dell’Italia rinascimentale.

Ovviamente queste speculazioni identitarie riflettono ormai assai poco il Friuli degli ultimi decenni, quello del dopo terremoto del 1976: un territorio altamente sviluppato, ricco, secolarizzato e mediatizzato. Un Friuli dove le masse di contadini non esistono più, sostituite da un 5% di moderni imprenditori agricoli; dove le campagne sono cosparse di insediamenti industriali; dove la maggioranza degli attivi è impiegata nel terziario, più o meno avanzato; dove resta l’emigrazione dei giovani laureati e dove è in corso l’immigrazione di gente proveniente da una settantina di paesi di tutto il mondo.

L’autonomismo in Friuli presenta caratteristiche originali, rispetto ad altri territori che erano, prima dell’unificazione, veri e propri stati, o almeno unità amministrative separate. Il problema friulano è stato quello di lottare per vedersi riconoscere una entità istituzionale e rappresentativa propria, senza farsi diluire in realtà amministrative o istituzionali eterogenee, ove comunque i centri di decisione erano e sono collocati all’esterno della realtà friulana, con la conseguenza che il proprio futuro è stato costantemente messo in discussione o comunque compromesso da logiche di potere politico, economico e culturale esterne e spesso contrapposte agli interessi friulani.

Mentre altrove, come in Trentino, in Val d’Aosta, in Alto Adige, in Catalogna, in Baviera, le realtà istituzionali sono state, da un certo punto in poi, saldamente controllate dalle rispettive comunità, da secoli il Friuli è stato inserito in ambiti territoriali eterogenei dove comunque i centri di decisione erano collocati al suo esterno: a Venezia per secoli, poi nell’era degli stati moderni nelle rispettive capitali, infine nella nuova Repubblica in una regione dotata sì di autonomia speciale ma il cui baricentro politico è Trieste.

L’autonomismo friulano ha dovuto pertanto muoversi verso la ricostruzione di una realtà istituzionale friulana, dotata di strumenti funzionali alla sua sopravvivenza come patrie.

Certamente sono importanti le azioni dirette ad elevare i gradi di autonomia della Regione Friuli Venezia Giulia, sorta ad opera dell’impegno delle rappresentanze parlamentari del Friuli in seno alla Costituente, che poi è stato stravolto dall’esigenza di attribuire un ruolo all’allora Territorio libero di Trieste, ma ancora più importanti sono le iniziative e le politiche dirette alla crescita autonoma del Friuli come entità dalle caratteristiche originali.

Il percorso cui l’autonomismo friulano ha dato contributi importanti passa attraverso numerose tappe di cui tre sono fondamentali: la costituzione della Università di Udine come autonomo centro di formazione e di ricerca, risultato di un lungo processo storico condotto avanti con tenacia dalla comunità e dalle istituzioni friulane; il riconoscimento della lingua friulana da parte dello stato italiano con la legge 482/1999, con il quale il friulano è passato da uno stato indefinito di parlata locale, il cui carattere di lingua era riconosciuto solo a livello scientifico, al rango di lingua degna di forme importanti di sostegno e di tutela, alla pari delle comunità linguistiche che hanno alle loro spalle uno stato sovrano (la tedesca, la francese, la slovena, l’albanese, la greca); infine la costituzione della Comunità delle Province Friulane, a cura delle Province di Pordenone e di Udine, che potrebbe trasformarsi in un potente strumento di crescita della comunità friulana.

Questi risultati sono il frutto di un lungo lavoro di animazione e di impegno politico portato avanti da personaggi importanti che hanno dato vita a organizzazioni e movimenti politici di notevole peso.

Si pensi alle prime iniziative lanciate da Achille Tellini negli anni Venti, alla costituzione nel secondo dopoguerra dell’Associazione per l’Autonomia Friulana di Tiziano Tessitori, al Movimento Popolare Friulano di Gianfranco d’Aronco (la cui costituzione in partito avrebbe potuto cambiare completamente il panorama politico del Friuli), al Movimento Friuli di Fausto Schiavi e di don Francesco Placereani, al Comitato per l’Università Friulana di Tarcisio Petracco, alla Lega Friuli dei primi anni. E questo elenco non è certamente esaustivo.

Da una di queste iniziative, nota come “I laboratori dell'autonomia”, che ha visto l'adesione di tanti sindaci, persone del mondo della cultura e della vita sociale friulana, è iniziato alla fine dello scorso decennio un processo di riappropriazione in termini contemporanei della necessità dell’autogoverno.

L’esito dei laboratori è stata la nascita del “Patto per l'autonomia” un partito territoriale che ha adottato un motto antico, quello pronunciato da Giuseppe Bugatto, deputato friulano al Parlamento di Vienna, il 25 ottobre 1918:

CHE NISSUN DISPONI DI NÔ, SENSA DI NÔ

(CHE NESSUNO DISPONGA DI NOI SENZA DI NOI)

Parole antiche, ma che il Patto ha fatto vivere in una organizzazione moderna, plurale, inclusiva, attenta alle differenze territoriali e culturali di quel microcosmo che è la regione Friuli – Venezia Giulia. Basti pensare che nel Patto sono in uso ben quattro lingue:

Patto per l'Autonomia (italiano)

Pat pe Autonomie (friulano)

Pakt Za Avtonomijo (sloveno)

Pakt für die Autonomie (tedesco delle comunità di Sauris, Timau e Val Canale, da Pontebba a Tarvisi)

Il Patto per l’Autonomia, che si era costituito come movimento politico pochi mesi prima, alle elezioni regionali del 2018 ha ottenuto il 4,09% dei consensi, corrispondenti a 23.696 voti, eleggendo come consiglieri regionali Massimo Moretuzzo e Giampaolo Bidoli.

Il resto è nella cronaca politica dell’ultimo lustro. Il friulano autonomista, civico e ambientalista Moretuzzo (classe 1976, un figlio del Friuli del dopo terremoto), dopo cinque anni di impegno come capogruppo nel parlamento regionale, è oggi candidato presidente, con il sostegno di gran parte del centrosinistra, alle elezioni regionali previste per il 2-3 aprile 2023. Il Patto per l’Autonomia, inoltre, è alla guida, con proprio personale politico esperto, della rete interterritoriale di Autonomie e Ambiente ed è rappresentato nel bureau della famiglia politica europea degli autonomisti e dei territorialisti, la Alleanza Libera Europea (ALE, meglio nota come European Free Alliance, EFA).

Le persone impegnate nel Patto a livello territoriale, statale ed europeo continuano a lavorare politicamente per assicurare un futuro al Friuli, perché sia uno dei paesi nuovi d’Europa e del mondo, in questo XXI secolo.

Udine, 17 marzo 2023

a cura della Clape di culture Patrie dal Friûl (associazione culturale Patria del Friuli) - https://www.lapatriedalfriul.org/

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I candidati autonomisti della Vallée d’Aoste

Autonomie e Ambiente appoggia i candidati autonomisti della Valle d'Aosta per le prossime elezioni politiche del 25 settembre 2022.

Tra le forze che li hanno espressi e li sostengono, c'è la Union Valdôtaine, una forza storica dell'autonomismo nella Repubblica Italiana, che si sta rinnovando e sta per aprire una stagione politica nuova. E' attualmente alla guida della Regione autonoma della Valle d'Aosta con il presidente Erik Lavévaz. E' una forza popolare, moderata ma fortemente impegnata nella difesa dell'identità valdostana, dei beni comuni, dell'immenso patrimonio ambientale che la Valle custodisce per i valligiani, per i tantissimi visitatori, per l'umanità intera.

Per conoscere il lavoro del senatore uscente della Valle d'Aosta, il dott. Albert Lanièce, espressione della Union, potete approfondire navigando nel suo profilo Twitter: https://twitter.com/albertlaniece .

La Union è in dialogo stretto con Autonomie e Ambiente sin dalla fondazione della nostra rete. E' recentemente ritornata a far parte della nostra famiglia politica europea, l'Alleanza Libera Europea (European Free Alliance, EFA), di cui era stata fondatrice.

La Valle d'Aosta elegge un senatore e un deputato in collegi uninominali. Per questo i candidati sono stati presentati dalla Union Valdôtaine insieme a una aggregazione più ampia, chiamata Liste Vallée d’Aoste, che include anche la forza sorella Alliance Valdôtaine..

Candidato al Senato è il prof. Patrik Vesan, docente della Université de la Vallée d'Aoste, indicato dal Parti Démocrate – Vallée d'Aoste.

Candidato alla Camera  è il dott. Franco Manes (nella foto ANSA di corredo a questo post), esponente della Union, sindaco del piccolo comune di Doues (Doue in patois valdostano), amministratore di grande esperienza, impegnato nelle istituzioni dell'autogoverno valdostano, presidente del Consiglio permanente delle autonomie locali valdostane (CPEL) e del CELVA (Consorzio enti locali della Valle) che ne è organismo strumentale, oltre che fungere da delegazione regionale dell'Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI).

Per conoscere meglio i candidati autonomisti della Valle d'Aosta:

https://www.lepeuplevaldotain.it/blog/la-force-de-lautonomie/

https://www.lepeuplevaldotain.it/blog/manes-un-homme-concret-un-digne-representant-des-valdotains-a-rome/

 

 

Il centralismo contro i poveri, le autonomie per la loro emancipazione

Il centralismo non solo ha fallito, ma si scatena contro i poveri. Mentre ormai s'incontrano per strada persone ricurve per il peso degli anni che vendono piccoli oggetti o chiedono elemosine per sopravvivere, le forze del centralismo autoritario hanno fatto fiasco miseramente con il "reddito di cittadinanza". Non difendiamo quel fallace progetto centralista, ma nello stesso tempo dobbiamo lottare perchè i comuni abbiano le risorse e i poteri per prendersi cura dei fragili e per l'emancipazione dei poveri. Avviata una riflessione tra le forze del patto Autonomie Ambiente, di cui riproduciamo qui i punti cruciali.

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Per l’emancipazione dei poveri
Un dibattito aperto fra le forze del patto Autonomie e Ambiente (AeA)

Venezia – Milano – Roma – Napoli – Palermo, 2 agosto 2023

Il patto Autonomie e Ambiente (AeA), rete di forze territoriali rappresentata e guidata dal Patto per l’Autonomia Friuli-Venezia Giulia, con il supporto del partito politico europeo Alleanza Libera Europea- European Free Alliance (ALE/EFA), ha avviato al proprio interno un dibattito sul fallimento del “reddito di cittadinanza” e sul pasticcio della sua frettolosa abolizione, nel cuore di un estate difficile, d’inflazione e quindi d’impoverimento generale.

Insieme ai nostri amministratori e attivisti dei diversi territori, non abbiamo mai condiviso la struttura e i meccanismi del “reddito di cittadinanza”, né il suo affidamento all’INPS, un ente centrale che non aveva alcuno strumento e alcuna competenza in materia di emancipazione dei poveri e di vicinanza alle persone fragili e inabili al lavoro.

Noi chiediamo un ritorno alla Costituzione che, anche in questa materia come in molte altre, è largamente inattuata e spesso sfacciatamente tradita.

L’assistenza, ma ancora di più l’emancipazione dalla povertà di chi è in difficoltà o è inabile al lavoro, fanno parte dei diritti inviolabili della persona umana, protetti dagli articoli 2 e 3 della Carta. L’art. 38 concretizza il diritto a essere assistiti: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. (…) Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera”.

Quali siano gli organi e gli istituti che devono essere messi in campo è chiarito dalla divisione dei compiti fra stato e regioni sancita dall’art. 117. Tocca evidentemente alle autonomie locali occuparsi di protezione degli inabili al lavoro e l’emancipazione di chi è povero. Le regioni possono legiferare in materia, mentre ai comuni spetta di operare concretamente e direttamente.

Devono trovare piena attuazione i principi dell’art. 118, di sussidiarietà verticale (portando l’azione amministrativa al livello più vicino possibile ai cittadini di ogni comunità) e di sussidiarietà orizzontale (riconoscendo il ruolo decisivo delle istituzioni caritative autonome, molte delle quali sono parte decisiva della storia e dell’identità delle nostre comunità).

Si deve porre fine a decenni di confusione legislativa, di invadenza dei poteri centrali sulle autonomie, di confusione fra assistenza e previdenza, di dispersione e di spreco dei patrimoni degli enti assistenziali e delle risorse fiscali, di cui il “reddito di cittadinanza” è stata solo l’ultima manifestazione.

Il sovrapporsi di troppe leggi e leggine ha finito per creare una costellazione di enti e strumenti assistenziali in nessun modo coordinati fra di loro, finendo per creare terreno fertile per l’assistenzialismo, il clientelismo, le piccole furbizie, o anche vero e proprio malaffare organizzato. Gli ultimi governi – tecnici, populisti, di centrosinistra, di centrodestra – in questa materia sono stati tutti assolutamente distratti, inadeguati, quando non addirittura perniciosi.

Nei servizi sociali comunali e nel mondo delle istituzioni caritative e del terzo settore cresce la collera nei confronti della metastasi legislativa, delle complicazioni burocratiche, delle perversioni del centralismo.

Il centralismo si deve ritirare da ciò che può essere gestito solo dai sindaci e dagli amministratori locali, con i loro assistenti sociali, coordinandosi con le iniziative assistenziali e caritative presenti nei propri territori.

L’emancipazione dalla povertà e la protezione della persona inabile possono essere affrontate solo nella prossimità, da persone responsabili che conoscono le persone bisognose, perché vivono nella stessa comunità, come – ribadiamolo - previsto dalla Costituzione all’art. 118, secondo “princı̀pi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”.

Tutte le risorse e tutti i poteri, in materia di assistenza pubblica e di coordinamento dell’assistenza civica, devono tornare al più presto ai comuni.

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Per ulteriori approfondimenti:

https://www.autonomieeambiente.eu/

https://twitter.com/rete_aea

https://www.facebook.com/AutonomieeAmbienteUfficiale/

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Il centralismo paralizza, soffoca e infine uccide

  • Autore: Una pagina memorabile di Alexis de Tocqueville - Brandizzo, Caivano e Chivasso, 1 settembre 2023

Mentre la Repubblica delle Autonomie è in lutto per gli operai ferroviari di Brandizzo, che non esitiamo a chiamare vittime del centralismo, e osserviamo con tristezza che per "bonificare" una borgata distrutta dal centralismo, Caivano, si è invocata la passerella dei vertici del governo centrale e centralista, abbiamo voluto questo piccolo ma emblematico testo sul Forum 2043, che è come un interludio. Se arrivati fin qui abbiamo cominciato a capire, come lo capì Tocqueville all'alba della modernità industriale, che la vita umana, per restare tale, deve continuare a essere fondata sulla responsabilità dell'autogoverno al più basso livello possibile, allora vale la pena andare avanti, per salvare la nostra dignità umana, non solo la vita materiale e l'integrità del creato. Altrimenti, immaginatevi la peggior distopia e, siatene certi, ve la daranno. O territorialismo, o barbarie.

 

"Cosa mi importa, dopotutto, che vi sia un'autorità sempre pronta, che veglia a che i miei piaceri siano tranquilli, che vola davanti a me per allontanare i pericoli dal mio cammino, senza che io abbia bisogno di pensare a tutto questo; se questa autorità, nel tempo stesso che allontana le più piccole spine sul mio passaggio, è padrona assoluta della mia libertà e della mia vita; se monopolizza il movimento e l'esistenza al punto che quando essa languisce, languisce tutto intorno a lei, che tutto dorme, quando essa dorme, che tutto perisce quando essa muore? Vi sono in Europa certe nazioni in cui l'abitante si considera come una specie di colono indifferente al destino del luogo in cui abita. I più grandi cambiamenti sopravvengono nel suo paese senza il suo concorso; egli non sa precisamente quel che è successo e ne dubita, poiché ha inteso parlare dell'avvenimento per caso. Non solo, ma il patrimonio del suo villaggio, la pulizia della sua strada, la sorte della sua chiesa e della sua parrocchia, non lo toccano affatto; egli pensa che tutte queste cose non lo riguardano in alcun modo, perché appartengono ad un estraneo potente, che si chiama il governo. Quanto a lui, non è che l'usufruttuario di questi beni, senza spirito di proprietà e senza idee di miglioramento. Questo disinteresse di se stesso si spinge tanto in là che se la sua sicurezza o quella dei suoi figli è compromessa, invece di cercare di allontanare il pericolo, egli incrocia le braccia per attendere che l'intera nazione venga in suo aiuto. Quest'uomo, del resto, benché abbia sacrificato completamente il suo libero arbitrio, non ama l'obbedienza più degli altri; si sottomette, è vero, al beneplacito di un impiegato, ma si compiace di sfidare la legge, come un nemico vinto, quando la forza si ritira. Così oscilla senza tregua fra la servitù e la licenza."

(fonte: Alexis de Toqueville, De la Démocratie en Amérique, Parigi, 1835-40. Edizione italiana: La democrazia in America, Rizzoli, Brescia,
1995, pp.96-97)

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A cura del gruppo di studio che coordina il Forum 2043 - Brandizzo, Caivano e Chivasso, 1 settembre 2043

L'immagine del "centralismo burocratico" di corredo a questa pagina è tratta da https://jovencuba.com/

 

Imparare a essere autocritici dal Friuli al Trentino e oltre

  • Autore: Roberto Visentin, presidente di Autonomie e Ambiente - Udine-Trento, domenica di Pasqua, 9 aprile 2023

Dal Friuli al Trentino e oltre, condividere esperienze per far crescere una nuova generazione autonomista

di Roberto Visentin (autonomista friulano, presidente di Autonomie e Ambiente)

Passate le elezioni regionali del Friuli-Venezia Giulia, condividiamo le nostre esperienze e segnaliamo i nostri errori, perché il tutto serva alla crescita dell’autonomismo in tutti i territori.

Il candidato autonomista Massimo Moretuzzo ha avuto, per la qualità del suo lavoro come esponente di opposizione in consiglio, il sostegno di gran parte del centrosinistra. Mentre il presidente uscente e ricandidato, Fedriga, aveva il sostegno della destra centralista.

Ricordando anche che in Friuli-VG la legge elettorale esclude dall’elezione il candidato presidente che arriva terzo, incentivando il bipolarismo, questa contrapposizione era praticamente obbligata.

La soddisfazione del buon risultato del Patto per l’Autonomia F-VG (che ha aumentato in voti e in seggi) non può far dimenticare le criticità di questa avventura elettorale.

Le scelte imposte dal sistema elettorale non sono mai indolori, per nessuno dei concorrenti.

Non c’è alcuna possibilità di dialogo con le attuali Lega Salvini e Fratelli d’Italia, per gli autonomisti. Sono due piramidi politiche ostili alle diversità territoriali e i loro esponenti periferici non sono quasi mai leader locali autonomi, ma spesso “yesmen” dei loro capi milanesi e romani.

Qualcuno di loro, con dichiarazioni di circostanza, si presenta diversamente, come “pro autonomia”, ma le loro opere e ancora di più le loro omissioni, rivelano il loro centralismo.

C’è invece dialogo con le molte anime del centrosinistra e con molti altri movimenti civici e ambientalisti. Tuttavia, alle strutture centrali del PD, partito che ha la maggiore forza strutturata residuale in quel campo, rimproveriamo di aver perso una occasione in Friuli-Venezia Giulia. Il PD ha oscurato la candidatura di una figura autonomista, civica, ambientalista, e soprattutto autonoma. Ha tentato persino di arruolarlo fra le proprie fila, durante la campagna elettorale. Sicuramente c’è riuscito mediaticamente, visto che dalla stampa italiana è scomparsa la realtà che il centrosinistra si era alleato con una forza politica orgogliosamente autonomista. Questo, in una regione dove l’elettorato autonomista è largamente maggioritario, non è stata una mossa felice, a nostro modesto parere.

Infine si è ripresentato il grande problema dell’astensionismo, che ha raggiunto il 55%. Vanno a votare praticamente solo gli integrati, i convinti, o i portatori di istanze molto mobilitanti, magari estreme. Non abbiamo alcuna ricetta in tasca, ma non ci rassegniamo al fatto che così tanti concittadini restino esclusi dalla vita politica locale (magari per essere invece mobilitati, dalla forza dei media, quando scenderà in campo il prossimo “salvatore” populista).

Continueremo quindi ad aggiornare i nostri progetti e la loro narrazione, restando autonomisti e soprattutto autonomi politicamente e culturalmente, in Italia e in Europa.

Dovremo essere anche sempre più connessi tra di noi, fra i diversi territori, per porre un freno alle leggi elettorali antidemocratiche, all’incombente presidenzialismo, alla deriva centralista che stanno minando dall’interno la Repubblica delle Autonomie.

Il nostro linguaggio è moderato, la nostra cultura di governo è riformista, ma le nostre idee sulle autonomie personali, sociali, territoriali sono chiare, forti, mai ambigue. Forse sono una possibilità per far emergere una nuova generazione di leader autonomisti e riportare al voto tanti elettori delusi.

Udine - Trento, domenica di Pasqua, 9 aprile 2023

 

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2023 04 09 Roberto Visentin Il Nuovo Trentino

 

In ricordo di Peppino Coffano e della gloriosa UOPA

Riceviamo la notizia della scomparsa di Peppino Coffano, a 93 anni. Le nostre più sincere condoglianze ai suoi familiari, amici e conterranei dell'Ossola, in particolare a coloro che stanno conservando la straordinaria eredità spirituale, culturale e politica della Unione Ossolana per l'Autonomia (UOPA), di cui Giuseppe Coffano fu uno dei padri.

2025 04 02 Giuseppe Peppino Coffano rip

 

Ringraziamo Roberto Gremmo per aver condiviso con il pubblico autonomista una foto particolarmente importante, risalente al 19 gennaio 1979:

1979 01 19 uopa ricordo Gremmo di Coffano

Si tratta di una foto di grande importanza storica. Da sinistra a destra si vedono l'autonomista Luigi Mescia, del Comitato Retico;il poeta piemontese Enea Ribatto; lo stesso Giuseppe Coffano; il fondatore della UOPA Alvaro Corradini; Sergio Gandolfi; al microfono Giorgio Goggio; l’allora ventisettenne Roberto Gremmo. Il penultimo nella foto era il valdese Osvaldo Coisson, uno dei firmatari nel 1943 della Carta di Chivasso. L'ultimo era l'allora presidente dell’ANPI Ossolana, Emanuele Rossi.

Per approfondire:

https://www.lastampa.it/verbano-cusio-ossola/2025/04/02/news/giuseppe_peppino_coffano_morto-15084544/

https://www.lanuovapadania.it/piemonte/unione-ossolana-per-lautonomia-addio-a-coffano-storico-fondatore/amp/ (il ricordo di Roberto Gremmo)

https://it.wikipedia.org/wiki/Unione_Ossolana_per_l%27Autonomia

https://ossola24.it/index.php/12640-solo-il-federalismo-potra-salvare-l-italia-l-uopa-40-anni-dopo-rivendica-le-sue-idee-video?tmpl=component&type=raw

https://www.isimbolidelladiscordia.it/2018/04/le-radici-dellautonomismo-cercatele-in.html (un importante articolo di Gabriele Maestri)

https://www.ilrosa.info/cronaca/la-memoria-fa-grande-una-comunita

 

Domodossola, 2 aprile 2025 - a cura della segreteria interterritoriale

 

 

 

In ricordo di Sergio Salvi

Abbiamo appreso oggi, lunedì 24 aprile 2023, della scomparsa di Sergio Salvi, avvenuta ieri, 23 aprile.

Lo studioso fiorentino e toscano è stato un pioniere degli studi in lingua italiana sui popoli senza stato, le colonie interne agli stati europei moderni, le identità, gli autonomismi, la difesa delle lingue madri e delle forme vernacolari. Alla famiglia, in particolare alla vedova Elda, le sentite condoglianze di tutta la famiglia di Autonomie e Ambiente, in particolare di nostri attivisti toscani, romagnoli, friulani e sardi, che lo hanno conosciuto e stimato da più lungo tempo.

Sergio Salvi era nato a Firenze il 3 luglio 1932. Una serena e operosa vecchiaia è stata interrotta da una dolorosa malattia.

La benedizione della salma si tiene mercoledì 26 aprile 2023, alle ore 15, nella chiesa del Corpus Domini, in Via Reims, angolo Via Gran Bretagna.

Lo studio di Sergio Salvi forse più conosciuto anche a livello internazionale è il disseminativo "Le nazioni proibite. Guida a dieci colonie "interne" dell'Europa occidentale",Vallecchi,Firenze, 1973. Il libro è citato anche da un suo coetaneo e anch'egli recentemente scomparso, il grande Tom Nairn.

Ricordiamo anche "Le lingue tagliate. Storia delle minoranze linguistiche in Italia",Rizzoli, Milano, 1975, e "Patria e matria. Dalla Catalogna al Friuli, dal Paese Basco alla Sardegna: il principio di nazionalità nell'Europa occidentale contemporanea",Vallecchi, Firenze, 1978.

Sergio Salvi, come rappresentante di un antico e radicato autonomismo toscano, è stato presente in molti momenti della storia della nostra famiglia politica decentralista, come per esempio nelle pionieristiche esperienze delle liste Federalismo.

In tempi più recenti Sergio Salvi si era cimentato in una riflessione sulla storia moderna della Toscana, che ha avuto una notevole risonanza: "L'identità toscana. Popolo, territorio, istituzioni dal primo marchese all'ultimo granduca", Le Lettere, Firenze, 2006.

Per chi vuole conoscere meglio la sua figura, i suoi molteplici interessi, la sua vasta cultura, rimandiamo alla pagina a lui dedicata da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Sergio_Salvi.

Nella foto, Sergio Salvi a Riccione (fu accompagnato da Mauro Vaiani), a un convegno del Movimento per l'Autonomia della Romagna sulla salvaguardia della propria cultura e lingua vernacolari, il 17 marzo 2018.